giovedì 28 dicembre 2017


Noi siamo e poi anche non siamo, ed è questa ambiguità che sfugge al linguaggio ordinario denotativo, il quale non afferra il cono d’ombra che l’irrealtà del nostro essere proietta su ciò che siamo e su ciò che siamo diventati, sottraendo la nostra persona alle sue astrazioni, alle sue idealizzazioni proiettive e agli arbìtri della volontà, in cui ci illudiamo che la nostra realtà consista, e restituendola al gioco tra sfere chiare e oscure nelle quali per la verità la nostra esistenza trascorre e si declina. È questa condizione indivisa di essere e non essere, di sogno e veglia, di zone illuminate e di recessi oscuri della nostra coscienza che va al di là del linguaggio ordinario, il quale uncina soltanto fatti opachi, sordi e muti, che costituiscono la pelle indurita della nostra persona, ma sotto la quale scorre la nostra esistenza alla ricerca del suo sogno oscuro. Ed è questo sogno oscuro lo scenario possibile ed eventuale di quella trasformazione di noi stessi che può culminare in una nuova nascita. Noi siamo al tempo stesso attori e spettatori di un grande dramma dell’esistenza. A.G.Gargani.

mercoledì 27 dicembre 2017


il problema non è se > ma quando dare fuoco alle polveri > col coraggio nelle mani > far sprigionare scintille di nuovi fuochi > rovesciare i banchi del mercato > fare come Gesù nel tempio > > Il coraggio di vivere non si compra > si fiuta come il tabacco > che è il destino bruciato di un 'ultima sigaretta > > Resterò seduta ad aspettare Carnevale > che passi ad accendermi > un nuovo carro dei desideri > > da L'altro sguardo- Mauro Baroni Collana gli specchi d'acque diretta da > Dino Carlesi- Viareggio 1998 La poesia è su www Italian Poetry della Columbia University la dedico a Mario, maestro di pensiero e di felicità

Italian Poetry Home Chi siamo Il neolirismo I Poeti Blog Link Contatti ITALIAN POETRY La Poesia Italiana Contemporanea dal Novecento a oggi su L'Espresso RENATO MINORE Su ITALIAN POETRY La Poesia Italiana Contemporanea dal Novecento a oggi (www.italian-poetry) appaiono venti poesie di Natale di poeti italiani contemporanei. Sono stati scelti Buffoni, Carpi, Caproni, Cavalli, D’Incà, Fruner, Giani, Guidacci, Merini, Minore, Montale, Nigi, Quasimodo, Raboni, Ruffilli, Saba, Scotto, Spaziani, Ungaretti, Zanzotto. Ecco il mio "Trittico di Natale" che condivido dall'antologia per gli amici di questa pagina con il mio più caro e affettuoso augurio La letteratura italiana, nel corso del Novecento, ha nella poesia il genere di maggiore creatività e di più alti risultati.Una vitalità sorprendente accompagna tutto il secolo, a partire dal trapasso dell’Ottocento e fino a questi ultimi anni. Una molteplicità di esperienze e una varietà di modi che contrassegnano la produzione globalmente più originale dell’intera Europa, per universale riconoscimento. In Italia, quasi esclusivamente ai poeti è toccato il compito di tradurre in elaborazione letteraria la complessa crisi di identità (di frantumazione dell’io) che contraddistingue il nostro tempo. La perdita delle coordinate, la consapevolezza del moto di deriva dentro il mistero della vita, la riflessione esistenziale, il tentativo di ricomposizione di un ordine minimo, trovano soluzioni diverse e complementari, dentro il grande laboratorio della lingua italiana (una lingua giovane, al principio del secolo patrimonio neppure di un quarto degli italiani, abituati per secoli a parlare le loro lingue particolari, i dialetti). Un’ampia e qualificata scelta offre qui il quadro di una situazione vivace e ricchissima della poesia italiana di oggi. I poeti selezionati, appartenenti alle generazioni nate dagli anni venti-trenta fino agli anni novanta, nelle loro personali esperienze nettamente riconoscibili, testimoniano delle molteplici tendenze in atto al presente in Italia. inglese Italian literature, in the course of the twentieth century, has in poetry the genre of greater creativity and higher achievements. An astonishing vitality accompanies the whole century, starting from the nineteenth century to the last few years. A multitude of experiences and a variety of ways that mark the most original production of the whole of Europe for universal opinion. In Italy, almost exclusively the poets had the task of translating into literary writing the complex identity crisis (the breaking, fragmentation of the ego) that characterizes our time. The loss of the coordinates, the awareness of the drifting motion within the mystery of life, the existential reflection, the attempt to recompose a minimal order, find different and complementary solutions, within the great lab of the Italian language (a young language at the beginning of the century, patrimony even of a quarter of Italians, accustomed for centuries to speak their particular languages, the dialects). A wide and qualified choice offers here the picture of a lively and rich situation of today’s Italian poetry. Selected poets, belonging to the generations born from the 1920s to the nineties, in their personal experiences clearly recognizable, testify to the many trends in the present in Italy. spagnoloEs en el curso del Novecientos que la literatura italiana tiene en la poesia el género de mayor creadividad y con los más altos resultados. Una vitalidad sorprendente acompaña todo el siglo, a partir del cruce del siglo XIX y hasta llegar a estos últimos años. Una multiciplidad de experiencias y una variedad de modos que marcan la producción globalmente más origianl de toda Europa, como está universalmente reconocido. En Italia ha tocado casi exclusivamente a los poetas la tarea de traducir en elaboración literaria la compleja crisis de identidad ( de fragmentación del yo) que distingue nuestra época. La pérdida de ccordenadas, la conciencia del movimiento a la deriva dentro del misterio de la vida, la reflexión existencial, la tentativa de recomponer un orden minimo, hallan soluciones distintas y complementarias, dentro del gran laboratorio de la lengua italiana ( una lengua joven, siendo patrimonio de pocos a comienzos del Novecientos, ni siquiera de un cuarto de los italianos, acostumbrados durante siglos a hablar en sus propias lenguas particulares, los dialectos). Una ampia y cualificada selección propone aquí el cuadro de una situción dinámica y riquísima de la poesia italiana actual. Los poetas seleccionados, pertenecientes a la generación nacida en los años veinte y treinta hasta los años noventa, en sus experiencias personales claramente identificable, son testigos de las muchas tendencias en la actualidad en Italia. franceseAu cours du XXe siècle, la poésie est dans la littérature italienne le genre le plus créateur et celui qui a abouti aux résultats les plus élevés. Une vitalité surprenante accompagne tout le siècle, depuis la fin du XIXe siècle jusqu’à nos jours. Une multiplicité d’expériences et une variété de styles qui caractérisent celle qui est universellement considérée, dans son ensemble, comme la production poétique la plus originale de l’Europe entière. En Italie, les poètes ont été quasiment les seuls à assumer la responsabilité de faire de leur élaboration littéraire la traduction de la crise d’identité complexe (d’éclatement du moi) marquant notre époque. La perte de points de repère, la conscience du mouvement de dérive dans le mystère de la vie, la réflexion existentielle, la tentative de reconstituer un minimum d’ordre, trouvent des solutions différentes et complémentaires, à l’intérieur du grand laboratoire qu’est la langue italienne (une langue jeune, parlée au début du XXe siècle par moins d’un quart des Italiens, habitués depuis des siècles à employer leurs idiomes régionaux, les dialectes). Vaste et qualifié, le choix offert ici est le portrait d’une situation extrêmement vive et riche de la poésie italienne de nos jours. Les poètes choisis, appartenant à la génération née dans les années vingt et trente jusqu’aux années nonante, dans leurs expériences personnelles clairement identifiables, témoignent des nombreuses tendances actuellement en Italie.

