martedì 5 dicembre 2017


Repubblica.it 807 Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo I medici siriani in fuga con le famiglie dagli orrori di Aleppo. Il pilota maltese incapace di dimenticare i corpi inghiottiti dal mare in attesa di soccorsi italiani che non arriveranno mai. Ecco le storie del naufragio dell’11 ottobre 2013. Che è costato la vita a 268 persone. E che ha cambiato la nostra storia GUARDA LA WEBSERIE di FABRIZIO GATTI Stampa 13 ottobre 2017 807 PROTAGONISTI PILOTA DOTTORE LA FINE DELLA PACE VOLO MEDICI FUGA IL MARE EPILOGO L’estate a Vargön è fresca come una mattina d’ottobre. Vargön riflette esattamente quello che il mondo si immagina della Svezia: un posto pacifico, biondo e silenzioso. I larici sull’attenti tutt’intorno. L’unica piazza, che è anche la fermata dell’autobus. E la schiera di villini. Lì, lungo la strada senza traffico che scende alla spiaggia sul lago Vänern, una pianura d’acqua immobile dentro cui si specchiano pescatori e tramonti. Sembra non ci sia nulla da raccontare a Vargön. Da mesi la notizia più importante è l’arrivo del nuovo medico. Quasi tutti i cinquemila abitanti sanno che ha un nome per niente svedese. E chi l’ha conosciuto, dice che sia di una umanità e una gentilezza rare. Il dottor Mazen Dahhan è un neurochirurgo membro della prestigiosa Associazione Americana di Neurochirurgia. Al centro clinico del paese però lavora come medico di base. Visite, diagnosi, ricette e tanti piccoli interventi da day-hospital. Il dottor Dahhan non ha ancora quarant’anni. È nato in ottobre: il 30 ottobre 1977. Si è sposato in ottobre. E sempre il mese di ottobre l’ha reso papà per la seconda volta. Il 9 ottobre è infatti il compleanno di Tarek, capelli biondissimi e un sorriso che ti ruba il cuore. Poi ci sono Mohamed, il fratello più grande e fin troppo intelligente per la sua età, e Besher, il più piccolo ad arrivare in famiglia. L’ultima volta che il padre li ha visti, Mohamed aveva otto anni, Tarek quattro, Besher appena uno. Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Mohamed Dahhan con i fratelli Besher e Tarek Condividi Sono passati quattro anni, ormai. Ma il dottor Dahhan li sente al telefono tutte le sere. Aspetta con impazienza che faccia buio e a Vargön d’estate fa buio poco prima di mezzanotte. Poi spegne le luci della sua casa da single svedese, camera da letto, bagno e il soggiorno ben arredato con l’angolo cucina. Gli basta il bagliore del balcone illuminato dai lampioni della strada. Non passa nessuno fuori. Anche il negozio di fronte ha spento le insegne. Quattro vetrine piene di giocattoli per animali da compagnia. Proprio così. A queste latitudini non nascono abbastanza bambini. I nonni del paese li vedi portare al parco gatti e cagnolini. Nel più totale silenzio adesso il dottor Dahhan prende dalla tasca della giacca lo smartphone, si siede sul divano, digita qualcosa sul telefono e a occhi chiusi si abbandona all’ascolto più sublime della giornata. I protagonisti Il neurochirurgo Mazem Dahhan Il neurochirurgo Mazem Dahhan Neurochirurgo di Aleppo, prima di attraversare il Mediterraneo ha cercato lavoro negli Emirati Arabi, per trasferirsi lì con la famiglia. Ora fa il medico di base a Vargön, un piccolo paese della Svezia, dove vive solo Il medico Ayman Mostafa Il medico Ayman Mostafa Medico chirurgo, quando i combattimenti hanno diviso in due Aleppo, si è trasferito con la famiglia a Misurata dove ha trovato lavoro in ospedale. Ora vive a Malta e lavora come chirurgo al “Mater Dei” La chimica Reem Chehada La chimica Reem Chehada Laureata in chimica, 30enne, è la moglie del dottor Dahhan e mamma di tre figli. Scoppiata la guerra ad Aleppo, la famiglia si trasferisce a Tobruk, in Libia. Reem e i suoi bambini sono scomparsi in mare La mamma Fatena Katib La mamma Fatena Katib Ingegnere, 28 anni, è la moglie del dottor Mostafa e la mamma di Joud, 3 anni. La sua è stata la prima famiglia del gruppo di colleghi a spostarsi a Misurata. Fatena e la piccola Joud sono scomparse in mare Il pilota George Abela Il pilota George Abela È il comandante dell'aereo ricognitore maltese che chiede via radio l'intervento immediato di nave Libra, perché il barcone è instabile e sovraccarico. Ha lasciato le forze armate La comandante Catia Pellegrino La comandante Catia Pellegrino Tenente di vascello, allora comandante di nave Libra, l'11 ottobre 2013 è per tutte le cinque ore che precedono il naufragio a poche miglia dal peschereccio che sta affondando L'anestesista Mohanad Jammo L'anestesista Mohanad Jammo Vive in Germania con la moglie, l'unica figlia sopravvissuta e altri due bambini. Nel naufragio ha perso i figli Mohamad, 6 anni, e Nahel, 10 mesi. È la persona che dal peschereccio contatta la Guardia costiera La maggiore Ruth Ruggier La maggiore Ruth Ruggier Prima donna ufficiale delle Forze Armate di Malta, è l'operatrice del Centro coordinamento soccorsi maltese che tenta di convincere la Guardia costiera a inviare nave Libra, la più vicina al peschereccio Ci sono i medici di Aleppo che cercano di salvare le loro famiglie tentando la traversata verso l’Italia. E ci sono gli ufficiali italiani che non rispondono alle richieste d’aiuto arrivate dalla barca e dai colleghi maltesi, lasciandola affondare. Ecco i personaggi che hanno vissuto la tragedia che ha sconvolto l’Europa e fatto nascere la missione Mare Nostrum. Il pilota di Malta La stessa ora a Mugiarro, un paesino perfino più piccolo di Vargön, tremilacinquecento chilometri più a Sud, il caldo e le esplosioni tengono svegli tutti quanti fino a notte. È la stagione delle feste a Malta e non ci sono proteste per l’insonnia. Quest’anno su Facebook lo spettacolo lo si può vedere addirittura dal