domenica 24 aprile 2016


In questo post ho raccolto la lezione che ho tenuto al Collegio Superiore dell’Università di Bologna, il 21 aprile 2016. Gentili e cari amici, innanzitutto un sincero ringraziamento va agli organizzatori di questo incontro, per avermi voluto invitare a parlare di un argomento che tanto mi sta a cuore quale quello della cultura come mezzo di rilancio economico, ma soprattutto civile e sociale, per il nostro Paese. Affrontare questo tema all’interno di un istituto di formazione d’eccellenza quale il Collegio Superiore dell’Università di Bologna è un’occasione che mi pare davvero proficua, specie per i ragazzi che si stanno formando per divenire i futuri operatori del settore. Ho più volte sottolineato, in altre occasioni, come l’investimento nella cultura rappresenti per l’Italia un’occasione unica, quella di coniugare alla tutela e alla valorizzazione del suo patrimonio culturale, che costituisce a tutti gli effetti la sua più grande ricchezza, la possibilità di attivare una crescita economica virtuosa e sostenibile: il nostro è il Paese della Bellezza, e la bellezza è un alleato prezioso per contrastare il degrado ambientale e per favorire la coesione locale, l’inclusione sociale e lo sviluppo dei territori, trasmettendo alle nuove generazioni quanto ci è stato tramandato dal passato. Spesso, infatti, quando si parla di cultura come volano di rilancio per il nostro Paese, esagerandone a volte la sua funzione di nuovo ‘petrolio’, si tende a porre in secondo piano il valore morale e civile che soggiace all’investimento in questo settore. Io credo, invece, che sia un vero e proprio dovere quello di custodire e tramandare alle generazioni future l’immensa ricchezza che abbiamo ricevuto in retaggio dai nostri predecessori; ed è un dovere che non riguarda soltanto gli addetti ai lavori – le soprintendenze, i musei, le biblioteche –, ma piuttosto riguarda ognuno di noi. Ogni cittadino è responsabile per gli spazi pubblici, i monumenti, l’integrità ambientale del luogo in cui vive, e ognuno dovrebbe saper attivare buone pratiche che ne favoriscano la tutela. Già diversi sono gli esempi, più o meno noti, di quanto l’iniziativa dei cittadini, in un’ottica di impegno comunitario e no profit, possa giovare al nostro patrimonio culturale: uno fra tutti, che non rinuncio mai a menzionare per l’importanza che esso riveste a mio avviso nel difficile e spesso drammatico contesto sociale della Terra dei Fuochi, è il recupero della Reggia di Carditello, acquisita dallo Stato grazie all’interessamento di una rete di cittadini che non si è mai arresa al secolare degrado dello splendido sito reale borbonico, che si avvia a divenire un vero e proprio presidio istituzionale in un territorio tanto compromesso quanto ricco di risorse umane. Ma sono tantissime le iniziative che fioriscono quotidianamente, su tutto il territorio nazionale, con lo scopo di curare gli spazi pubblici; tantissime le associazioni che si occupano di promozione sociale, eventi, luoghi di cultura; e sono anche numerosi, ormai, sul web, gli strumenti nati con l’intento di condividere e promuovere questa varietà di esperienze, superando le distanze materiali e mettendo in comune conoscenze e, appunto, buone pratiche. La piattaforma multimediale #laculturachevince è una di questi, ed è votata a raccogliere e recensire proprio le buone pratiche di chi è impegnato nel mondo della cultura: si tratta di un portale wiki, incrementato da tutti coloro che partecipano al progetto e da un team ‘redazionale’ incaricato di coordinare i materiali che vanno ad arricchire quotidianamente il database, la cui consultazione fornisce un ulteriore riscontro sulle straordinarie opportunità di crescita economica e civile offerte dall’iniziativa in ambito culturale nel nostro Paese. Sono convinto che strumenti di questo tipo possano garantire ulteriore visibilità e favorire lo scambio di competenze e strategie tra coloro che operano nel campo della promozione del patrimonio culturale, ad ogni livello. Esiste davvero un’energia positiva che attraversa il nostro paese, costituita dalle tantissime persone che si prendono cura dei beni culturali, creano progetti e diffondono cultura. È un’energia che va oltre la “cultura” e che pervade il nostro modo di essere, richiedendo nuove forme di partecipazione alla vita pubblica e risposte alle domande esistenziali di ognuno di noi. Questa energia rimane il più delle volte nascosta e inascoltata: dobbiamo allora farla emergere per il bene del nostro paese perché con la cultura si vive, si migliora, si agisce, si vince. La cultura conta, appartiene a tutti, non fa paura, non è alta, ma implica valori. A giudicare dal numero di imprese e progetti culturali che quotidianamente