martedì 26 dicembre 2017


renzia.dinca SUCCESSO PER LA NUOVA STAGIONE SPAM DIRETTA DA ROBERTO CASTELLO Porcari (Lucca). Si è conclusa con grande successo di pubblico e di gradimento la Stagione SPAM 2017, lo spazio diretto da Roberto Castello nell’immediata periferia della città di Lucca. Castello è coreografo, danzatore e direttore artistico di una delle più importanti rassegne nazionali di un cartellone quest’anno interamente dedicato alla Danza contemporanea internazionale europea. Il titolo era SPAM! Good art is healthy- SGUARDI OLTRE I CONFINI LA DANZA ITALIANA CHE GUARDA L'EUROPA. Il programma andava dal 1° novembre al 13 dicembre per sette doppi appuntamenti con la danza contemporanea. Il critico Graziano Graziani, che da tempo segue SPAM evidenzia come “ i coreografi contemporanei, anche dal punto di vista della formazione, abitano già uno spazio europeo e internazionale che, in altri settori, non esiste ancora, o almeno non in senso compiuto. Per loro è naturale lavorare in Italia come all’estero, entrare in contatto con maestri del Nord Europa e dell’America come con quelli di casa nostra. Lo spazio che abitano, il luogo mentale in cui creano, è già un ambiente europeo e transnazionale.(…)”. Di qui SGUARDI OLTRE I CONFINI - LA DANZA ITALIANA CHE GUARDA L'EUROPA il titolo della rassegna che per sette settimane, tutti i mercoledì, ha portato nella sede di SPAM! a Porcari alcuni tra i più rilevanti spettacoli italiani di danza contemporanea attualmente in circuitazione in abbinamento con altrettante improvvisazioni di danza e musica dal vivo. L'unica eccezione è stata Silvia Gribaudi con R.OSA_10 esercizi per nuovi virtuosismi con Claudia Marsicano, in uno dei suoi lavori di maggiore successo, e in seconda serata il progetto che una decina di anni fa l'ha rivelata al pubblico e alla critica: A corpo libero (vedi Rumorscena). Ha aperto la rassegna lucchese, THE SPEECH, l'ultimo o spettacolo di Irene Russolillo in collaborazione con la coreografa e danzatrice belga/argentina Lisi Estaras, e a seguire Dance performance & Live Music con i danzatori Stefano Questorio, Elisa D’Amico e il percussionista Daniele Paoletti. (recensito da me su Rumors) A seguire Francesca Cola, autrice, coreografa e danzatrice che produce in Italia e all'estero con NON ME LO SPIEGAVO, IL MONDO: “Attraverso una grammatica di gesti speculari, richiami, metafore e simboli si lascia allo spettatore la scelta se abbandonarsi all'immediata bellezza visiva del mostrato o seguirne le tracce verso un non-detto e un non-rivelato tanto ricco di suggestioni quanto spaesante nella sua fitta rete di rimandi simbolici”. A seguire Dance performance & Live music con le danzatrici Francesca Zaccaria e Caterina Basso accompagnate dalla tromba di Tony Cattano. Terzo appuntamento è stato con Silvia Gribaudi che ha presentato R.OSA_esercizi per nuovi virtuosismi, a seguire A CORPO LIBERO, selezionato per Biennale di Venezia 2010, Aerowaves -Dance Across Europe 2010, Edinburgh Fringe Festival 2012, Do Disturb - Palais De Tokyo 2017; un lavoro che ironizza sulla condizione femminile a partire dalla gioiosa fluidità del corpo, una performance che parla di donna, libertà e ironia. (vedi Rumorscena). A seguire una settimana dopo Davide Valrosso, diplomato presso L’English National Ballet, e formatosi in alcuni dei più importanti centri di danza contemporanea quali il London Contemporary e la Ramber School, ha portato a SPAM! WE_POP, protagonisti lo stesso Valrosso e Maurizio Giunti: un duo dalla scrittura coreografica di grande raffinatezza. A seguire Dance performanceE & Live music con le danzatrici Giselda Ranieri e Anna Solinas e con Mirco Capecchi (clarinetto basso) E poi Gruppo Nanou, attivo tra Italia, Germania e Belgio ha presentato a SPAM XEBECHE [csèbece], con otto danzatori in scena costantemente al limite del migliore degli inciampi. A concludere la serata Dance performance & Live music con la danzatrice Aline Nari, il danzatore Davide Frangioni e il contrabbassista Mirco Capecchi. E ancora Compagnia Adriana Borriello, COL CORPO CAPISCO #2. Adriana Borriello, danzatrice, coreografa e pedagoga, che ha fatto parte del percorso formativo della danza belga, parla così del suo lavoro: COL CORPO CAPISCO non è solo un titolo, ma una dichiarazione, un manifesto, un modo di stare al mondo. Al centro del progetto modulare la trasmissione da corpo a corpo che pone in primo piano il sentire e genera forme di comunicazione empatica. La danza, essenza dell’atto “inutile” che riflette su se stesso, diventa medium di conoscenza della non-conoscenza, sapienza del corpo, dell’esserci. A seguire Dance performance & Live music con la danzatrice Silvia Bennet, accompagnata da Alessandro Rizzardi al sax tenore. Ultimo appuntamento della rassegna è stato con Marco Chenevier, coreografo, danzatore, regista e attore attivo tra Italia e Francia (Romeo Castellucci e Cindy Van Acker, Cie CFB451 in seno al CCN di Roubaix, Cie Lolita Espin Anadon) e il suo ultimo spettacolo QUESTO LAVORO SULL'ARANCIA in prima regionale. A seguire Dance performance & Live Music con la danzatrice Ilenia Romano e il chitarrista Claudio Riggio. Questo lavoro sull’arancia esprime un bisogno di ricerca di forte e totale interazione col pubblico. Come se il pubblico fosse pronto e preparato alla bi-direzionalità della performance o comunque sempre partecipante attivo in un feedback con gli artisti. La scommessa in atto è l’improvvisazione, il gioco, sia pur guidato, la reazione soggettiva e anche di gruppo da parte del pubblico, alle provocazioni ripetute degli artisti in scena, che ricorda certe performance dadaiste d’inizio secolo scorso di contaminazioni provocatorie non certo congeniali alla danza ingessata del tempo. Quindi si presenta come un lavoro iconoclasta, coraggioso tanto quanto divertente e leggero perché aperto ad una scommessa mai uguale e che si rinnova ad ogni replica. In scena due danzatori Alessia Pinto e lo stesso regista, coreografo e attore Marco Chenevier vincitore di molti premi internazionali fra cui il Be Festival di Birmingham, oltre che a un tecnico seduto non dietro il pubblico ma di lato sulla scena, munito di computer in grembo- Andrea Sangiorgi, dal cui strumento informatico, essenziale per le dinamiche interattive di tempi e di spazio-azione, lancia stimoli interattivi sia verbali che sonori fra performer in doppio canale verso e col pubblico oltre che in