sabato 19 aprile 2014

Magi di  e con Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia
Al trombone Tony Cattano
Posted Renzia D’Incà
Delicato e intelligente questo lavoro che è riflessione tutta interna, metateatrale sul senso dell’essere attore, ma anche drammaturgo sul perché del teatro  e più in generale sull’arte del dono, sul senso della bellezza e della vita, grandi interrogativi filosofici  che hanno attraversato la storia dell’umanità. Il teatro, un certo tipo di teatro infatti ha più a che vedere con la filosofia che con l’arte tout court pur esprimendosi con gli strumenti  e la forma del proprio specifico.
Così anche le figure evocatorie dei Magi- Ventriglia, Garbuggino  con gran cappelli in testa  e fuochi delle bacchette luminose del fine anno, accompagnati da un musicista al trombone, diventano pretesto, icone, metafora del cammino  da compiere guidati dalla luce magica della Stella Cometa  per recare dono a chi ascolta col cuore, il pubblico  che dell’attore  è cuore e anima per rinnovare insieme un mistero che è il mistero della vita di ogni uomo che si è fatto carne.
La riflessione sul tema viene trattata attraverso  citazioni da scrittori come Eduardo, Florenskij, Cechov, Shakespeare, il varietà di inizio Novecento.
La vita degli artisti di teatro, il teatro è contemporaneamente pregiudizio e routine, la vita del teatrante è un paradosso, i grandi autori scrivono per l’autore”-  queste solo alcune delle tracce tratte dai testi dei drammaturghi che hanno riflettuto sul proprio lavoro e sul lavoro dell’attore messe a disposizione da questi “ Magi”, in una scena minimalista dove la parola è centrale, trattata con estrema cura del sussurrato della Garbuggino- una assai suggestiva presenza scenica e della poeticità sommessa di Ventriglia, le note gravi di Cattano quasi ad abbassare ulteriormente i toni del discorso così alto, per restituirle alla semplicità, alla discrezione più pop, da banda di paese. Nella seconda parte i toni si fanno lievemente più comici, ma di una comicità eduardiana, che fa solo sorridere e restituiscono la tragedia con leggerezza. E’ la commedia umana, quella che questi Magi, questi attori del carrozzone di Tespi che rinnovano il rito nel tempo,  ci donano  ogni sera, che è la sintesi del pianto e del riso, della vita e della morte, del dolore e della gioia però guardando alla Cometa, alla speranza, alla straordinaria storia del Bambino che ogni 25 dicembre si rinnova. E  non poteva che non concludere con: Ve piace ‘o presebbio?
Visto a Buti


venerdì 18 aprile 2014

Aldo morto- tragedia di e con Daniele Timpano

posted per Rumor(s)cena

 Renzia D’Incà

Daniele Timpano ci aveva abituati ad assistere e commentare le sue scorribande autorali sui morti eccellenti, a cominciare da Dux in scatola per continuare con Risorgimento pop. Stavolta ha parecchio alzato il tiro della sua indagine sulle icone , sui corpi del potere,  arrivando a scomodare un personaggio politico come Aldo Moro, assassinato dalla  Brigate rosse nel 1978, un pezzo di storia italiana ancora fiammeggiante di polemiche, ferite, ambiguità, lacerazioni  sia per le generazioni che ricordano l’evento sia per chi, come Timpano è nato dopo ( lui aveva  quattro anni) ma è stato contaminato dagli anni di piombo attraverso i vissuti dei propri padri e nonni. Un atto coraggioso da parte di questo strano attore-autore, uno dei più interessanti della sua generazione già scoperto da Nico Garrone  col Ecce robot nelle cantine romane e adesso noto anche grazie ad una originalità di stile che supera il modello del teatro politico e di narrazione  in auge, per approdare ad un altro, tutto suo, modello assai più complesso di traduzione  per le scene dei cosiddetti fatti di cronaca, sfaccettato, cattivo, che scava nelle zone buie delle nostre coscienze di bravi cittadini perbene. Avevamo seguito quell’esperimento diffuso su Facebook lo scorso inverno, una singolare modalità  di meticciamento fra il televisivo  della fiction e il virtuale interattivo in cui Daniele provava a sperimentare i 54 giorni di prigionia dello statista raccontando ogni 24 ore l’evoluzione della sua carcerazione da parte dei brigatisti autorelegandosi dentro una microstanza e provando ad identificarsi con la narrazione tratta dalle lettere di Moro e le testimonianze di foto dei suoi assassini. Un esperimento che aveva anche sollevato polemiche importanti. Adesso, leggere le trame di Storia cadaverica d’Italia che comprende la trilogia Dux in scatola, Risorgimento pop e Aldo morto ( Titivillus) e aver visionato lo spettacolo sempre più convince della peculiarità dell’autore  che tratta materia incandescente con lo sguardo fra il cinico  e il compassionevole per poi virare sul registro parodistico anche aiutato da una corporeità da guitto, rapido, imprendibile, inincasellabile.
Timpano parte dai suoi dati anagrafici: avevo quattro anni, non mi ricordo non posso ricordarmi, per poi accusare su di sé tutta una cronistoria fatta di pezzi giornalistici sul sequestro, sia  televisivi che di carta stampata  attacca Biagi, Montanelli,  il regista Bellocchio, prende di mira ridicolizzandoli la Faranda che scrive libri sulla sua esperienza da brigatista guadagnando sulle copie , Curcio travestito da Mazzinga che si occupa di editoria sociale.  Usa materiali musicali dalla Pappa al pomodoro ad Eros Ramazzotti per insinuare, provocare, contestualizzare ma insieme per èpater le bourgeois- avrebbe detto qualcuno proprio in quei tempi.  Utilizza una macchinina  radiocomandata la Renault 4 dove Moro è stato trovato cadavere per narrare l’inerrabile, per finire sotto una stella a cinque punte, simbolo ambiguissimo logo  e delle  bierre e delle logge massoniche e di un certo movimento molto attuale.
Insomma una prova d’artista per ben un’ora e quaranta minuti dove Timpano è un fuoco d’artificio e alla fine il pubblico applaude quando mi sarei aspettata anche qualche fischio dato il magma dei contenuti e l’intento volutamente dissacrante.