fioriscono in tutta la Penisola, è evidente che, almeno tra gli operatori del settore, regna l’accordo sul fatto che con la cultura si può vivere perché la cultura dà lavoro. Sono, semmai, le istituzioni e la classe politica che spesso non riescono a comprendere appieno le potenzialità offerte dall’investimento in questo ambito. Deve essere chiaro, invece, che l’attività culturale favorisce la presenza istituzionale, aumenta la sicurezza e rende i cittadini più consapevoli delle ricchezze del loro territorio e più disponibili ad attivarsi in prima persona per tutelarle, oltre ad incrementare i flussi turistici, l’occupazione, l’integrazione e l’interesse verso i beni comuni. Ma il rilancio del settore culturale e turistico passa anche dall’individuazione di figure professionali specifiche, che siano in grado di mettere in campo approcci innovativi e funzionali che contribuiscano a riorganizzare la gestione del patrimonio culturale riducendo gli sprechi, lavorando sulle criticità e incrementando la comunicazione e i canali informativi, specie grazie alle possibilità offerte dai nuovi media. Sono diversi i profili che il mercato richiede al momento: si tratta nella maggior parte dei casi di professioni parzialmente nuove, o che comunque necessitano di un’impostazione differente rispetto a quella tradizionalmente attuata nel mondo della cultura, che spesso adottava linguaggi elitari e non riusciva ad aprirsi al grande pubblico, lasciando la fruizione del patrimonio e degli eventi ai cittadini di livello culturale più elevato. L’avvento dei social network e del web 2.0 ci permette di ripensare la comunicazione dei contenuti culturali, a patto che alla rapidità e semplicità di trasmissione delle informazioni si affianchi il necessario approfondimento, il livello qualitativo che permetta il mantenimento di un’offerta culturale di alto profilo, quella che ha sempre caratterizzato gli operatori del settore italiani anche grazie a una formazione d’eccellenza. Attualmente il percorso di studi di un manager culturale non è ben definito, e il suo stesso iter professionale possiede ancora caratteristiche in gran parte connesse alle esperienze individuali. Tuttavia, diversi atenei del nostro Paese hanno saputo adeguarsi rapidamente a questi mutamenti ed hanno avviato percorsi formativi ad hoc per la preparazione di nuovi esperti nel mondo del cultural management, soprattutto attraverso l’organizzazione di master di primo o di secondo livello rivolti ai laureati in materie umanistiche, per fornire loro gli strumenti per incrementare le proprie attitudini gestionali e competenze tecnico-organizzative. Sembra, dunque, che l’alta formazione italiana stia iniziando ad adeguarsi all’approccio di altre nazioni europee in fatto di cultura: la stretta integrazione tra curricula umanistici e tecnici, impensabile fino a pochi anni fa, sta diventando rapidamente una realtà diffusa. Un caso esemplare è quello del rapporto tra informatica e discipline umanistiche, spesso considerato secondario nelle facoltà scientifiche come in quelle letterarie fino a non molto tempo fa, e che sta rapidamente acquistando un ruolo di primo piano nella formazione universitaria e post-universitaria. La causa è a mio avviso da rintracciarsi in una radicale ridefinizione della dicotomia tra materie letterarie e materie scientifiche, ridefinizione che sta avvenendo proprio in questo momento, e che dunque non è facile ancora analizzare e comprendere appieno. È chiaro, tuttavia, che discipline scientifiche e humanities saranno sempre meno contrapposte e anzi andranno sempre più intrecciandosi in un futuro che ci prospetta lo sviluppo sempre maggiore di una società della conoscenza. A chiunque operi nel settore della cultura è ormai nota la necessità di familiarizzarsi con linguaggi, contenitori e mezzi di comunicazione sempre più avanzati, che presuppongono conoscenze sempre più tecniche e specifiche. I numerosissimi blogger freelance che si occupano di informazione culturale, i social media manager delle più varie istituzioni culturali, gli editori digitali, i numerosi altri profili professionali emergenti dalla rivoluzione digitale in atto: tutti sono venuti in contatto, solo per fare alcuni esempi, con la marcatura SEO, con gli hashtags, i metadati, tutto ciò che consente di comunicare cultura attraverso il web 2.0. E, d’altronde, la comunicazione della cultura sta assumendo un ruolo sempre più importante all’interno del mondo digitale. Quella del manager culturale si configura dunque come una figura professionale ibrida, che deve saper coniugare alle conoscenze in campo culturale anche gli aspetti di natura finanziaria, economica, organizzativa, giuridica e di marketing, e saper assumere, accanto alla funzione