forma di voce meccanica. Un pubblico molto numeroso e divertito quello di Porcari, anche perché si trattava di una prima regionale, sollecitato dalle opportunità di feedback che gli sono state offerte fin dall’inizio del lavoro e cioè fin dalla consegna della “merendina” col biglietto in mano. Allo strappo infatti veniva consegnato dalle maschere un sacchetto di carta con dentro: un’arancia con un fazzolettino (forse per chi si sarebbe anche mangiata l’arancia?), una galatina, cicchetto-biscottino al latte, un cartoncino per fare aeroplanini da scagliare in scena per interrompere lo spettacolo come ci viene più volte ordinato e/o consigliato di fare da seduti al nostro posto (per la verità ci aspettavamo anche dei pop corn data la fiction cine-TV in atto, ispirata dal Cinema d’Autore). Il lavoro parte da una piattaforma tipo set fra teatro e palestra, una sorta di TV performativa non in WEB ma dal vivo dove il pubblico, se agisce, guadagna ( o perde) da 5 a 50 euro a seconda della prestazione e della disponibilità ad accettare il contratto-spedito in voce da computer del tecnico e attori performer. E fin qui il gioco è anche buffo, da scuola media, spiazzante. Che tutto parte da un pretesto, una rilettura del geniale film di Kubrick L’Arancia meccanica, ed è qui usato a spunto di una performance che assomiglia a un quiz (la stessa sera era in TV RAI 2, la ripresa de Indietro tutta di Renzo Arbore, parecchi milioni di audience in Italia). Se andare a teatro, se frequentare luoghi dove la presenza fisica, l’esserci del pubblico e degli attori comporta il coinvolgimento a tutto tondo a cominciare dal tirare aeroplanini di carta fra pubblico e scena (un mix un po’ video games un po’ avanspettacolo-scuole medie), il gioco si fa più duro quando la tensione monta per l’escalation delle situazioni a cui il pubblico è sottoposto nell’interazione comandata: azioni di crudeltà sadomaso però in climax cinico-scherzoso nei confronti della ragazza ( Alessia Pinto) da parte dello spietato quanto infantile uomo in fase di svezzamento visto che si dichiara intollerante al latte( Marco Chenevier), ispirate dalle scene di violenza di Arancia meccanica con il finale liberatorio per la donna, che in una sequenza di apparente sottomissione viene bloccata ai polsi per gettarle addosso dall’aguzzino secchiate di latte e arance spremute, lei nuda in una vasca finta piscina, dove anche qualche ospite-spettatore coinvolto nella fiction ma sempre e per finta, si spoglia. Ecco qui a questo punto, in una scena interattiva che svolta e risolve gli interrogativi e i dubbi di chi osserva, irrompe una sorta di sbigottito horror vacui. Questo continuo spostamento di ruoli funzioni e finzioni crea in uno spettatore non più di tanto coinvolto o forse renitente anche per un etica di giusta distanza che sola forse, può facilitare un tentativo di comprensione di ciò che accade, un corto circuito di senso. Il richiamo di memorie associative al lavoro del Living è quasi automatico. Però in distanza abissale rispetto all’eterogenesi dei fini delle creazioni artistiche. Senza evocare il fantasma di Aristotele e la catarsi-non è questo Teatro, ma ricerca della giovane Danza contemporanea internazionale, anche se i generi le categorie pare siano esplose nei loro paletti meta, l’impressione è che questo lavoro dovrebbe evolvere verso qualcosa di davvero nuovo, senza per questo necessariamente proporsi di educare e/o comunque orientare il proprio pubblico della danza o delle arti performative in genere. Forse sarebbe necessario escogitare una chiusura meno confusionale che non sia quella- semplicistica e parecchio rozza dell’immagine del pubblico che lancia ceste di arance sul carnefice della povera vittima, peraltro sorridente. Ma poi, lanciare arance intere addosso al crudele Chenevier gli farà davvero male fisicamente? e il latte versato sulla vittima sarà stato un bagnoschiuma? È catartico? È terapeutico? È irriverente verso il regista cult? segnali ambigui che spesso la danza contemporanea ci ha magistralmente restituito in forma di suggestione simbolica, e in questo lavoro che rivisita un classico della cine-letteratura psichiatrica sado-maso invece vogliono essere trattati secondo il manifesto poetico programmatico del regista: navigare, a vista(?). di Marco Chenevier con Marco Chenevier e Alessia Pinto scene e disegno luci Andrea Sangiorgi produzione TiDA Theatre Danse residenza ALDES progetto curato da ALDES realizzato con il sostegno di Regione Toscana, Provincia di Lucca, Comune di Lucca, Comune di Porcari, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e Fondazione Cavanis di Porcari in collaborazione con Barga Jazz Visto a Porcari (Lucca) , SPAM! rete per le arti contemporanee, il 13 dicembre 2017 prima regionale

giovedì 21 dicembre 2017


Corriere della Sera / CRONACHE L’INCHIESTA Strage di Ustica, la verità del militare Usa: «Due Mig libici abbattuti dai nostri caccia la sera dell’esplosione» La nuova testimonianza ad «Atlantide», su La7. Torna l’ipotesi del volo colpito per errore di Ilaria Sacchettoni ROMA — Trentasette anni dopo, una nuova testimonianza riaccende la speranza di raggiungere la verità sull’esplosione in volo del Dc-9 che uccise 81 persone sui cieli di Ustica. Brian Sandlin, all’epoca marinaio sulla Saratoga destinata dagli Usa al pattugliamento del Mediterraneo, intervistato (questa sera ad Atlantide su La7) da Andrea Purgatori, autore della prima ricostruzione sulla vicenda, racconta i fatti di cui fu testimone. È la sera del 27 giugno 1980. Dalla plancia della nave che staziona a poche miglia dal golfo di Napoli, il giovane Sandlin assiste al rientro da una missione speciale di due Phantom disarmati, scarichi. Aerei che sarebbero serviti ad abbattere altrettanti Mig libici in volo proprio lungo la traiettoria aerea del Dc-9: «Quella sera — racconta l’ex marinaio — ci hanno detto che avevamo abbattuto due Mig libici. Era quella la ragione per cui siamo salpati: mettere alla prova la Libia». È un’affermazione storica. Per la prima volta qualcuno attesta lo scenario bellico nei cieli italiani durante gli ultimi anni della guerra fredda. «Eravamo coinvolti in un’operazione Nato e affiancati da una portaerei britannica e da una francese» aggiunge Sandlin. La pista del Dc-9 vittima di un’iniziativa militare alleata nei confronti della Libia ha faticato a farsi strada. Ed è ancora alla ricerca di conferme. L’Italia