Visto a Castelfiorentino 

giovedì 17 aprile 2014

Nel bosco di Luca Ricci

Posted Renzia D’Incà per Rumor(s)cena di Roberto Rinaldi


 Ispirato dalle straordinarie atmosfere oniriche  dell’opera  Il Galateo in bosco, poema di Andrea Zanzotto uno dei poeti maggiori del secondo Novecento, questo delicato lavoro di Luca Ricci coglie del capolavoro zanzottiano gli aspetti più magici: le atmosfere rarefatte del bosco, della foresta, richiamano alla fitta e simbolica complessa trama dell’inconscio con tutti i rimandi antropologici  e letterari che solo un poeta di quella straordinaria levatura ha saputo tradurre in versi, una summa filosofica di molteplici sapienze.
In un paradiso terrestre, un Eden più notturno che diurno o forse al confine fra la notte ed il giorno, o crepuscolo dove al limite del buio-luce le schiere sonore degli uccellini amplificano il canto: ecco la favola di Adamo ed Eva, ecco il lavoro di Luca Ricci con la sua compagnia Capotrave. Due giovani che si incontrano, per caso, al limite del dentro e del fuori che è la realtà interiore con tutto il carico di attese, sogni, desideri. E’ la ragazza a rappresentare il pensiero, non il sesso. Sta seduta con un libro mentre lui, per primo in scena è il più  fisico, selvatico. Corre, scalcia le foglie- è l’autunno, la stagione  della caccia. L’incontro avverrà, sarà dolce anche se la caduta corrisponde all’incursione dei cacciatori, colla muta dei cani invertendo l’ordine simbolico vita-morte, canto delle creature-spari. La fine dell’innocenza?  La cacciata dal paradiso terrestre, quella che comporta il passaggio necessario ma dolorosissimo, il varco della linea d’ombra.
Pochi  ma essenziali ed emblematici i versi tratti dal poema zanzottiano a  tentare di tracciare un percorso narrativo al susseguirsi del plot. Magistralmente letti come  voce fuori campo dall’attore più significativo della sua generazione, il poliedrico sensibile rabdomantico costiano Roberto Herlitzka.
Da elogiare il lavoro sulle luci e sul sonoro, in una difficile prova: scena fissa su una ricerca che si pervade della più  astratta e forse, antiteatrale, delle arti, la poesia ( in compagnia  anche della musica), una ricerca coraggiosa quella perpetrata da Luca Ricci insieme al suo gruppo di lavoro dove la strategia è quella di confrontarsi coll’abisso delle contaminazioni plurilinguistiche  che l’arte complessa del teatro può permettersi ma a proprio rischio e pericolo. Ma in questo la giovane compagnia Capotrave ha già ampiamente dimostrato possedere, per mantenere la metafora della caccia, parecchie frecce al proprio arco


CapoTrave è una compagnia residente a Sansepolcro (Ar), che opera tra la Toscana e Roma. CapoTrave ha ideato e organizza Kilowatt, l’energia della scena contemporanea (Premio Ubu 201)
Ideazione e drammaturgia Lucia Franchi e Luca Ricci. Collaborazione alla scrittura scenica e azione di Roberto Gudese e Alessia Pellegrino. Scena di Katia Titolo. Luci di Gianni Staropoli
Ambiente sonoro Fabrizio Spera. Voce fuori campo Roberto Herlitzka.
Effetti video Andrea Giansanti. Effetti sonori Antonello Lanteri.