cielo. Nessuno ha mai filmato gli scoppi pirotecnici così da vicino. Merito di George Abela e della sua ultima creatura. Quel drone lo cura come un figlio. Non lo perde mai di vista. Il maggiore Abela, anzi l’ex maggiore Abela, guida il suo giocattolo fin sopra la pioggia di lampi e scintille. Lo pilota da un’altura a ridosso della chiesa della festeggiata, la Beata Vergine. Lui sempre con gli occhi e i baffoni puntati verso il cielo. E pollici e indici stretti sulle leve del radiocomando. Ora deve mandare la telecamera volante un po’ più a destra per evitare che lo spostamento d’aria degli ordigni abbatta l’impresa. Ha già in mente il titolo del film da montare e postare sulla sua pagina Facebook: “Inside the explosion”, dentro l’esplosione. E anche la colonna sonora. Non può che essere la “Walkürenritt”, la Cavalcata delle Valchirie di Wagner, non c’è dubbio. L’allegro di quelle note in crescendo già risuona tra un botto e l’altro nella sua mente. Illuminato dai bagliori rosso fuoco, George Abela per un attimo ricorda il tenente colonnello Bill Kilgore, quello della scena di guerra più famosa, il massacro dal cielo di “Apocalypse Now”. Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi Se non avesse assistito anche lui al massacro dal cielo, oggi l’ex maggiore Abela sarebbe sicuramente un tenente colonnello. Ne avrebbe l’età, il carisma, l’esperienza. Ma dopo quel pomeriggio di metà ottobre ha deciso di mettere i piedi a terra. Per sempre. Via la divisa. Addio al brevetto di pilota. Fine della carriera. Dentro le Forze Armate di Malta è diventato un caso famoso. Da ragazzo l’avevano mandato in Italia a studiare. Corso Nova dell’Accademia aeronautica, anno 1992. Le prime acrobazie nel cielo di Latina. L’abilitazione militare sugli Aermacchi SF 260. E poi la specializzazione a Viterbo: pilota osservatore. Ha cominciato così. Ed è diventato istruttore. Lo si vede ancora volare su Youtube, in un video che George Abela ha messo in rete nel 2009. Le ali del Bulldog militare dietro il primo piano del suo casco bianco e rosso planano a qualsiasi quota. Su e giù sotto le nuvole e sopra le scogliere di Malta, come fossero il suo drone di adesso. È un inno alla vita, quel video. La canzone degli Aerosmith che George ha messo sulle immagini delle sue prodezze, risentita dopo quello che è successo, è più struggente che mai: «Non voglio chiudere i miei occhi, non voglio cadere addormentato... Non voglio perdere nulla, I don’t want to miss a thing». In quella voce graffiante c’è tutto il futuro dell’allora maggiore Abela. Il periodo da istruttore sui Bulldog è terminato. Ora deve fare davvero il pilota osservatore: coordinare dall’alto le operazioni di soccorso e, come dice la canzone, non perdere proprio nulla. Lo Stato maggiore militare lo ha selezionato per il nuovo acquisto del governo maltese. Un gioiello finanziato dall’Unione Europea: il King Air B200, l’ultima generazione di aereo ricognitore, l’angelo del cielo con cui il comandante George Abela e il suo equipaggio dovranno pattugliare le frontiere meridionali dell’Europa. Il Sud del Mediterraneo è in fiamme. Prima la Tunisia. Poi l’Egitto, la Libia, la Siria. C’è un mondo in fuga che sta attraversando il mare. Ma adesso la festa pirotecnica sulla cupola della Beata Vergine è finita. L’ex maggiore fa atterrare il suo drone. Prima di rientrare a casa, passa dalla piazza. Qualche amico sonnambulo ha ancora voglia di scherzare. George un po’ meno. Chi lo conosce nota che non è più l’ufficiale allegro e anticonformista di un tempo. Un dottore in Svezia A quest’ora della notte intorno a Vargön si muovono soltanto le volpi e qualche rapace notturno. Il dottor Dahhan sorride nel dormiveglia. La voce di Tarek nel telefonino gli dà sempre allegria: «Baba, baba...». È il figlio che ama di più. Ama anche Mohamed e Besher, ovviamente. Ma Mohamed è il più grande. Besher è ancora troppo piccolo per parlare. E Tarek, come tutti i secondi figli della sua età, sa farsi spazio con gli occhioni dolci e i suoi modi da cucciolo. Pensare a loro significa rivederli in mezzo ai loro giochi, o davanti ai film preferiti. C’è l’eroe di un cartone animato di nome BenTen. E c’è un mostro che ha quattro occhi e quattro mani. Il dottor Dahhan ha anche comprato il pupazzo di BenTen. Tarek era molto felice quando l’ha ricevuto. Ci dormiva perfino insieme. Molte volte Mohamed e Tarek, quando la sera guardavano un film, si addormentavano sul pavimento. Allora il papà li abbracciava e li portava a letto. Gli piaceva anche stendersi sul lettone in mezzo a loro. Oppure se li metteva tutti e tre seduti intorno, Mohamed, Tarek e Besher. Prendeva un peluche e con lui nelle mani inventava la storia della buonanotte. Il dottor Dahhan baciava sempre i suoi bambini prima di andare a dormire. E ancora adesso vorrebbe farlo. «Tutte le volte che vedo i bambini qui in Svezia», confida un giorno, «mi ricordano i miei bambini. Mi piacciono molto i bambini. Quando li portano al centro medico, vorrei tanto abbracciarli, baciarli. Ma non è accettabile. La gente potrebbe pensare male. Potrebbe credere di avere di fronte una specie di pedofilo. E non è così». Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi Tarek ha un’altra passione: Spongebob e tutto quanto riguarda la serie di cartoni animati. Mohamed invece è già in età da Lego e Play Station. Sì, Mohamed. Il papà se lo immagina spesso mentre guida Saetta McQueen. Seduto sul tappeto davanti alla tv, telecomando in mano fino all’ultima curva. Quando ha visto il film “Cars”, si è innamorato di quella macchina. Aveva un modellino rosso di Saetta, il suo preferito, gli occhi sul parabrezza, il sorriso nel paraurti. Gli piaceva anche un altro film: “Alla ricerca di Nemo” con Dory, la pesciolina smemorata. A volte erano discussioni senza fine con Tarek che invece voleva sempre vedere “Dora l’esploratrice”. Oppure “Baby Einstein” e i suoi amici animali. Davanti alla tv non ci sono confini. I bambini sono ovunque bambini. La fine della pace La guerra in casa Dahhan entra all’improvviso. In quel momento tutta la famiglia abita ad Aleppo, nel Nord della Siria. Una bella casa. Centocinquanta metri quadri di appartamento. E una terrazza che aggiunge un altro venti per cento di superficie. Il dottor Dahhan è uno dei più giovani e più preparati neurochirurghi dell’Ospedale universitario. Laurea in Russia, un tirocinio negli Stati Uniti a Boston. Opera personalmente al cervello e alla spina dorsale e, nel poco tempo libero, lavora nelle cliniche private. Va dove lo chiamano. Gli ospedali pubblici fanno curriculum. Quelli privati aiutano ad arrotondare lo stipendio statale. Turni da più di dodici ore. Giorno e notte. Quando torna dai suoi bambini è stravolto. Ma a volte la sera c’è ancora tempo per sfidare Mohamed e la sua Saetta McQueen alla Play Station. Anche la mamma dei suoi bambini, la sua splendida Reem, è laureata. Reem Chehada ha studiato chimica. Ma si è subito sposata con Mazen e uno dopo l’altro sono nati Mohamed, Tarek e Besher. Il duro lavoro di mamma moltiplicato per tre non le lascia tempo di fare altro. Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi È difficile stabilire il vero inizio della guerra», racconta il dottor Dahhan la sera a Vargön prima di tornare a casa, «perché è scoppiata gradualmente. Ma ricordo bene il momento in cui i tuoni delle esplosioni han cominciato a essere più forti. Ricordo quel momento preciso cosa stavamo osservando dalla terrazza con mio figlio. C’era un aereo che volava e scendeva basso. È venuto giù e sparava, sparava, sparava. Ricordo anche il momento, di notte, quando ti sembra che stai vivendo in un film. Hanno tolto l’elettricità e non c’è una sola luce in tutta Aleppo e vedi che stanno sparando da una parte e stanno sparando dall’altra. E sai che devi tenere te stesso, tua moglie e i bambini al centro della casa e non devi avvicinarti alla terrazza o alle finestre. Ricordo poi il momento in cui hanno cominciato con i cannoni. Cannoni assordanti. È stato uno shock per tutta la gente di Aleppo». È a quel punto che i cartoni animati, da storie per divertire i bambini, diventano farmaci contro la paura. «Quando i tuoni erano molto forti», spiega Mazen Dahhan, «durante gli attacchi, le sparatorie e i bombardamenti, accendevo la tv sui cartoni o su un film, alzavo il volume il più possibile e facevo in modo che i bambini non sentissero niente da fuori. Come se non stesse succedendo nulla. Li tenevo lontani così dai rumori della guerra». Tarek e Besher ancora non capiscono cosa sia. Ma Mohamed è consapevole. Sa che esiste un conflitto, che ci sono due schieramenti. E che tutti e due hanno torto. «Perché? Perché si combattono?», chiede un giorno al papà pieno di rabbia contro gli adulti. Poi va a chiudersi in camera sua e scrive la risposta. Di quel giorno il dottor Dahhan conserva la fotografia della pagina di un’agenda pubblicitaria, di quelle che i medici portano a casa dal lavoro. «Voltaren, a winning strategy», è stampato in basso a destra, accanto al logo del famoso antinfiammatorio. E in alto a matita, tre righe con la calligrafia di Mohamed: «Un giorno sarò un inventore e un soldato e sono sicuro che risolverò la situazione».In quel periodo il dottor Dahhan ha già cercato lavoro fuori dalla Siria. Il suo appello è ancora su Facebook. È lì da venerdì 3 febbraio 2012. Aleppo si ritrova divisa. Dopo la preghiera scoppiano le proteste. Ormai si spara in città, nei quartieri del centro e intorno alla Medina, il cuore antico della Firenze d’Oriente. Quel 3 febbraio nei pronto soccorso consegnano i primi cinque morti. Anche se le notizie circolano con difficoltà, da medici non è difficile capire cosa stia succedendo. Reem e Mazen ne hanno già parlato qualche giorno prima. Hanno deciso di portare i bambini lontano e al sicuro. «Cari amici», scrive quella sera il dottor Dahhan sulla sua pagina Facebook, «lascerò la Siria per una visita di due settimane negli Emirati Arabi. Vorrei trovare un lavoro come neurochirurgo e sto cercando di contattare diversi ospedali. Se qualcuno conosce un buon ospedale o può dirmi come trovare buoni alloggi per due settimane, allora per favore fatemi sapere. Grazie a tutti». Gli Emirati sembrano la meta ideale. Si parla arabo, hanno un buon livello di sanità, cercano specialisti. «Al secondo esame, ho ottenuto l’abilitazione per lavorare», rivela il dottor Dahhan: «Alla fine sono rimasto lì due mesi. E due giorni prima di ripartire, ho trovato il lavoro. Ho incontrato il direttore del reparto di chirurgia di un grande ospedale. Mi ha detto: stiamo cercando chirurghi come te, mandiamo delegazioni ad assumere medici perfino in India, dove sei stato tutto questo tempo? Serviva soltanto il visto per lavorare. Mi avevano già respinto una domanda, perché la sola abilitazione non bastava. Ma nemmeno adesso che ho il lavoro, basta. Viene respinta anche la seconda richiesta. Una volta noi medici siriani eravamo i benvenuti ovunque». Quel giorno gli Emirati insegnano cosa vuol dire avere la guerra in casa: non ti vuole più nessuno. Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi Il dottor Dahhan torna ad Aleppo. I bambini lo accolgono come un eroe. Reem lo consola. Si dimenticano degli Emirati e cercano di continuare la loro vita. Ma il dovere di un padre è mettere al sicuro la propria famiglia. Il dovere di un medico è curare i feriti, da qualunque parte vengano. Il dovere di un uomo vero è opporsi alla guerra. E il dilemma è sempre lo stesso: rimanere o partire? Il 12 luglio 2012 è un giovedì. Due giorni prima era il compleanno della sua splendida Reem. Il ventinovesimo. Ormai è evidente che il conflitto ha superato il punto di non ritorno. Il 12 luglio Mazen Dahhan condivide su Facebook la foto di una caravella e la famosa frase attribuita a Cristoforo Colombo: «Non si può mai attraversare l’oceano se non si ha il coraggio di perdere di vista la riva». Adesso dal telefonino, appoggiato sul tavolino davanti al divano, lo chiama la moglie: «Habibi, habibi, amore », gli dice, così come gli ha sempre sussurrato. In volo sulla morte George Abela va a letto con la luna di traverso. Arrivato a casa, ha rimesso a posto il drone. Ma ha avuto la pessima idea di controllare le mail al computer prima di dormire. Gli hanno scritto dall’Italia. Gli chiedono che parli, che racconti tutto quello che sa, che finalmente si liberi dei demoni che da quattro anni si porta dentro. Quello che ha visto del massacro ancora lo tormenta, di giorno e di notte. Ma cosa poteva fare di più? Si è tolto per sempre la divisa, ha cambiato vita. È l’unico ufficiale ad averlo fatto. L’unico coerente fino in fondo. Certo, il dubbio continua a rodere. Forse avrebbe dovuto gridare di più alla radio sul canale 16 delle emergenze in mare. Avrebbe potuto farsi passare Catia Pellegrino, la comandante in persona di quel P402, il pattugliatore della Marina militare italiana che tutti conoscono come nave Libra. Avrebbe dovuto mettere gli ufficiali della Libra di fronte ai loro doveri militari e civili. Oppure no, forse avrebbe potuto insistere di più con la sua collega Ruth Ruggier, perché alzasse la voce con gli italiani. Ma tra forze armate esiste un galateo. È per questo che George Abela si è congedato prima del tempo: quel pomeriggio in volo a 61 miglia da Lampedusa e a 118 miglia da Malta ha scoperto che il galateo, gli accordi tra governi, la cooperazione tra alleati sono semplicemente una farsa. Ecco: gli avvocati italiani che vogliono la verità, Alessandra Ballerini ed Emiliano Benzi di cui lui ha letto i nomi sui giornali, o quel giudice siciliano che ha impedito l’archiviazione dell’inchiesta, perché non cercano direttamente Ruth Ruggier? Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi Il maggiore Ruth Ruggier il pomeriggio che ha cambiato la vita a George Abela è l’ufficiale di servizio nella sala operativa del Centro coordinamento soccorsi di Malta. Ruth è figlia d’arte. Il papà era entrato come sottufficiale maltese nella Royal Air Force, l’aeronautica militare britannica. E quando Londra ha chiuso la base aerea sull’isola, lui ha trasferito la famiglia in Inghilterra. Per questo la figlia parla inglese con accento perfetto. E non è l’unica eccellenza nel suo curriculum. Ruth Ruggier è anche la prima donna ufficiale delle Forze Armate di Malta. Si è arruolata nel 1993 e due anni dopo è la prima cadetta maltese a completare il duro addestramento alla Royal Military Accademy di Sandhurst, l’accademia reale dell’esercito che appena fuori Londra ha formato ufficiali della Regina come i principi Henry e William, il re Abdallah di Giordania, o il creatore di James Bond, Ian Fleming. Dietro il suo bel volto mediterraneo ha un carattere di ferro. È campionessa femminile nelle gare di nuoto e corsa tra reparti militari. Ma riesce anche a essere una mamma affettuosa. Il maggiore Ruggier è sposata con un collega. Lei e il tenente colonnello Ian Ruggier sono genitori di tre figli bellissimi. Il pomeriggio del massacro il comandante George Abela, seduto sul sedile sinistro del King Air in volo da quasi un’ora, le ha tutte e due a portata di radio. Sul canale 16 Vhf marino la prima ufficiale donna italiana a comandare una nave da guerra, il tenente di vascello Catia Pellegrino, che non risponde alle sue richieste di soccorso, così come non rispondono gli altri ufficiali di nave Libra. E sul canale riservato della Difesa, la prima ufficiale donna delle Forze Armate di Malta. Il maggiore Ruth Ruggier fa tutto quello che deve fare con scrupolo e intelligenza. Lei chiama gli italiani, li sollecita via fax in modo che ne resti prova. Chiede che mobilitino al più presto nave Libra perché è la più vicina. Vuole che sia messa sotto le dirette istruzioni del comandante Abela che osserva tutto dall’alto. Tutto giusto, tutto perfettamente rispettoso del galateo tra Stati e forze armate. Ma quando senti che l’ufficiale di servizio della Guardia costiera italiana e la Marina militare ti fanno perdere tempo, rimbalzano le tue richieste di soccorso e capisci che sta per compiersi il massacro, non puoi domandare elegantemente: «Who am I talking to, please, con chi sto parlando, per favore? ». Non sei in linea con Buckingham Palace. Sarà forse l’accento reale del maggiore Ruggier, sarà la sua ottima formazione. Ma sicuramente sarebbero più efficaci le bestemmie dei meccanici dell’aeroporto di Luca, gli specialisti che quel pomeriggio hanno consegnato il King Air al maggiore Abela e al suo copilota, il capitano Pierre Paul Carabez. E poi la durata di quella telefonata tra Roma e Malta. È l’ultima che potrebbe evitare la strage di civili: otto minuti di ciance e convenevoli. Un tempo infinito. Immaginate che fiasco sarebbe stato, se il regista Francis Ford Coppola avesse infilato una telefonata di otto minuti all’inizio della sequenza più drammatica di “Apocalypse Now”. I medici di Aleppo Gli abitanti di Aleppo si ritrovano all’improvviso come i vietnamiti del film, sotto il fuoco incrociato della guerra. A fine 2012 parte una violenta azione militare. Il centro storico della Medina viene conquistato dai rivoluzionari. E la