conservativa del patrimonio, anche un approccio divulgativo e volto alla valorizzazione dello stesso. Anche il suo statuto legale è tuttora incerto, tanto che recentemente è stata fondata l’Associazione Nazionale Manager Culturali, che si prefigge proprio di ottenere il riconoscimento giuridico-legislativo della figura del manager culturale e l’affermazione del suo ruolo professionale. Diverse sono le declinazioni che può trovare la professione del cultural manager: agli allestitori di mostre ed eventi si affiancano le società specializzate in servizi editoriali, i lavoratori del cinema, della musica e delle arti performative, i privati e gli enti no profit che partecipano ai bandi pubblici per la gestione di monumenti, musei, biblioteche, nonché le associazioni e i comitati che si occupano della preservazione e della divulgazione di un patrimonio altrettanto ricco e importante, quello immateriale delle tradizioni, degli usi, dei saperi popolari, insomma del complesso di pratiche di tipo folklorico, artigianale, enogastronomico che il nuovo interesse verso la green economy e la naturalità delle filiere produttive sta gradualmente riportando in auge. È necessario, in definitiva, che il manager culturale conosca i fattori determinanti delle politiche culturali, la legislazione nazionale e comunitaria che regola il campo culturale, le normative contrattuali, le tecniche di marketing, e che sia in grado di sviluppare progetti anche a medio e lungo termine, avvalendosi, oltre che dei canali tradizionali, delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Il mercato del lavoro è certamente pronto ad assorbire questo nuovo tipo di professionalità, di cui si sente anzi la crescente necessità: alle istituzioni spetta invece il compito di comprendere le reali potenzialità di questo settore, uscendo dall’ottica ormai superata per cui il mantenimento del patrimonio culturale si riduceva a un gravoso onere e non ci sarebbe mai stata possibilità, in questo campo, di pareggiare i conti tra spesa e ricavi. Ma per superare questo pregiudizio occorre inaugurare una nuova strategia che contempli, accanto a una gestione più efficace dello sterminato patrimonio artistico, archeologico, paesaggistico di cui disponiamo, anche l’attivazione di politiche in favore dell’iniziativa in campo culturale e creativo; ciò potrebbe rappresentare l’occasione per un rilancio dell’economia e insieme una spinta per il cambiamento politico, sociale e culturale del Paese. Peppino Impastato disse che “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà”; questo mi sembra il miglior manifesto di una società che voglia fare della bellezza non solo e non tanto una nuova industria da sfruttare indiscriminatamente, quanto un veicolo di crescita civile, per una comunità più consapevole, equa, solidale e inclusiva verso tutti i cittadini. Nel concludere, vorrei davvero augurare a tutti voi di riuscire a guardare al futuro del Paese con una prospettiva condivisa, che ridia speranza e costruisca una società migliore, più solidale e aperta per i nostri figli e le generazioni future. Dobbiamo lavorare insieme per cambiare l’Italia e dare ai nostri figli la speranza di avere un futuro migliore. Massimo Bray Categorie diario Tags:bologna, collegio superiore bologna 0 comments

sabato 23 aprile 2016


Le sorelle Macaluso-Emma Dante in sinergie di storie Posted by renzia.dinca Cascina (Pisa). Sette donne, sette sorelle per storie ad intreccio con sullo sfondo una realtà siciliana, una drammaturgia in stretto dialetto, dove storie di memorie incandescenti si incrociano rullano scompongono in deflagrazione fantasmagorica. Impressiona immediatamente la macchina teatrale: i tempi, i suoni, le luci, i costumi, in perfetta sintonia con la scrittura, insomma l’estrema sintesi di un pensiero condensato nato per ensemble di attrici (e attori) e confezionato per la scena. Sì, perché senza i corpi e macchina teatrale che li svela e rivela, la testualità rimarrebbe un po’ in penombra e non solo per l’eventuale ostacolo della comprensione, quella della lingua. E’ il non verbale, per dirla banalmente, una delle funzioni artistiche prevalenti del lavoro che travolge i sensi dello spettatore molto forse più in questa messinscena rispetto ad altre, firmate da Emma Dante regista palermitana di gran razza. In una sala gremita della Città del Teatro, già aveva un po’ fatto specie la voce in sala in pre-spettacolo che avvisava: le luci saranno spente, comprese quelle di servizio, se avete bisogno fatevi accompagnare…, era uno pseudo- prologo: perché è dal buio e solo da quello, che emergono le sette sorelle sette, che irrompono in scena aperta (zero scenografie per intenderci), quasi in marcia militare ed in particolare una, che emerge a