Regia di  Luca Ricci
co-produzione Kilowatt Festival – con il sostegno di  Regione Toscana.
La parola padre- Cantiere Koreja
di Gabriele Vacis

Posted Renzia D’Incà  - Rumor(s)cena di Roberto Rinaldi

Ola, Simona, Irina, Anna Chiara, Alessandra, Maria Rosaria: sei donne, sei storie di giovani donne in fuga. Dai padri, dalle rispettive patrie. Una drammaturgia che nasce da drammi  di guerre, di  confusione e insieme tentativi di incontri  di linguaggi.  In prima battuta narrati dentro un laboratorio teatrale voluto da Koreja ed affidati ad uno dei più importanti drammaturghi italiani di teatro di narrazione Gabriele Vacis,  per dare corpo ed ascolto a vissuti di contemporaneità femminile lacerata, disperata, che masochisticamente, o forse no, non ancora,  reitera i percorsi, raccontandosi. Percorsi che si intrecciano incontrandosi  per poi lasciarsi fra voli low cost  in aeroporti dove le lingue si confondono e insieme ci cercano, per provare a capirsi, fra donne,  fra persone che reclamano la propria identità, il diritto alla propria vita. Sono le  tre donne dell’est europeo-  che sbarcano a Brindisi,  insieme alle altre  tre italiane del sud.
Sullo sfondo lo spettro del comunismo, da cui fuggono. Il comunismo dei padri, il comunismo  o patriarcato delle patrie in liquidazione.
Una scena spoglia, ai due lati uno stendino con abiti  di diverse fogge che continuamente indossano e ripongono nell’alternarsi delle azioni sceniche su uno sfondo creato interamente e coreograficamente da bottiglioni di plastica,  l’acqua gratis, quelli che si trovano in luoghi senza patria-  i non luoghi, aeroporti ma anche palestre appunto, utilizzati in maniera geniale   minimalista dall’inizio alla fine del lavoro. A occhio  all’inizio sembrano mammelle  o quinta poi, via via  assurgono a spazi  usati come praticabili dove salire  e cadere- la caduta delle frontiere, dei muri, per trovare una dimensione onirico-spaziale femminile dove andare per poi sprofondare, nella propria confusione di spazi|linguaggi. In scena le sei giovani donne sono tradotte dalle loro lingue- non in automatico  ma da una loro alter ego- in inglese ( una ragazza  seduta a tavolino col suo modernissimo  tablet). E si raccontano  alternandosi al microfono posto al centro della scena. Sono pezzi di vite, brevi data la loro età, ma dense di  testimonianze  appassionate di violenze, desideri frustrati,  voli, speranze che confluiscono nella necessità di fuggire, dai propri padri e patrie per cercare fuori di dove e da chi sono state  generate il proprio riscatto. Le valige- il trolley nella versione moderna della contemporaneità- bagagli leggeri sono il simbolo di questa necessaria presa di distanze da ciò che è stato e mai più sarà. Le donne senza padri, e soprattutto, senza patria, non torneranno. Mai. Mai più. Anche se il filo della memoria le riconduce- e non potrebbe non esser così al discorso dei padri, ai ricordi legati alle loro infanzie e prime giovinezze. Qualcuna proverà a confondersi  in istituti di bellezza- come le altre  come le donne dei Paesi dove emigreranno, fra fanghi  e  unghie da ricostruire. E anche qui  per operare la riproduzione di racconti, di storie.  Fra cambi di abiti tra scintillio- le speranze? e provocazioni palesi: mettersi la carta igienica dentro lo slip per trasformare il proprio sesso  nell’altro, quello paterno, appunto.
Uno spettacolo dinamico, sei attrici di grande impatto scenico, una drammaturgia poetica ma  dallo stile impetuoso e graffiante, una scrittura di scena dura che restituisce le dinamiche attualissime  di donne alla ricerca della propria individuazione che può essere agita solo attraverso la fuga, attraverso la negazione di una identità- quella del padre e delle patrie ( identica radice semantica) disfatte del comunismo,  ma anche della società patriarcale ( le ragazze italiane) da cui è possibile ripartire solo tracciando un niet sulla lavagna della Storia. Per ripartire col coraggio delle donne.

Con Irina Andreeva, Alessandra Crocco, Aleksandra Gronowska, Anna Chiara Ingrosso, Maria Rosaria Ponzetta, Simona Spirovska
Drammaturgia e regia di Gabriele Vacis.  Produzione  Koreya Scene di Roberto Tarasco. Progetto Archeo
Visto a Pontedera- Teatro Era