città si risveglia tagliata in due dalla prima linea. Mazen Dahhan adesso lavora a tempo pieno nel dipartimento di neurochirurgia all’Al-Kindy Hospital, il più moderno nel Nord della Siria. «Perfino andare a lavorare in quei giorni è un pericolo. Puoi essere ucciso in qualunque momento. Dai bombardamenti, dai cecchini, dalla reazione dei soldati ai checkpoint», racconta il dottor Dahhan: «Avevo perso i contatti con gran parte dei pazienti, tagliati fuori dalla prima linea. Non si poteva più dormire per i tuoni delle bombe, per i missili. E in qualunque momento poteva addirittura peggiorare. Sono corso nel mio ambulatorio a prendere le cose più preziose: il certificato di laurea e i miei strumenti da neurochirurgo. Due giorni dopo tutto quel quartiere è diventato zona militare. Significa che non ci puoi più andare, che puoi essere colpito da un cecchino lungo il percorso. Che esci di casa e non torni più. Quando ci sono urgenze, l’ospedale ti chiama anche la notte e bisogna correre. È l’ora del coprifuoco. Non ci sono macchine nelle strade. Ogni auto che si muove sola è considerata una minaccia, perché può essere un’autobomba o cose del genere. Quindi quando guidi di notte, è meglio abbassare l’intensità dei fari e andare piano. Ma se pensi che sia una zona di cecchini, devi guidare veloce. E poi ci sono i posti di blocco. Come chirurgo, avevo tutti i miei strumenti sterilizzati e pronti all’uso in una borsa: perché in tempo di guerra un neurochirurgo si deve portare gli strumenti da casa oppure perché non sempre gli ospedali avevano tutte le cose che servono in sala operatoria. Così ai posti di blocco se vedevano cosa c’era nella borsa, oppure notavano il sacchetto con i campioni di medicinali che tenevo sempre con me, i soldati potevano pensare che stavo andando a fare interventi nelle zone vietate. Un mio collega è stato accusato di questo e non era vero. Io di solito mi presentavo subito all’inizio, prima che loro controllassero il bagagliaio. Lo dicevo subito chiaramente: sono un dottore, ho un’urgenza in ospedale, prego controllate la macchina. Io sono solo un dottore». Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi Ma nemmeno queste precauzioni possono bastare in tempo di guerra. «Conosco dottori che sono morti. Uccisi ai posti di blocco, dai soldati o dai ribelli. Altri sono stati colpiti per strada mentre andavano al loro ospedale oppure tornavano. Sono stati uccisi da bande di persone che avevano un kalashnikov e hanno sparato. Hanno le armi, fermano la macchina, te la prendono. So di almeno centocinquanta dottori ammazzati in questo modo. Una vergogna». Quella di Aleppo l’hanno chiamata la guerra degli ospedali. «Ho poi saputo che l’Al-Kindi Hospital è stato distrutto», elenca il dottor Dahhan: «C’erano anche ospedali privati come il “Dar al-Shifa”. Distrutti. L’ospedale dei bambini occupato dall’Isis. Distrutto. Quello che chiamavamo l’ospedale francese. Demolito, da un’autobomba, completamente demolito. È stato uno dei primi attentati dentro la città. Lì lavorava il mio amico Mohanad Jammo». La guerra cambia le ferite che un medico deve curare. Al pronto soccorso arrivano adulti e bambini con schegge metalliche o proiettili da rimuovere. E poi le ustioni. Quando fuori hanno cominciato a martellare con i missili, dentro gli ospedali hanno scoperto a quale temperatura scoppiano le bombe intelligenti. E giorno dopo giorno si aprono le ferite interiori. Quelle sono contagiose. Colpiscono anche chi vuole rimanere umano. È la contaminazione dell’anima. I demoni che ti accolgono e ti mostrano che al peggio non c’è fine. «La guerra mi ha cambiato, sì», ammette Mazen Dahhan, «mi ha cambiato moltissimo. Perché ti mostra tante cose nella vita che io non conoscevo prima. Mi ha insegnato che ci sono mostri che vivono tra di noi, ma sono vestiti come noi. Io non lo sapevo. Mostri che abitano accanto a noi, ci parlano, ci sorridono. Ho imparato questo, come padre, che la guerra separa e uccide le famiglie. Uccide qualsiasi attimo di umanità nella gente». Da padre, da medico, da uomo, il dottor Dahhan si convince che Aleppo ridotta così non può più essere la casa dei suoi bambini. L’amico Mohanad Jammo ha appena trovato lavoro nell’ospedale di Misurata, in Libia. Il dottor Jammo, capo degli anestesisti dell’ospedale francese demolito dall’autobomba, ha annunciato che partirà con tutta la sua famiglia. Mohamad, il figlio più grande, avrà presto sei anni. Naya, la sorellina, cinque. E tra poche settimane arriverà il terzo bimbo che hanno deciso di chiamare Nahel. Non può nascere all’inferno, Nahel. Mazen e Mohanad discutono del progetto ogni volta che si vedono. Un altro amico di Mohanad, Ayman Mostafa, lavora da pochi giorni a Misurata. È lui il contatto. Il dottor Mostafa, chirurgo e medico internista, è già andato via con la moglie, Fatena Katib, e la loro piccola Joud, che non ha ancora tre anni. Vista dalla loro città, perfino la Libia sembra un rifugio tranquillo. Fuga dalla Siria Il primo post del 2013 sulla pagina Facebook è una notizia definitiva: «Fine del lavoro nell’ospedale di Aleppo», pubblica il dottor Dahhan. «Ho chiesto al dipartimento di non assegnarmi più interventi», dice ora, «perché quando operi, poi devi seguire il ricovero fino alla fine. Dimesso l’ultimo mio paziente, ferito da un proiettile vagante, ero libero di partire. Abbiamo fatto le valigie con le cose essenziali, il minimo dei vestiti e il necessario per i bambini. Mohamed ha preso i suoi Lego. Tarek i pupazzetti di Spongebob. E abbiamo chiuso la porta. Erano le 8 del mattino, il 5 gennaio 2013. Mia moglie piangeva. L’ho abbracciata. Le ho detto: ok, adesso dobbiamo andare, ma quando la guerra finisce, torneremo. Non