di quegli anni sconta ambiguità. Le istituzioni — per evitare ritorsioni — collaboravano con Gheddafi fornendogli nomi e indirizzi degli oppositori al suo regime che si trovavano in Italia. Gli Usa invece, erano decisi a combatterlo come avverrà in futuro con altri colonnelli (tra cui Saddam Hussein): «Il capitano Flatley — prosegue Sandlin — ci informò che durante le nostre operazioni di volo due Mig libici ci erano venuti incontro in assetto aggressivo e avevamo dovuto abbatterli». L’ex marinaio della Us Navy è pronto a smentire la versione di una bomba terroristica piazzata a bordo dell’aereo Itavia. E a supportare gli approfondimenti dei magistrati della Procura di Roma, Maria Monteleone ed Erminio Amelio, sull’aereo colpito per errore durante un’azione di forza degli alleati. A 57 anni compiuti Sandlin restituisce l’atmosfera che si respirò nei giorni successivi: «Ricordo che in plancia c’era un silenzio assoluto. Non era consentito parlare, non potevamo neppure berci una tazza di caffè o fumare. Gli ufficiali si comportavano in modo professionale ma parlavano poco fra loro». La sensazione diffusa è quella di aver commesso qualcosa di enorme. Possibile che fosse proprio l’abbattimento di un aereo civile? Sandlin non ipotizza ma offre nuovi dettagli. Ma il suo silenzio in tutti questi decenni? È terrorizzato. Nel 1993 la visione di una puntata di 60 minutes (leggendario programma d’inchiesta della Cbs raccontato anche nel film Insider di Michael Mann con Al Pacino) per un attimo addormenta la paura e restituisce memoria all’ex marinaio. Sandlin, però, non trova ancora il coraggio di mettere a disposizione di altri le proprie informazioni. Un sottoufficiale prossimo alla pensione, racconta, era stato ucciso in una rapina tanto misteriosa quanto anomala. Unico ad essere colpito benché in un gruppo di bersagli possibili. Sapeva qualcosa su Ustica? La paura, spiega Sandlin, scompare nel momento in cui cambiano gli scenari internazionali e lo strapotere della Cia è ridimensionato: «Oggi non credo — dice — che possa ancora mordere». E allora l’ex marinaio della Usa Navy parla, racconta e smentisce verità ufficiali. Ad esempio quella del Pentagono sul fatto che, quella notte, i radar della Saratoga sarebbero stati spenti per non disturbare le frequenze televisive italiane. Impossibile, dice l’uomo. Mai e poi mai una nave così avrebbe potuto spegnere i radar.

mercoledì 6 dicembre 2017


Leonardo da Vinci e le verità nascoste Pontedera (Pisa). Da un testo di sottile maestria drammaturgica, ricco di invenzioni immaginifiche, surreali a tratti oniriche, nasce questo nuovo lavoro per le scene di Michele Santeramo: Leonardo da Vinci- L’Opera nascosta. Davvero sorprende piacevolmente e ci trascina con una affabulazione pacata e tuttavia funambolica per la fantasia straripante, le dinamiche ricchissime di metafore, di rimandi su rimandi, di associazioni mentali ardite e spiazzanti come sa ideare solo chi ha un autentico talento letterario oltre che un solido e consistente bagaglio culturale che scandaglia diverse discipline che contemplano letture che vanno dalla filosofia alla fisica. Il pre-testo è quello in filigrana della interpretazione e spunto di quadri e di elementi biografici essenziali del genio di Leonardo da Vinci. E fin qui la prima micro-traccia affabulatoria, apparirebbe quasi banale. L’invenzione drammaturgica passa poi da un altro topos letterario: un dialogo immaginario fra l’Autore Santeramo – Leonardo, e la sua alter ego, un doppio in chiave femminile, col suo sorriso immanente e metafisico: La Gioconda. E anche qui il rischio della vertigine invischiante e debordante che avviluppa figure storiche reali e allegoriche: Leonardo e la sua tutta ipotetica relazione inventata con donna Gioconda (che qui risuona gli stilemi di una Monna Lisa-con petrarchesca Madonna Laura e con richiami a Vermeer e la “sua” Ragazza con l’orecchino di perla), poteva scontrarsi con un solenne tonfo nella temperie del confronto con icone consegnate alla letteratura mondiale di tutti i tempi e di interdisciplinarietà saccheggianti con quelli che Jung definirebbe archetipi universali. Non si può raccontare cosa accade in scena in questo nuovo lavoro di Santeramo, dove tutto a lui è ascritto-testo, regia e interpretazione, perché apparentemente nulla accade, tranne la felice collaborazione con la disegnatrice e video maker, l’ottima Cristina Gardumi, che interagisce in scrittura visuale. Ciò che possiamo dire è che questo lavoro non è inscrivibile nella categoria teatrale del: Teatro di Parola né del Teatro di Narrazione. C’è sì un flusso di parole, che però vivono di piena autonomia, perfettamente organizzate, pensate ab ovo dentro e per uno spazio scenico ben restituite e che non ricordano affatto scrittori e/o giornalisti che in questi ultimi anni calcano piazze teatrali a raccontar se stessi. Perché in questo testo di Santeramo, dietro, c’è una testualità pienamente consapevole, che è scritta per consegnare ad uno spazio teatrale e non di nicchia, uno spazio per e di molti spettatori di teatro. Il gioco metaforico su Verità/menzogna, Arte/scienza, Arte/vita, è da Santeramo tutto giocato dentro una drammaturgia che risolve e rilancia temi di contemporaneità diffusa dove la filosofia, la religione (quella buddista, che è il pensiero più in corda col testo), l’arte, si stanno interrogando e forse, riconfigurando sul proprio meta-discorso interno ed esterno, in un momento di crisi della Cultura e del ruolo del pensiero contemporaneo rispetto emergenze che si sono fatte globali: una fra queste le nuove guerre, quella che Papa Francesco chiama la Nuova terza guerra mondiale, la guerra difffusa del Terzo Millennio. Ma che già lo erano fin dal Secolo breve e fin dai tempi di Leonardo, evidentemente, che per campare era stato costretto a forgiare armi da guerra per il suo committente, come si narra in questa drammaturgia autorale. Interrogativi questi, che sono sempre ferite aperte per una umanità affacciata a continue sfide di sopravvivenza, anche etiche sì, ma a volte solo e semplicemente tentativi di organizzazione dell’esistenza. Leonardo- Santeramo - solo in scena, seduto davanti uno scrittoio, con dietro a sé i quadri-immagini in amplificazione multimediale come era già stato con La prossima stagione con la regia di Roberto Bacci( in collaborazione video di Cristina Gardumi) e dopo Il Nullafacente commissionato dallo