sua volta e si distingue fin da subito per un altro tipo di vitalità. Raccontare le storie ed una storia in particolare, quella di una defunta, giovane con l’aspirazione della danza, morta per evento accidentale di annegamento mentre le ragazze- sorelle erano al mare, dentro una famiglia dove i lutti femminili si sono succeduti (la madre morta a sua volta ancora giovane, un padre un po’ così per dirla alla Vecchioni), in sincronismo di fatti temporali anche distanti. Ma qui sta l’astuzia drammaturgica pensata per la scena. E’ confrontarsi col sacro e col dissacrante. Ma qui non è di blasfemia che si tratta, come forse in altri lavori della regista. Qui l’intreccio è forte, destabilizzante, perché i morti ed i vivi si incontrano sul palcoscenico dove le sorelle avanzano dal buio, vestite di scuro, mentre una sola di loro danza a corpo libero (per nel finale spogliarsi-danzare come da desiderio e definitivamente, in plot costruito ad anello). Quindi la chiusura drammaturgica è anche l’incipit: un funerale. Uno spazio di memorie private dove si celebra il corpo appunto, presente e/o assente. Spesso quando la famiglia va in lutto, si lamentano sprazzi di singhiozzi (e nessuna delle sorelle piange in verità, che paradossalmente non siamo dentro un melodramma), mentre in scena si vira verso piuttosto urlate verità. E ciascuna delle Sorelle tanto ha da dire a se stessa ed alle altre più o meno coetanee che gliele dice, e finalmente raccontandosi, quasi a resa dei conti. Entra in gioco la memoria di infanzie, adolescenze, fantasie, ricordi, giochi, risate, ma anche rancori, vendette, invidie tra sorellanze di diverse età. Nel narrato, assai in accelerazione, spunta da quel buio in cui vivi e morti si rintracciano simbolicamente, la coppia genitoriale. Così due figure emergono da buio, un uomo e una donna che si confondono in fusione di corpi in una danza di accoppiamento fra eros e thanatos molto perturbante a segnare ed inquinare una scena già di per sé plurisemantica-l’uomo-padre indossa una sottoveste color cipria identica a quella della compagna. Le Sorelle raccontano e si raccontano cambiando spesso costumi: dal nero cimiteriale a coloratissimi vestitini a vestagliette anni Cinquanta che tanto piacciono a certi stilisti che si ispirano al neorealismo d’antan, a segnalare i cambi di registro testuali ed extra testuali in un feedback temporale diacronico che si riavvolge su se stesso. In scena assistiamo anche a duelli tra di loro con segni di croci spade e scudi come da un classico di teatro dei pupi. E qui rientriamo nel buio della scrittura scenica che si appalesa per indizi, in perfetta macchina da guerra teatrale. Che tratta di segreti per bagliori e folgorazioni alchemiche come il vero Teatro sa cogliere e trasformare. Le Sorelle Macaluso testo e regia di Emma Dante con Serena Barone, Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Italia Carroccio, Davide Celona, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso, Leonarda Saffi, Stephanie Taillandier luci di Cristian Zucaro armature Gaetano Lo Monaco Celano Visto alla Città del Teatro di Cascina (Pisa), il 13 aprile 2016

mercoledì 13 aprile 2016


Chiedimi chi sono mai questi Nomadi Posted by renzia.dinca La Spezia. Davvero non c’è bisogno di chiedere chi sono mai questi Nomadi, se è vero come è vero, che è il complesso italiano che continua da ben cinquant’anni a suonare e inventare canzoni ma con un valore aggiunto: il fenomeno intergenerazionale di nonni genitori e nipoti, insomma migliaia di fan del Popolo Nomade, che segue in carovana i loro concerti provenendo da ogni zona d’ Italia. Lo abbiamo recepito da un’ampia documentazione e numerose interviste entrate nel lavoro teatrale Una storia da raccontare. Storia di Ago e Beppe. Come due ragazzi sono diventati I Nomadi. Lo spettacolo, un omaggio ad Augusto Daolio (scomparso prematuramentenel ’92), voce solista e Beppe Carletti tastierista, oggi l’unico del gruppo originario I Nomadi, fondato nel 1963. Il lavoro, scritto in coppia da Roberto Lamma con Massimo Olcese (entrambi anche in scena con Silvio Rosi alla chitarra), restituisce sul palco in una affabulazione accattivante e a tratti emozionante ma pacata, uno spaccato della storia del nostro Paese attraverso lo specchio della storia della nascita del Gruppo musicale di Novellara- città natale di Daolio e Carletti, dai suoi primi passi fino ai successi nelle hit, ai momenti bui fatti di periodi di oblio, tragiche scomparse e di riorganizzazione della band fino alle più recenti iniziative sociali ed umanitarie portate avanti da Beppe Carletti, specie sui temi internazionali (ha di recente incontrato i premi Nobel per la Pace Dalai Lama e Chavez). Le vicende corrono parallele attraverso una struttura