sapevo che da quel giorno non saremmo più tornati». Passano in macchina il confine turco. Poi l’Egitto in aereo. E infine dieci ore via terra, su un pulmino a noleggio. Il dottor Dahhan ha trovato lavoro all’ospedale di Tobruk, la città più vicina al confine egiziano. Sono più o meno gli stessi giorni del viaggio di Mohanad Jammo, sua moglie incinta e i due bambini. Arrivano appena in tempo. Poco dopo anche la Libia chiude i confini ai siriani. «Mi faccio portare direttamente al centro clinico di Tobruk», ricorda il dottor Dahhan, «e attraversando la città scopriamo che è assolutamente primitiva. Il clima, prima di tutto. Il caldo del Sahara, anche se è gennaio. E le case. Non c’erano molte costruzioni intorno a noi. Reem accanto a me piangeva perché già era stato molto, molto difficile per lei lasciare Aleppo e forse si aspettava qualcosa di meglio. La mattina dopo, quando abbiamo deciso di andare a scoprire l’area dove avremmo abitato, siamo rimasti scioccati. Non c’era nessuna forma di vita civilizzata intorno a noi». Il dottor Dahhan comincia il suo lavoro di neurochirurgo. Lo stipendio non è male: duemilacinquecento dollari al mese, anche se non sempre i pagamenti sono puntuali. Il problema non sono i soldi, no. «È raccapricciante e per niente piacevole per una donna siriana trovarsi a Tobruk», racconta, «perché quando io sono al lavoro, la mia famiglia è obbligata a rimanere chiusa in casa. Non ci sono parchi giochi o luoghi dove una donna possa andare da sola con i suoi bambini. Anche se si copre completamente il volto, cosa che ad Aleppo non si usava, una donna in giro a Tobruk ha problemi. C’è sempre qualcuno pronto a spaventarla, a molestarla o peggio. Andavamo a fare la spesa al mercato e mi accorgevo che gli uomini la guardavano in modo irritante. Da gente così ti puoi aspettare qualunque cosa. Non c’è nessuna autorità a Tobruk. Le macchine circolano senza targa. E la legge che conta è quella dei clan. L’unica giornata di libertà per noi, Reem, me, i nostri bambini, era il venerdì, quando riuscivamo ad andare in spiaggia. Era la prima volta che Tarek e Besher vedevano il mare». Nemmeno Mohanad Jammo, diventato papà per la terza volta, è tranquillo. Si sentono al telefono. La guerra sta tornando anche in Libia. Praticamente li sta braccando. E i fanatici libici, che puoi incontrare ovunque a Misurata e a Tobruk, li considerano traditori perché non sono rimasti ad Aleppo a combattere al fianco di Al Qaeda. Il dottor Jammo, il dottor Mostafa e gli altri loro colleghi siriani le stanno provando tutte. Spediscono ogni settimana curricula e richieste di visto in Europa, Arabia Saudita, Emirati, Giordania. Niente da fare. A medici che in Libia guadagnano fino a seimila dollari al mese, i democratici Stati dell’Unione Europea non concedono più nemmeno il visto turistico. Le madri e i padri siriani non li vuole più nessuno. Come se la colpa della guerra fosse dei loro piccoli Nahel, Besher, Joud, Tarek, Naya, Mohamad e Mohamed. Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi «Nell’aprile 2013», ammette il dottor Dahhan con un sorriso sarcastico al solo pensiero, «ricevo un’email dal Rashid Hospital di Dubai. Mi spiegano che mi vogliono assumere, quale sarà lo stipendio, quanti saranno i giorni di vacanza e come rimborseranno i voli per arrivare a destinazione. È la risposta alla domanda che avevo presentato durante la mia visita negli Emirati l’anno prima. Il direttore che mi vuole ha studiato e fatto tirocinio a Göteborg, qui in Svezia. Rispondo che accetto. Ma che non posso partire subito perché non mi hanno ancora dato la residenza in Libia e i confini libici sono chiusi ai siriani non residenti. Se parto, rimango fuori per sempre e mia moglie con i bambini restano bloccati a Tobruk. Chiedo se possono aspettare uno o due mesi che sono i tempi della burocrazia libica. E dall’ospedale di Dubai mi rispondono di sì, ok, possiamo aspettare». Il certificato di residenza libico arriva dopo due mesi. Mazen Dahhan ottiene subito un visto turistico e vola a Dubai. In ospedale lo aspettano per il giorno dopo. «Sono sicuro di aver fatto un colloquio molto buono con due medici, uno credo svedese e uno del posto. Illustro il mio curriculum, le operazioni fatte, il mio alto tasso di successo. Mi fanno domande su tutto, medicina, neurochirurgia, complicanze. E io rispondo a tutto. L’esame è in inglese. Esco con l’impressione che sia andata bene. La mia famiglia è salva. Il giorno dopo trovo in email la loro risposta: mi hanno rifiutato, non spiegano perché, ma mi hanno rifiutato. Torno in ospedale. Chiedo un altro colloquio. Mi ricevono. Rispondo correttamente a tutte le loro domande. Se sei preparato, sai quando le tue risposte sono giuste. Li supplico: per favore, viviamo come prigionieri, la mia famiglia è in Libia e la situazione lì è davvero difficile, mettetemi alla prova per uno o due mesi, uno o due mesi, non resterò oltre, faccio quello che volete, ve lo chiedo per la mia famiglia. Non mi dicono il perché. Ma la loro risposta è questa: purtroppo abbiamo deciso di non prenderti, sorry». Il dottor Dahhan corre a noleggiare una macchina. Il visto turistico gli lascia ancora qualche giorno. Attraversa il deserto. Va a chiedere a tutti gli ospedali che trova. In un posto sperduto tra le montagne incontra un neurochirurgo indiano. Devono aprire un nuovo dipartimento. Il dottor Dahhan viene accompagnato dal direttore: «Cominciamo con un contratto temporaneo», lo rassicura il futuro capo, «fai domanda e ti prendiamo». Il visto sta per scadere. Mazen Dahhan consegna la domanda e i suoi recapiti. Compra una valigia di giocattoli per i suoi bambini e torna in Libia. Dove un tassista gli rapina la valigia