stesso Bacci a Santeramo e andato inscena lo scorso anno, parte proprio dall’interrogarsi sulla morte, sulla vita e sulla guerra: La morte fa schifo- è un tormentone testuale che ci accompagna nella narrazione dell’Io-Santeramo in affabulazione con l’altro da sé-Leonardo in affermazione della Vita, dell’Eros. E qui si rintracciano letture fresche sul tema del Tempo, il Tempo pensato da Carlo Rovelli fisico, autore di La realtà non è come appare e Sette brevi lezioni di fisica, teorico del concetto di Tempo termico: la vita è Calore. Ai confini fra Scienza quantistica e buddismo. Un lavoro che Santeramo sta ripetendo in collaborazione con Roberto Bacci dopo La prossima stagione e Alla luce. Leonardo da Vinci- L’opera nascosta di Michele Santeramo con Michele Santeramo immagini Cristina Gardumi luci Fabio Giommarelli regia Michele Santeramo produzione Teatro della Toscana- Teatro Nazionale PRIMA NAZIONALE Visto a Pontedera, Teatro Era, il 1 dicembre 2017

martedì 5 dicembre 2017


FUOCOAMMARE Un ragazzino, Samuele Pucillo,[2] taglia da un pino un rametto biforcuto per ricavarne una fionda. Con il suo amico Mattias Cucina[2] si diverte poi a intagliare occhi e bocca su alcune pale di fico d'India e a tirar loro pietre con la fionda, come contro un esercito nemico. Questo succede sull'isola di Lampedusa, mentre gli uomini dell'ufficio circondariale della Marina, ricevuta via radio una richiesta di soccorso, attivano le ricerche in mare con unità navali ed elicotteri della guardia costiera. Intanto la vita sull'isola prosegue. Una casalinga, Maria Signorello,[3] mentre prepara il pranzo, ascolta la radio locale condotta da Pippo Fragapane[3] che manda in onda musica e canzoni a richiesta e dà notizie su avvistamenti e salvataggi in mare. Profughi e migranti provenienti dal Nordafrica su barconi stracarichi vengono imbarcati sulle navi della Guardia costiera e poi, trasbordati su lance e motovedette, sono condotti a terra. Qui trovano Pietro Bartolo, il medico che dirige il poliambulatorio di Lampedusa e che da anni compie la prima visita ad ogni migrante che sbarca nell'isola[4]. Vengono quindi trasferiti in autobus al centro di accoglienza, perquisiti e fotografati. Samuele parla con Francesco Mannino,[3] un parente pescatore che gli racconta di quando faceva il marinaio sulle navi mercantili vivendo sempre a bordo per sei, sette mesi, tra cielo e mare. Un sub, Francesco Paterna,[3] si immerge a pesca di ricci nonostante il mare mosso. A casa, durante un temporale, Samuele studia e poi ascolta la nonna, Maria Costa,[3] che gli racconta di quando, in tempo di guerra, di notte passavano le navi militari lanciando i razzi luminosi in aria e il mare diventava rosso, sembrava ci fosse il fuoco a mare. Maria Signorello chiama la radio per dedicare al figlio pescatore Fuocoammare, un allegro swing, con l'augurio che il brutto tempo finisca presto e si possa uscire in barca a lavorare. Il brano va in onda. Intanto, nel centro d'accoglienza un gruppo di profughi intona un canto accorato accompagnato dal racconto delle loro peripezie: « Non potevamo restare in Nigeria, molti morivano, c'erano i bombardamenti. Siamo scappati nel deserto, nel Sahara molti sono morti, sono stati uccisi, stuprati. Non potevamo restare. Siamo scappati in Libia, ma in Libia c'era l'ISIS e non potevamo rimanere. Abbiamo pianto in ginocchio: -Cosa faremo? Le montagne non ci nascondevano, la gente non ci nascondeva, siamo scappati verso il mare. Nel viaggio in mare sono morti in tanti. Si sono persi in mare. La barca aveva novanta passeggeri. Solo trenta sono stati salvati, gli altri sono morti. Oggi siamo vivi. Il mare non è un luogo da oltrepassare. Il mare non è una strada. Ma oggi siamo vivi. Nella vita è rischioso non rischiare, perché la vita stessa è un rischio... Siamo andati in mare e non siamo morti. » Il medico, mostrando la foto di un barcone con ottocentosessanta persone, racconta di quelli che non ce l'hanno fatta. Soprattutto di quelli che per giorni navigano sottocoperta, stanchi, affamati, disidratati, fradici e ustionati dal carburante. Commosso e sconvolto, il dottore racconta di quanti ne ha potuti curare e di quanti, invece, ne ha dovuto ispezionare i cadaveri recuperati in mare, tra cui tante donne e bambini, facendo molta fatica ad abituarsi. Così, mentre Samuele cresce e affronta le sue difficoltà per diventare marinaio, infatti a Lampedusa tutti lo sono, in mare prosegue la tragedia dei migranti e l'impegno dei soccorritori. Distribuzione[modifica | modifica wikitesto] Il 26 settembre 2016 il film è stato scelto come film rappresentante l'Italia per l'Oscar al miglior film straniero 2017[5], per poi essere escluso dalla candidatura il 16 dicembre[6]. Tuttavia il 24 gennaio successivo riceve la candidatura all'Oscar nella sezione miglior documentario. Riconoscimenti[modifica | modifica wikitesto] 2017 - Premio Oscar Candidatura al Miglior documentario a Gianfranco Rosi 2017 - Premio César Candidatura al Miglior documentario a Gianfranco Rosi 2016 - David di Donatello Candidatura a Miglior film a Gianfranco Rosi Candidatura a Miglior regista a Gianfranco Rosi Candidatura a Miglior produttore a 21Uno Film, Stemal Entertainment, Istituto Luce-Cinecittà, Rai Cinema, Les films d'ici avec Arte France Cinema Candidatura a Miglior montaggio a Jacopo Quadri 2016 - Nastri d'argento Nastro d'argento per i documentari a Gianfranco Rosi 2016 - Festival internazionale del cinema di Berlino Orso d'oro a Gianfranco Rosi 2016 - Bari International Film Festival Premio Roberto Perpignani - Miglior montatore a Jacopo Quadri 2016 - European Film Awards Miglior documentario a Gianfranco Rosi Candidatura a Miglior film votato nelle Università a Gianfranco Rosi Candidatura a Premio del pubblico al miglior film europeo a Gianfranco Rosi 2016 - Globo d'oro Gran Premio della stampa estera a Gianfranco Rosi Note[modifica | modifica wikitesto] ^ Berlino, l'Orso d'oro per il miglior film a Rosi con "Fuocoammare", storia di migranti, su repubblica.it, 20 febbraio 2016. URL consultato il 1º aprile 2017. ^ a b Cast Fuocoammare, su mymovies.it. URL consultato il 1º aprile 2017. ^ a b c d e Berlino 2016: "Fuocoammare", il dramma di Lampedusa raccontato da Rosi, su ciakmagazine.it, 13 febbraio 2016. URL consultato il 1º aprile 2017. ^ Il medico dell'isola - La Lampedusa di Pietro, protagonista di Fuocoammare di Gianfranco Rosi, su left.it. URL consultato il 1º aprile 2017. ^ Chiara Ugolini, I migranti di 'Fuocoammare' in corsa per gli Oscar, su repubblica.it, 26 settembre 2016. URL consultato il 1º aprile 2017. ^ "Fuocoammare" fuori dalle nomination agli Oscar per il film straniero, ancora in corsa come documentario, su repubblica.it, 16 dicembre 2016. URL consultato il 1º aprile 2017. Voci correlate[modifica | modifica wikitesto] Corpo delle capitanerie di porto - Guardia costiera Crisi europea dei migranti Filmografia sull'immigrazione in Italia Lampedusa - Dall'orizzonte in poi Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto] Fuocoammare, in CineDataBase, Rivista del cinematografo. (EN) Fuocoammare, su Internet Movie Database, IMDb.com. Modifica su Wikidata (EN) Fuocoammare, su AllMovie, All Media Network. Modifica su Wikidata (EN) Fuocoammare, in Rotten Tomatoes, Flixster Inc. Modifica su Wikidata (EN, ES) Fuocoammare, in FilmAffinity. Modifica su Wikidata