narrativa che intreccia l’autobiografismo del duo Lamma|Olcese, il primo, avvocato spezzino noto per cause ambientaliste difese ben oltre la procura ligure e l’altro, attore e comico genovese, conosciuto a livello nazionale sia per programmi famosi in TV che in Cinema e Teatro. L’espediente, niente affatto letterario per dare il LA alla narrazione, è quello di Roberto Lamma nelle vesti di se stesso avvocato, che fra un leggio ed una seggiola si presenta e introduce un terzo-io narrante silente che se ne sta seduto tra il pubblico in prima fila: è l’amico coetaneo e già Nomade, che crea il legame apparentemente casuale tra Lamma e I Nomadi dalla città di Milano dove erano in tournée e dove i due amici spezzini si incontrano. Il concerto visto per la prima volta con l’amico, per Lamma diventerà epico come indissolubile la fedeltà oltre che l’amicizia anche personale con la band. Perché questo, in fondo è anche il grande potere della musica pop: creare legami, sogni, miti, utopie attraverso testi e contesti condivisi ripetibili condivisibili. Se è vero che la Rete (anche attraverso youtube) non ha sostituito la vecchia radio (o il mangianastri dei ragazzi anni Cinquanta Sessanta). Se è vero che oggi il vinile è tornato di gran moda, come l’andare ai concerti live non è mai passato di moda, è vero che la storia del Nomadi con le loro canzoni (78 album tra dischi registrati in studio o live)è una macro Storia sullo sfondo di teatri di pace di guerra sociali e politici nazionali ed internazionali perché i temi delle canzoni sono in coerenza assoluta anche nel tempo, quelli civili e sociali. Anche grazie e proiezioni video di foto d’epoca ed attuali ( si parte da Augusto quindicenne vestito da cameriere, perché aiutava la mamma al bar con accanto Beppe figlio di contadini che studiava la fisarmonica)per andare a suonare nelle balere del reggiano fino all’esplosione di Come potete giudicar per i capelli che portiam in pieno 68. Ma nel lavoro di Lamma e Olcese, a parte il commento musicale che fa da contrappunto alle narrazioni autobiografiche del duo, non si indulge a patetismo o amarcord. Le storie del Gruppo e quelle individuali di Olcese e Lamma-fan si intrecciano con istantanee dal Muro di Berlino dell’89 (con commento musicale da Imagine di Lennon)a racconti di Genova- Bolzaneto 2003 fino all’oggi Una Storia da raccontare. Storia di Ago e Beppe. Come due ragazzi sono diventati I Nomadi di e con Roberto Lamma e Massimo Olcese Commento musicale di Silvio Rosi Visto a La Spezia, Sala Dante, venerdì 9 aprile 2016

sabato 9 aprile 2016


LEAR quando il gioco del Potere (come la follia) va oltre il genere Posted by renzia.dinca Pontedera. Una edizione dal Re Lear che prova a confrontarsi con temi classici innestando linfe di ricerca artistica che sennò non avrebbe troppo senso rivisitare in un must da parte di un regista come Roberto Bacci che sulla ricerca e sperimentazione ha fondato il CSRT -Teatro Era di Pontedera ben quarant’anni or sono ed oggi è Teatro Nazionale della Toscana col Teatro della Pergola di Firenze. Una splendida scrittura scenografica e musicale – il vasto palco della Sala Thierry Salmon, ridotto attraverso la circoscrizione di un perimetro mobile scritto sullo spazio (e le luci) da ben sette tendaggi a fare da quinte che corrono su binari e carrucole ora illuminate da proiezioni astratte dai toni lugubri talvolta epici, percorse come vele a tratti da agitazioni di venti, fra presenze esterne ed interne al disegno, quasi immagini da quadri di Hopper. E poi l’uso di maschere per i personaggi, abilmente spostati dal dentro al fuori della narrazione visiva a mò di servi di scena, ma soprattutto un’idea che stravolge la partitura. E qui sta il concept. E’ l’attrice Silvia Pasello (due volte Premio UBU, diretta da personalità di registi che vanno da Carmelo Bene a Thierry Salmon a Raul Ruiz per citarne solo alcuni), ad impersonare Lear o meglio Re Lear, anche se nella reinterpretazione del duo Bacci-Geraci drammaturghi, salta il termine Re e rimane il Lear. Tuttavia resta il Re-ame, il Re-gno. E se fosse la Regina o tout court, una figura ibrida né maschio né femmina- pur tuttavia creatrice di vita, visto che le tre figlie femmine pur sempre nate da questa creatura potente anche nel disporre e in discendenza, sono a loro volta vittime e carnefici di un topos del Potere: la successione alla morte del genitore? perché il tormentone del chi mi ama di più forse non vale anche, se chi muore o si ammala di capacità di giudizio è una Madre, una madre potente magari una madre fallica? il rovesciamento di prospettiva alla fin fine forse è proprio questo: se una Madre un po’ anziana o forse solo debole o molto malata, perde di consapevolezza (e un Padre c’è o forse non c’è più) chi guida il Regno-Reame? i successori? e/o i maschi o le femmine magari coi loro sposi (come da sacro plot del Bardo e relative tradizioni da Corona inglesi)? quale trama è più patriarcale-matriarcale, pur essendo secentesca e così tanto British e moderna?