e i giocattoli. Mandare la famiglia in Turchia in un campo profughi è fuori discussione. In Turchia i siriani non possono lavorare. La moglie però ha uno zio in Libano disposto a ospitare lei e i bambini. Ma arrivare via terra è impossibile: anche l’Egitto ha chiuso le frontiere ai siriani. Rimane l’aereo. Il dottor Dahhan una mattina entra in un ufficio che è una specie di agenzia di viaggi. Gli dicono che il volo c’è, però non si può: tutti gli aerei per il Libano fanno scalo al Cairo e le autorità egiziane non concedono più nemmeno i visti di transito a gente come loro. Nemmeno a una mamma con tre bambini piccoli. La Libia è ormai un vicolo cieco dove le milizie tornano a sparare per strada. La via del mare Mazen si sfoga al telefono con l’amico Mohanad. Scopre che loro, il dottor Jammo e il dottor Mostafa e quasi tutti i medici siriani di Misurata, si sono rassegnati all’idea di scappare con un barcone. L’hanno già fatto altri colleghi e ora sono sani e salvi in Germania o in Svezia. Sono solo due o tre giorni di sofferenza fino allo sbarco in Italia. Anche Mohanad non può più rimanere a Misurata. Un gangster libico ha addirittura messo gli occhi sulla sua bambina di cinque anni: pretende che il dottor Jammo la prometta in sposa a suo figlio. Da medici quali sono, hanno calcolato i rischi della traversata: numero dei morti diviso numero degli arrivati vivi. Secondo i calcoli, fa una percentuale tra l’1,2 e il 3 per cento: per la razionalità di un chirurgo, ma anche per un padre che non sa più come proteggere i suoi bambini, è un rischio minimo che si può affrontare. «Quando dopo il 3 ottobre abbiamo saputo del naufragio di Lampedusa», rivela oggi il dottor Dahhan, «abbiamo sentito che avevano acceso un fuoco sul barcone per farsi vedere. E abbiamo pensato che accendere il fuoco su una barca di legno fosse una cosa stupida. Noi non avremmo acceso nessun fuoco. E se c’era già stato un naufragio la settimana prima, per la teoria del caso c’erano pochissime probabilità che potesse succedere a noi la settimana dopo. La strage di Lampedusa invece di scoraggiarci, ci ha incoraggiati a partire». "Un unico destino - Tre padri e il naufragio che ha cambiato la nostra storia'' - Il trailer Condividi La sera del 10 ottobre 2013 tutti i 480 passeggeri, tra cui cento bambini e trenta famiglie di medici, aspettano nel buio sulla spiaggia di Zuwara. Il segnale di luce dal peschereccio in arrivo è questione di minuti. Proprio in quel momento il dottor Dahhan riceve un messaggio su Whatsapp. Gli scrive il medico indiano che ha incontrato tra le montagne negli Emirati. Gli comunica che non lo prenderanno: non possono assumere siriani ora. Quello è l’ultimo messaggio sul suo numero di telefono libico. Mazen lo fa vedere a Reem, che continua a piangere per la paura: «Era ovvio», le dice, «non ci vogliono. Non ci resta che andare in Europa». Alla famiglia Dahhan tocca stringersi tra le persone ammassate nella parte bassa del peschereccio. Li accoglie una terribile puzza di benzina e petrolio e il ronzio di un ventilatore, messo lì perché non muoiano asfissiati. «A mezzanotte stiamo ormai navigando veloci verso l’Italia e sentiamo le grida. Dai bagliori capiamo che ci hanno puntato un faro. Noi sotto non possiamo vedere cosa accade là fuori», racconta il dottor Dahhan: «Dicono che ci sta inseguendo una motovedetta libica. Spariscono e ritornano e noi ci addormentiamo sfiniti. Ci risveglia il suono di un martello che batte sul metallo, toc, toc, toc. Venti colpi o poi molti altri. Dopo pochi secondi alcune persone gridano per il dolore. Gridano e io vedo un buco nella parete dello scafo, esattamente tra me e Reem. Ci hanno sparato. Il proiettile è penetrato e ha colpito due persone vicine a noi. Abbraccio Tarek e Mohamed. Reem stringe Besher. Mia moglie ha smesso di piangere e mi guarda sotto shock. Devo alzarmi a medicare i feriti. Non abbiamo nulla. Solo magliette strappate a strisce per fermare l’emorragia. È quello il momento preciso in cui l’acqua ha cominciato a entrare nello scafo bucato dalle raffiche di mitra». Passano le ore. Mohamed, Tarek, Besher sono ancora accanto alla mamma e al papà. «Tarek era in piedi vicino a me e mi dice: papà, come mai le nostre borse sono finite in mare? L’acqua dentro lo scafo è ormai alta più di mezzo metro. Il peschereccio è molto instabile. Sbanda a destra e a sinistra e fa fatica a raddrizzarsi. Chiedo a Dio che ci aiuti. Prendo Mohamed, Tarek e Besher. Li porto di sopra, all’aperto e li consegno ad Ayman, il dottor Mostafa. Trattali come se fossero i tuoi figli, gli dico, se succede qualcosa, prenditi cura di loro. Proprio così e questo è stato l’ultimo momento in cui ho visto i miei bambini». Epilogo A bordo qualcuno prega, qualcuno piange, molti gridano, una donna sta partorendo. A un certo punto un tale si alza in piedi, urla qualcosa al vento e butta in mare manciate di banconote: «Guardate, ho centomila euro», sbraita impazzito e svuota manciata dopo manciata tutta la sua borsa. Non ci sono soltanto medici tra di loro. Anche commercianti, imprenditori. La borghesia siriana. «Sono tornato di sotto da Reem. Mia moglie mi fissava e piangeva», ricorda quasi in trance il dottor Dahhan: «Io non riuscivo a guardarla, perché mi vergognavo di me stesso. Reem, Mohamed, Tarek, Besher, cosa vi ho fatto? Li avevo portati io lì sopra. Ci siamo abbracciati. In quel momento, il barcone si è rovesciato. Ho stretto Reem da dietro. Piangevo e la tenevo. Fino a quando la forza dell’acqua me l’ha strappata via. Aveva 30 anni la mia Reem». È così che per 268 persone, tra cui sessanta bambini, il fragore del mare si placa del tutto. Duecentosessantotto morti su 480 siriani in fuga. Manca