Repubblica.it 807 Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo I medici siriani in fuga con le famiglie dagli orrori di Aleppo. Il pilota maltese incapace di dimenticare i corpi inghiottiti dal mare in attesa di soccorsi italiani che non arriveranno mai. Ecco le storie del naufragio dell’11 ottobre 2013. Che è costato la vita a 268 persone. E che ha cambiato la nostra storia GUARDA LA WEBSERIE di FABRIZIO GATTI Stampa 13 ottobre 2017 807 PROTAGONISTI PILOTA DOTTORE LA FINE DELLA PACE VOLO MEDICI FUGA IL MARE EPILOGO L’estate a Vargön è fresca come una mattina d’ottobre. Vargön riflette esattamente quello che il mondo si immagina della Svezia: un posto pacifico, biondo e silenzioso. I larici sull’attenti tutt’intorno. L’unica piazza, che è anche la fermata dell’autobus. E la schiera di villini. Lì, lungo la strada senza traffico che scende alla spiaggia sul lago Vänern, una pianura d’acqua immobile dentro cui si specchiano pescatori e tramonti. Sembra non ci sia nulla da raccontare a Vargön. Da mesi la notizia più importante è l’arrivo del nuovo medico. Quasi tutti i cinquemila abitanti sanno che ha un nome per niente svedese. E chi l’ha conosciuto, dice che sia di una umanità e una gentilezza rare. Il dottor Mazen Dahhan è un neurochirurgo membro della prestigiosa Associazione Americana di Neurochirurgia. Al centro clinico del paese però lavora come medico di base. Visite, diagnosi, ricette e tanti piccoli interventi da day-hospital. Il dottor Dahhan non ha ancora quarant’anni. È nato in ottobre: il 30 ottobre 1977. Si è sposato in ottobre. E sempre il mese di ottobre l’ha reso papà per la seconda volta. Il 9 ottobre è infatti il compleanno di Tarek, capelli biondissimi e un sorriso che ti ruba il cuore. Poi ci sono Mohamed, il fratello più grande e fin troppo intelligente per la sua età, e Besher, il più piccolo ad arrivare in famiglia. L’ultima volta che il padre li ha visti, Mohamed aveva otto anni, Tarek quattro, Besher appena uno. Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Mohamed Dahhan con i fratelli Besher e Tarek Condividi Sono passati quattro anni, ormai. Ma il dottor Dahhan li sente al telefono tutte le sere. Aspetta con impazienza che faccia buio e a Vargön d’estate fa buio poco prima di mezzanotte. Poi spegne le luci della sua casa da single svedese, camera da letto, bagno e il soggiorno ben arredato con l’angolo cucina. Gli basta il bagliore del balcone illuminato dai lampioni della strada. Non passa nessuno fuori. Anche il negozio di fronte ha spento le insegne. Quattro vetrine piene di giocattoli per animali da compagnia. Proprio così. A queste latitudini non nascono abbastanza bambini. I nonni del paese li vedi portare al parco gatti e cagnolini. Nel più totale silenzio adesso il dottor Dahhan prende dalla tasca della giacca lo smartphone, si siede sul divano, digita qualcosa sul telefono e a occhi chiusi si abbandona all’ascolto più sublime della giornata. I protagonisti Il neurochirurgo Mazem Dahhan Il neurochirurgo Mazem Dahhan Neurochirurgo di Aleppo, prima di attraversare il Mediterraneo ha cercato lavoro negli Emirati Arabi, per trasferirsi lì con la famiglia. Ora fa il medico di base a Vargön, un piccolo paese della Svezia, dove vive solo Il medico Ayman Mostafa Il medico Ayman Mostafa Medico chirurgo, quando i combattimenti hanno diviso in due Aleppo, si è trasferito con la famiglia a Misurata dove ha trovato lavoro in ospedale. Ora vive a Malta e lavora come chirurgo al “Mater Dei” La chimica Reem Chehada La chimica Reem Chehada Laureata in chimica, 30enne, è la moglie del dottor Dahhan e mamma di tre figli. Scoppiata la guerra ad Aleppo, la famiglia si trasferisce a Tobruk, in Libia. Reem e i suoi bambini sono scomparsi in mare La mamma Fatena Katib La mamma Fatena Katib Ingegnere, 28 anni, è la moglie del dottor Mostafa e la mamma di Joud, 3 anni. La sua è stata la prima famiglia del gruppo di colleghi a spostarsi a Misurata. Fatena e la piccola Joud sono scomparse in mare Il pilota George Abela Il pilota George Abela È il comandante dell'aereo ricognitore maltese che chiede via radio l'intervento immediato di nave Libra, perché il barcone è instabile e sovraccarico. Ha lasciato le forze armate La comandante Catia Pellegrino La comandante Catia Pellegrino Tenente di vascello, allora comandante di nave Libra, l'11 ottobre 2013 è per tutte le cinque ore che precedono il naufragio a poche miglia dal peschereccio che sta affondando L'anestesista Mohanad Jammo L'anestesista Mohanad Jammo Vive in Germania con la moglie, l'unica figlia sopravvissuta e altri due bambini. Nel naufragio ha perso i figli Mohamad, 6 anni, e Nahel, 10 mesi. È la persona che dal peschereccio contatta la Guardia costiera La maggiore Ruth Ruggier La maggiore Ruth Ruggier Prima donna ufficiale delle Forze Armate di Malta, è l'operatrice del Centro coordinamento soccorsi maltese che tenta di convincere la Guardia costiera a inviare nave Libra, la più vicina al peschereccio Ci sono i medici di Aleppo che cercano di salvare le loro famiglie tentando la traversata verso l’Italia. E ci sono gli ufficiali italiani che non rispondono alle richieste d’aiuto arrivate dalla barca e dai colleghi maltesi, lasciandola affondare. Ecco i personaggi che hanno vissuto la tragedia che ha sconvolto l’Europa e fatto nascere la missione Mare Nostrum. Il pilota di Malta La stessa ora a Mugiarro, un paesino perfino più piccolo di Vargön, tremilacinquecento chilometri più a Sud, il caldo e le