- il pensiero corre a saghe magari anche giudiziarie di certe grandi famiglie di industriali anche italiane o al gossip di cronache di settimanali di gran consumo sulle belle e giovani ereditiere. Ma solo per ellissi. Ed ecco che il rovesciamento-inversione di identità maschile/femminile comunque creaturale umana, che ci propone la visione di questo Lear di Bacci, si fa ficcante e densa di implicazioni extratestuali per andare verso considerazioni e condensazioni concettuali antropologiche e psicoanalitiche. Se il tema è sempre quello del chi comanda chi, se il cuore e le viscere dell’essere umano sono in fondo gli stessi da secoli, mossi come sono ieri ed oggi da ferine urgenze da egoismo puro e feroci guerre intestine sia dentro-anche metaforicamente le famiglie(quelle cosiddette normali, formate da padri madri e figli, per intenderci), che fuori nel Mondo-Reame, e sempre al centro dei conflitti sono il Potere ed il denaro ( poco, a volte niente, l’amore), allora questo Lear ha consistenza di un lavoro che pone interrogativi sempiterni ma col valore aggiunto di un perturbante estetico ed etico: il corpo di Silvia Pasello. Lear-Pasello si muove in scena e per quasi due ore come un vecchio|a bisognevole di affetto e cure delle tre figlie-instabile nel passo, commovente ma mai isterica anzi, in sottrazione assoluta di qualsiasi segno volto al patetico. La fragilità della figura–archetipo di moderno Lear, fa da contraltare alle figlie: belle e vitali come da copione secentesco( e/ o attuale). Colpisce in tutta questa complessa rilettura e in parte, riscrittura drammaturgica e registica, l’uso del canto e delle musiche. Stefano Pogelli ha curato la ricerca assai affascinante dei canti (affidati al coro delle figlie) ispirandosi agli originali che furono utilizzati nelle prime messe in scena shakesperiane e in particolare alla Ballata popolare King Lear and his three daugthers, anche in linea con le antiche tradizioni delle Isole britanniche in lingua gaelica ispirate alle fatiche del lavoro femminile. Tutti i numerosi personaggi in scena ( numerosi nel senso che non spesso ricorrono così numerosi negli allestimenti non cosiddetti tradizionali), hanno una loro identità rispetto a Lear. Nel dividersi e allacciarsi trecce- così come i regni fra cartine geografiche e pezzi di abiti, Goneril (Caterina Simonelli) è spavalda e battagliera, Regan (Silvia Tufano) più contenuta ma comunque spietata, Cordelia (Maria Bacci Pasello) giovanissima e con bella voce (commuove nel finale il suo canto intenso in lingua ucraina, una canzone di Mariana Sadowska). Le figure maschili convincenti anch’esse: il fool Michele Cipriani che ci accoglie in sala, Gloucester-Francesco Puleo, Edgar- Savino Paparella, Edmund -Tazio Torrini anche ben modulate nella non facile confezione di regia, ma come un po’ opacizzate dal prevalere delle grazie e azioni del clan al femminile. Alla fine nel cimitero che questa tragedia ci restituisce, usciamo arricchiti da una esperienza che racconta un percorso in salita, quello del gruppo originario pontederese che ha saputo rinnovarsi, trasformarsi anche, mantenendo una identità di fondo- quella dei Maestri ( Living, Grotowski, Barba, Odin Teatret,) ma capace di innestare linfa intergenerazionale di livello, aprendosi, come da sempre, ad esperienze intellettuali artistiche, umane e anche operative, attuali e dinamiche. Davvero tanta acqua è passata dalle regie di Bacci Laggiù soffia- Era- ed In carne ed ossa. Il lavoro di Roberto Bacci andrà in scena alla Pergola a Firenze in ottobre e a Wroclaw in Polonia sempre a ottobre, per Le Olimpiadi del Teatro. LEAR, liberamente ispirato a William Shakespeare regia Roberto Bacci drammaturgia Roberto Bacci e Stefano Geraci con Silvia Pasello, Caterina Simonelli, Silvia Tufano, Maria Bacci Pasello, Francesco Puleo, Tazio Torrini, Savino Paparella, Michele Cipriani progetto scene e costumi Marcio Medina realizzazione costumi Fondazione Cerratelli musiche originali Ares Tavolazzi in consulenza con Emanuele Le Pera e Elias Nardi consulenza storico musicale Stefano Pogelli Luci Valeria Foti e Stefano Franzoni Immagine Cristina Gardumi Visto a Pontedera, Teatro Era Fondazione Teatro della Toscana in Prima nazionale, il 2 aprile 2016

mercoledì 6 aprile 2016