poco al tramonto dell’11 ottobre 2013. L’allora maggiore George Abela, il suo copilota Carabez, l’operatore ai sistemi di bordo e i due osservatori li vedono annegare dal cielo, uno dopo l’altro. A ogni giro del loro aereo ricognitore assistono alla roulette dei minuti che separa i sommersi dai salvati. Besher, Tarek e Mohamed Dahhan, la loro mamma Reem, Joud Mostafa e la sua mamma Fatena, Mohamad Jammo e il suo fratellino Nahel, nato dopo l’arrivo della famiglia in Libia: anche loro scompaiono tra i sommersi. Dal maggiore Ruggier su su fino al comando generale delle Forze Armate di Malta sanno bene cosa è successo. George Abela l’ha firmato nel rapporto di fine missione, prima di togliersi la divisa per sempre: la Marina militare italiana è rimasta a guardare per quasi cinque ore. Dalle 12.26, con la prima chiamata di emergenza alla sala operativa di Roma della Guardia costiera. Fino alle 17.07, il momento esatto del capovolgimento del peschereccio. E la Libra sempre lì, a poche miglia, trenta, quaranta minuti di navigazione appena. Perché il comando in capo della Marina militare ordina alla comandante Pellegrino di allontanarsi dal peschereccio alla deriva? Perché gli ufficiali della nave italiana non rispondono alle disperate chiamate radio di George Abela? Due domande per spiegare il massacro. «L’imbarcazione è sovraccarica e molto instabile», ripete e ripete il comandante del King Air sul canale delle emergenze, quando manca più di un’ora al naufragio e c’è ancora tempo per andare a salvarli. «We are dying, stiamo morendo», grida per tutto il pomeriggio al telefono satellitare il dottor Jammo, in linea con la sala operativa della Guardia costiera italiana. Una registrazione che ha fatto il giro del mondo. A volte la vita scorre davvero al contrario. Intreccia vivi e morti, angeli e demoni. E li annoda in un unico destino. Ciascuno ha le sue ragioni. George Abela ha smesso di volare e filma fuochi d’artificio. Catia Pellegrino è diventata una star. Un film su di lei. Il libro autobiografico. E la decisione del suo comando di trasformarla nel volto immagine di Mare Nostrum. Se l’Italia non avesse dato il via alla più grande missione umanitaria del Mediterraneo, decisa proprio sulle emozioni dell’11 ottobre, l’allora comandante di nave Libra sarebbe oggi semplicemente un nome nell’elenco degli indagati per il naufragio. Omissione di soccorso e omicidio sono le accuse contro gli ufficiali italiani. Ma per ora possono stare tranquilli. Malta non aprirà gli archivi con le testimonianze dei suoi militari, che nessuna Procura italiana ha mai chiesto. Ci abbiamo provato noi a scalfire il muro di gomma appellandoci al “Freedom of information act”, la legge sulla libertà di informazione. La riposta dell’autorità maltese è quasi un’ammissione: «La richiesta di informazioni è respinta perché gli interessi di riservatezza prevalgono sull’interesse pubblico. Inoltre ogni rivelazione provocherebbe o potrebbe provocare danni alla sicurezza, alla difesa o alle relazioni internazionali di Malta con l’Italia. Risulta anche che siano in corso indagini dell’autorità italiana, in vista di azioni penali. La questione coinvolge quindi le relazioni internazionali tra i due Paesi». Più chiaro di così: meglio dimenticarsi dei bambini annegati e salvare la diplomazia. Sul lago svedese appena fuori Vargön l’alba ha gli stessi colori delicati del tramonto. Il dottor Dahhan è già in piedi pronto ad andare al lavoro. Ritrovarsi in casa solo la mattina per lui è come rivivere ogni volta la sera dopo il naufragio. Infila nella tasca della giacca il telefonino con le voci registrate della sua vita. Meno male che le ha salvate su Internet con tutte le foto, prima di imbarcarsi dalla Libia. Le voci prima di dormire lo aiutano a sognare. Quando riappaiono, Reem e i bambini, lui dice di svegliarsi felice. Purché sia un bel sogno, non l’incubo ricorrente in cui li perde. Adesso però deve proprio andare. Mazen Dahhan entra nel centro clinico del paese. Dalla solitudine dei suoi occhi è chiaro che anche stanotte non sono tornati a trovarlo. Le tappe Ore 12.26 Lo scafista di un peschereccio con 480 siriani a bordo chiama la Guardia costiera di Roma, ma cade la linea Ore 12.39 Richiama uno dei siriani, il dottor Mohanad Jammo. Riferisce che imbarcano acqua e stanno affondando Ore 13.00. Il peschereccio è nella zona di competenza maltese. La Guardia costiera italiana passa il caso a Malta. L'ufficiale di servizio, Clarissa Torturo, non riferisce che stanno affondando Ore 13.17 Il dottor Jammo richiama la Guardia costiera. Il capo della sala operativa, Leopoldo Manna, risponde che deve chiamare Malta Ore 13.48 Il dottor Jamma richiama: Malta gli ha risposto che sono più vicini a Lampedusa. Supplica l'ufficiale di servizio, Clarissa Torturo: «Stiamo morendo» Ore 14.35 La Guardia costiera italiana chiama Malta, che dice di non aver ricevuto formale richiesta via fax per assumere il coordinamento Ore 15.37 Luca Licciardi, capo sezione del Comando in capo della Squadra navale della Marina, ordina che nave Libra «non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette» maltesi Ore 15.41 Il capitano di fregata Nicola Giannotta passa l'ordine alla comandante di nave Libra, Catia Pellegrino. È a 40 minuti di navigazione dal peschereccio e viene fatta allontanare a 19 miglia Ore 16.00 George Abela, comandante di un aereo ricognitore maltese, scopre che la Libra è vicinissima. Chiama sul canale 16 delle emergenze, ma dalla Libra non risponde nessuno Ore 17.07. Il maggiore maltese Ruth Ruggier annuncia al collega italiano Antonio Miniero che il peschereccio si è rovesciato e c'è gente in mare

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