La parola padre- Cantiere Koreja di Gabriele Vacis Ola, Simona, Irina, Anna Chiara, Alessandra, Maria Rosaria: sei donne, sei storie di giovani donne in fuga. Dai padri, dalle rispettive patrie. Una drammaturgia che nasce da drammi di guerre, di confusione e insieme tentativi di incontri di linguaggi. In prima battuta narrati dentro un laboratorio teatrale voluto da Koreja ed affidati ad uno dei più importanti drammaturghi italiani di teatro di narrazione Gabriele Vacis, per dare corpo ed ascolto a vissuti di contemporaneità femminile lacerata, disperata, che masochisticamente, o forse no, non ancora, reitera i percorsi. Percorsi che si intrecciano incontrandosi per poi lasciarsi fra voli low cost in aeroporti dove le lingue si confondono e insieme ci cercano, per provare a capirsi, fra donne, fra persone che reclamano la propria identità, il diritto alla propria vita. Sono le tre donne dell’est europeo- sbarcano a Brindisi, molte delle attrici in campo, insieme alle altre italiane del sud. Sullo sfondo lo spettro del comunismo, da cui fuggono. Il comunismo dei padri, il comunismo o patriarcato delle patrie in liquidazione. Una scena spoglia, ai due lati uno stendino con abiti di diverse fogge che continuamente indossano e ripongono nell’alternarsi delle azioni sceniche su uno sfondo creato interamente e coreograficamente da bottiglioni di plastica, l’acqua gratis, quelli che si trovano in luoghi senza patria- i non luoghi, aeroporti ma anche palestre appunto, utilizzati in maniera geniale minimalista dall’inizio alla fine del lavoro. A occhio all’inizio sembrano mammelle o quinta poi, via via spazi usati come praticabili dove salire per trovare una dimensione onirico-spaziale femminile dove andare per poi sprofondare, nella propria confusione di spazi|linguaggi. In scena le sei giovani donne sono tradotte dalle loro lingue- non in automatico ma da una loro alter ego- in inglese ( una ragazza seduta a tavolino col suo modernissimo tablet). E si raccontano. Sono pezzi di vite, brevi data la loro età, ma dense di testimonianze appassionate di violenze, desideri frustrati, voli, speranze che confluiscono nella necessità di fuggire, dai propri padri e patrie per cercare fuori di dove e da chi sono state generate il proprio riscatto. Le valige- il trolley nella versione moderna della contemporaneità- bagagli leggeri sono il simbolo di questa necessaria presa di distanze da ciò che è stato e mai più sarà. Le donne senza padri, e soprattutto, senza patria, non torneranno. Mai. Mai più. Anche se il filo della memoria le riconduce- e non potrebbe non esser così al discorso dei padri, ai ricordi legati alle loro infanzie e prime giovinezze. Qualcuna proverà a confondersi in istituti di bellezza- come le altre come le donne dei Paesi dove emigreranno, fra fanghi e unghie da ricostruire. E anche qui per operare la riproduzione di racconti, di storie. Fra cambi di abiti tra scintillio- le speranze? e provocazioni palesi: mettersi la carta igienica dentro lo slip per trasformare il proprio sesso nell’altro, quello paterno, appunto. Uno spettacolo dinamico, sei attrici di grande impatto scenico, una drammaturgia poetica ma dallo stile impetuoso e graffiante, una scrittura di scena dura che restituisce le dinamiche attualissime di donne alla ricerca della propria individuazione che può essere agita solo attraverso la fuga, attraverso la negazione di una identità- quella del padre e delle patrie ( identica radice semantica) disfatte del comunismo, ma anche della società patriarcale ( le ragazze italiane) da cui è possibile ripartire solo tracciando un niet sulla lavagna della Storia. Per ripartire col coraggio delle donne. Con Irina Andreeva, Alessandra Crocco, Aleksandra Gronowska, Anna Chiara Ingrosso, Maria Rosaria Ponzetta, Simona Spirovska Drammaturgia e regia di Gabriele Vacis. Produzione Koreya Scene di Roberto tarascoProgetto Archeo PUBBLICATO SU BLOG nel maggio 2012. Oggi in tournée

martedì 5 aprile 2016


Nasce l’Accademia dell’Uomo Conversazione con Pier Paolo Pacini e Iacopo Braca Posted by renzia.dinca Firenze. E’ nato un progetto di largo respiro formativo teatrale, ideato e coordinato da sotto la cupola del Brunelleschi attraverso il Teatro della Pergola, designato dal FUS Teatro Nazionale della Toscana in partnership con Teatro Era di Pontedera, uno dei sette teatri nazionali del Paese. Si tratta dell’Accademia dell’Uomo realizzata dal Centro di Avviamento all’Espressione, il Centro di formazione teatrale della Fondazione Teatro della Toscana in collaborazione con la Beyouman Academy, con sede presso il nuovo polo della formazione: il Teatro Studio di Scandicci. Molto incuriositi dalla denominazione data al Progetto, dalla compartecipazione delle maggiori istituzioni teatrali toscane e nazionali in una progettualità educativa e formativa in linea con la riqualificazione ministeriale che nel 2015 ha cambiato l’assetto del teatro pubblico e privato in Italia, abbiamo deciso di saperne di più e così ne abbiamo parlato con il fiorentino Pier Paolo Pacini (attore, regista, scenografo già allievo di Orazio Costa al MIM, oggi ideatore con Marco Giorgetti, direttore del Teatro della Pergola e con Riccardo Ventrella, responsabile della Comunicazione dello stesso Teatro) e con Iacopo Braca, fondatore di Beyouman Academy. RUMORSCENA-Pier Paolo Pacini, lei è ideatore e coordinatore del Progetto Accademia dell’Uomo. Vuole raccontare qual è stato il suo percorso di formazione che l’ha portata a questo importante traguardo professionale? Pier Paolo Pacini-Mi sono avvicinato al metodo Mimico di Orazio Costa già da quando avevo 14 anni. Iniziai a frequentare la scuola di Paolo Coccheri (N.d.R. Coccheri è stato allievo di Costa, attuale e storico organizzatore instancabile di numerose iniziative culturali e sociali nella sua Firenze e in Italia, una per tutte Angeli della città), perché ero interessato alla pratica yoga. In seguito dopo essermi diplomato al Liceo, incominciai a frequentare la Scuola di Orazio Costa. In quella fase della mia vita volevo diventare attore. Entrai nella Scuola di Espressione Teatrale fiorentina diretta dal Maestro. Era il 1979. Ho praticato la Scuola di Mimica per due anni con allievi di Costa e un terzo anno con Costa stesso. I risultati del mio lavoro d’attore erano buoni, ma non avevo interesse ad intraprendere quella carriera. In realtà volevo fare il regista. Nel 1987 iniziai a occuparmi di Lirica come assistente alla regia, nel 90 divenni collaboratore di Piero Faggioni, anche lui ex allievo costiano e andai a lavorare in Francia come regista. A seguire, l’esperienza londinese dove sono stato a stretto contatto con drammaturghi quali Sara Kane ed il gruppo Angry yaung men (N.d. R. portati da Barbara Nativi a Firenze nel circuito Intercity al Teatro della Limonaia). La mia carriera poi decollò col Peer Gynt di Ibsen con musiche di Grieg al Comunale di Firenze nelle vesti di regista. In quel lavoro misi a punto una regia “costiana”per attori, sia come lettura scenica che come approccio al testo. RUMORSCENA-Ci può descrivere, a grandi linee, qual’ è l’impianto ideologico della nuova Scuola che è appena partita al Teatro Studio di Scandicci? Pier Paolo Pacini- Il progetto dell’Accademia dell’Uomo prevede la nascita di un polo formativo non convenzionale. L’obiettivo è il recupero e lo sviluppo di un naturale istinto espressivo sia comunicativo che emotivo. Si avvale del metodo Mimico di Orazio Costa e dell’esperienza della Beyouman Academy.Entrambe le esperienze educative, quella Mimica costiana e quella recente ideata da Iacopo Braca (già attore di Teatro Sotterraneo), sono tese allo sviluppo delle capacità espressive degli adulti e dei giovani anche al di fuori dello specifico del lavoro per il palcoscenico, insomma finalizzate alla formazione umanistica, emozionale e comunicativa. La Scuola è partita il 29 marzo e prevede una prima fase che ha come tema un percorso sull’intelligenza emotiva tenuto da Alessandra Niccolini e Marisa Crussi (entrambe allieve storiche fin dal MIM sotto la direzione di Costa) e da Iacopo Braca. Il corso verte sui caratteri “ I personaggi di Shakespeare: una guida all’intelligenza emotiva”. La seconda fase del corso sarà biennale a partire dal prossimo ottobre. Abbiamo provato ad allargare l’offerta sul Metodo Mimico che già è attiva da anni grazie ai corsi tenuti presso il Teatro della Pergola. RUMORSCENA-Iacopo Braca lei è un giovane e già ex attore ( fondatore del Teatro Sotterraneo) che ha lasciato la professione per diventare regista e formatore. Ci racconta il suo percorso intellettuale che l’ha portata a diventare docente e responsabile della Iacopo Braca Beyouman Academy ( fra l’altro lavora come coach con l’Ospedale Mayer di Firenze)? Iacopo Braca- E’ che ad un certo punto della vita, ho attivato un mio percorso oltre la scena. Ho lasciato il Teatro come esperienza attiva due anni fa. Nel frattempo ho praticato la Meditazione del cuore a Londra e Milano e la PNL. Due percorsi che portano, l’uno alla ricerca del sé più profondo e l’altro alla ricerca di relazione con altro da sé, quindi in gruppo ed anche in funzione aziendale. Insomma volevo mischiare l’esperienza del sé, la meditazione, col percorso dell’agire. RUMORSCENA In effetti un percorso insolito, il suo. Braca-Volevo andare oltre. Non più lavorare sulla messinscena ma sulla persona. La Scuola Accademia dell’Uomo che si apre a Scandicci, parte dall’Uomo in senso filosofico. Lavoreremo in stretto contatto io insieme ad Alessandra Niccolini e Marisa Scussi con la Scuola per allievi non professionisti di diverse età e provenienze. Per approfondimenti ed iscrizioni: sito del Teatro della Pergola- Teatro Nazionale della Toscana