esplosioni tengono svegli tutti quanti fino a notte. È la stagione delle feste a Malta e non ci sono proteste per l’insonnia. Quest’anno su Facebook lo spettacolo lo si può vedere addirittura dal cielo. Nessuno ha mai filmato gli scoppi pirotecnici così da vicino. Merito di George Abela e della sua ultima creatura. Quel drone lo cura come un figlio. Non lo perde mai di vista. Il maggiore Abela, anzi l’ex maggiore Abela, guida il suo giocattolo fin sopra la pioggia di lampi e scintille. Lo pilota da un’altura a ridosso della chiesa della festeggiata, la Beata Vergine. Lui sempre con gli occhi e i baffoni puntati verso il cielo. E pollici e indici stretti sulle leve del radiocomando. Ora deve mandare la telecamera volante un po’ più a destra per evitare che lo spostamento d’aria degli ordigni abbatta l’impresa. Ha già in mente il titolo del film da montare e postare sulla sua pagina Facebook: “Inside the explosion”, dentro l’esplosione. E anche la colonna sonora. Non può che essere la “Walkürenritt”, la Cavalcata delle Valchirie di Wagner, non c’è dubbio. L’allegro di quelle note in crescendo già risuona tra un botto e l’altro nella sua mente. Illuminato dai bagliori rosso fuoco, George Abela per un attimo ricorda il tenente colonnello Bill Kilgore, quello della scena di guerra più famosa, il massacro dal cielo di “Apocalypse Now”. Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi Se non avesse assistito anche lui al massacro dal cielo, oggi l’ex maggiore Abela sarebbe sicuramente un tenente colonnello. Ne avrebbe l’età, il carisma, l’esperienza. Ma dopo quel pomeriggio di metà ottobre ha deciso di mettere i piedi a terra. Per sempre. Via la divisa. Addio al brevetto di pilota. Fine della carriera. Dentro le Forze Armate di Malta è diventato un caso famoso. Da ragazzo l’avevano mandato in Italia a studiare. Corso Nova dell’Accademia aeronautica, anno 1992. Le prime acrobazie nel cielo di Latina. L’abilitazione militare sugli Aermacchi SF 260. E poi la specializzazione a Viterbo: pilota osservatore. Ha cominciato così. Ed è diventato istruttore. Lo si vede ancora volare su Youtube, in un video che George Abela ha messo in rete nel 2009. Le ali del Bulldog militare dietro il primo piano del suo casco bianco e rosso planano a qualsiasi quota. Su e giù sotto le nuvole e sopra le scogliere di Malta, come fossero il suo drone di adesso. È un inno alla vita, quel video. La canzone degli Aerosmith che George ha messo sulle immagini delle sue prodezze, risentita dopo quello che è successo, è più struggente che mai: «Non voglio chiudere i miei occhi, non voglio cadere addormentato... Non voglio perdere nulla, I don’t want to miss a thing». In quella voce graffiante c’è tutto il futuro dell’allora maggiore Abela. Il periodo da istruttore sui Bulldog è terminato. Ora deve fare davvero il pilota osservatore: coordinare dall’alto le operazioni di soccorso e, come dice la canzone, non perdere proprio nulla. Lo Stato maggiore militare lo ha selezionato per il nuovo acquisto del governo maltese. Un gioiello finanziato dall’Unione Europea: il King Air B200, l’ultima generazione di aereo ricognitore, l’angelo del cielo con cui il comandante George Abela e il suo equipaggio dovranno pattugliare le frontiere meridionali dell’Europa. Il Sud del Mediterraneo è in fiamme. Prima la Tunisia. Poi l’Egitto, la Libia, la Siria. C’è un mondo in fuga che sta attraversando il mare. Ma adesso la festa pirotecnica sulla cupola della Beata Vergine è finita. L’ex maggiore fa atterrare il suo drone. Prima di rientrare a casa, passa dalla piazza. Qualche amico sonnambulo ha ancora voglia di scherzare. George un po’ meno. Chi lo conosce nota che non è più l’ufficiale allegro e anticonformista di un tempo. Un dottore in Svezia A quest’ora della notte intorno a Vargön si muovono soltanto le volpi e qualche rapace notturno. Il dottor Dahhan sorride nel dormiveglia. La voce di Tarek nel telefonino gli dà sempre allegria: «Baba, baba...». È il figlio che ama di più. Ama anche Mohamed e Besher, ovviamente. Ma Mohamed è il più grande. Besher è ancora troppo piccolo per parlare. E Tarek, come tutti i secondi figli della sua età, sa farsi spazio con gli occhioni dolci e i suoi modi da cucciolo. Pensare a loro significa rivederli in mezzo ai loro giochi, o davanti ai film preferiti. C’è l’eroe di un cartone animato di nome BenTen. E c’è un mostro che ha quattro occhi e quattro mani. Il dottor Dahhan ha anche comprato il pupazzo di BenTen. Tarek era molto felice quando l’ha ricevuto. Ci dormiva perfino insieme. Molte volte Mohamed e Tarek, quando la sera guardavano un film, si addormentavano sul pavimento. Allora il papà li abbracciava e li portava a letto. Gli piaceva anche stendersi sul lettone in mezzo a loro. Oppure se li metteva tutti e tre seduti intorno, Mohamed, Tarek e Besher. Prendeva un peluche e con lui nelle mani inventava la storia della buonanotte. Il dottor Dahhan baciava sempre i suoi bambini prima di andare a dormire. E ancora adesso vorrebbe farlo. «Tutte le volte che vedo i bambini qui in Svezia», confida un giorno, «mi ricordano i miei bambini. Mi piacciono molto i bambini. Quando li portano al centro medico, vorrei tanto abbracciarli, baciarli. Ma non è accettabile. La gente potrebbe pensare male. Potrebbe credere di avere di fronte una specie di pedofilo. E non è così». Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi Tarek ha un’altra passione: Spongebob e tutto quanto riguarda la serie di cartoni animati. Mohamed invece è già in età da Lego e Play Station. Sì, Mohamed. Il papà se lo immagina spesso mentre guida Saetta McQueen. Seduto sul tappeto davanti alla tv, telecomando in mano fino all’ultima curva. Quando ha visto il film “Cars”, si è innamorato di quella macchina. Aveva un modellino rosso di Saetta, il suo preferito, gli occhi sul parabrezza, il sorriso nel paraurti. Gli piaceva anche un altro film: “Alla ricerca di Nemo” con Dory, la pesciolina smemorata. A volte erano discussioni senza fine con Tarek che invece voleva sempre vedere “Dora l’esploratrice”. Oppure “Baby Einstein” e i suoi amici animali. Davanti alla tv non ci sono confini. I bambini sono ovunque bambini. La fine della pace La guerra in casa Dahhan entra all’improvviso. In quel momento tutta la famiglia abita ad Aleppo, nel Nord della Siria. Una bella casa. Centocinquanta metri quadri di appartamento. E una terrazza che aggiunge un altro venti per cento di superficie. Il dottor Dahhan è uno dei più giovani e più preparati neurochirurghi dell’Ospedale universitario. Laurea in Russia, un tirocinio negli Stati Uniti a Boston. Opera personalmente al cervello e alla spina dorsale e, nel poco tempo libero, lavora nelle cliniche private. Va dove lo chiamano. Gli ospedali pubblici fanno curriculum. Quelli privati aiutano ad arrotondare lo stipendio statale. Turni da più di dodici ore. Giorno e notte. Quando torna dai suoi bambini è stravolto. Ma a volte la sera c’è ancora tempo per sfidare Mohamed e la sua Saetta McQueen alla Play Station. Anche la mamma dei suoi bambini, la sua splendida Reem, è laureata. Reem Chehada ha studiato chimica. Ma si è subito sposata con Mazen e uno dopo l’altro sono nati Mohamed, Tarek e Besher. Il duro lavoro di mamma moltiplicato per tre non le lascia tempo di fare altro. Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi È difficile stabilire il vero inizio della guerra», racconta il dottor Dahhan la sera a Vargön prima di tornare a casa, «perché è scoppiata gradualmente. Ma ricordo bene il momento in cui i tuoni delle esplosioni han cominciato a essere più forti. Ricordo quel momento preciso cosa stavamo osservando dalla terrazza con mio figlio. C’era un aereo che volava e scendeva basso. È venuto giù e sparava, sparava, sparava. Ricordo anche il momento, di notte, quando ti sembra che stai vivendo in un film. Hanno tolto l’elettricità e non c’è una sola luce in tutta Aleppo e vedi che stanno sparando da una parte e stanno sparando dall’altra. E sai che devi tenere te stesso, tua moglie e i bambini al centro della casa e non devi avvicinarti alla terrazza o alle finestre. Ricordo poi il momento in cui hanno cominciato con i cannoni. Cannoni assordanti. È stato uno shock per tutta la gente di Aleppo». È a quel punto che i cartoni animati, da storie per divertire i bambini, diventano farmaci contro la paura. «Quando i tuoni erano molto forti», spiega Mazen Dahhan, «durante gli attacchi, le sparatorie e i bombardamenti, accendevo la tv sui cartoni o su un film, alzavo il volume il più possibile e facevo in modo che i bambini non sentissero niente da fuori. Come se non stesse succedendo nulla. Li tenevo lontani così dai rumori della guerra». Tarek e Besher ancora non capiscono cosa sia. Ma Mohamed è consapevole. Sa che esiste un conflitto, che ci sono due schieramenti. E che tutti e due hanno torto. «Perché? Perché si combattono?», chiede un giorno al papà pieno di rabbia contro gli adulti. Poi va a chiudersi in camera sua e scrive la risposta. Di quel giorno il dottor Dahhan conserva la fotografia della pagina di un’agenda pubblicitaria, di quelle che i medici portano a casa dal lavoro. «Voltaren, a winning strategy», è stampato in basso a destra, accanto al logo del famoso antinfiammatorio. E in alto a matita, tre righe con la calligrafia di Mohamed: «Un giorno sarò un inventore e un soldato e sono sicuro che risolverò la situazione».In quel periodo il dottor Dahhan ha già cercato lavoro fuori dalla Siria. Il suo appello è ancora su Facebook. È lì da venerdì 3 febbraio 2012. Aleppo si ritrova divisa. Dopo la preghiera scoppiano le proteste. Ormai si spara in città, nei quartieri del centro e intorno alla Medina, il cuore antico della Firenze d’Oriente. Quel 3 febbraio nei pronto soccorso consegnano i primi cinque morti. Anche se le notizie circolano con difficoltà, da medici non è difficile capire cosa stia succedendo. Reem e Mazen ne hanno già parlato qualche giorno prima. Hanno deciso di portare i bambini lontano e al sicuro. «Cari amici», scrive quella sera il dottor Dahhan sulla sua pagina Facebook, «lascerò la Siria per una visita di due settimane negli Emirati Arabi. Vorrei trovare un lavoro come neurochirurgo e sto cercando di contattare diversi ospedali. Se qualcuno conosce un buon ospedale o può dirmi come trovare buoni alloggi per due settimane, allora per favore fatemi sapere. Grazie a tutti». Gli Emirati sembrano la meta ideale. Si parla arabo, hanno un buon livello di sanità, cercano specialisti. «Al secondo esame, ho ottenuto l’abilitazione per lavorare», rivela il dottor Dahhan: «Alla fine sono rimasto lì due mesi. E due giorni prima di ripartire, ho trovato il lavoro. Ho incontrato il direttore del reparto di chirurgia di un grande ospedale. Mi ha detto: stiamo cercando chirurghi come te, mandiamo delegazioni ad assumere medici perfino in India, dove sei stato tutto questo tempo? Serviva soltanto il visto per lavorare. Mi avevano già respinto una domanda, perché la sola abilitazione non bastava. Ma nemmeno adesso che ho il lavoro, basta. Viene respinta anche la seconda richiesta. Una volta noi medici siriani eravamo i benvenuti ovunque». Quel giorno gli Emirati insegnano cosa vuol dire avere la guerra in casa: non ti vuole più nessuno. Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi Il dottor Dahhan torna ad Aleppo. I bambini lo accolgono come un eroe. Reem lo consola. Si dimenticano degli Emirati e cercano di continuare la loro vita. Ma il dovere di un padre è mettere al sicuro la propria famiglia. Il dovere di un medico è curare i feriti, da qualunque parte vengano. Il dovere di un uomo vero è opporsi alla guerra. E il dilemma è sempre lo stesso: rimanere o partire? Il 12 luglio 2012 è un giovedì. Due giorni prima era il compleanno della sua splendida Reem. Il ventinovesimo. Ormai è evidente che il conflitto ha superato il punto di non ritorno. Il 12 luglio Mazen Dahhan condivide su Facebook la foto di una caravella e la famosa frase attribuita a Cristoforo Colombo: «Non si può mai attraversare l’oceano se non si ha il coraggio di perdere di vista la riva». Adesso dal telefonino, appoggiato sul tavolino davanti al divano, lo chiama la moglie: «Habibi, habibi, amore », gli dice, così come gli ha sempre sussurrato. In volo sulla morte George Abela va a letto con la luna di traverso. Arrivato a casa, ha rimesso a posto il drone. Ma ha avuto la pessima idea di controllare le mail al computer prima di dormire. Gli hanno scritto dall’Italia. Gli chiedono che parli, che racconti tutto quello che sa, che finalmente si liberi dei demoni che da quattro anni si porta dentro. Quello che ha visto del massacro ancora lo tormenta, di giorno e di notte. Ma cosa poteva fare di più? Si è tolto per sempre la divisa, ha cambiato vita. È l’unico ufficiale ad averlo fatto. L’unico coerente fino in fondo. Certo, il dubbio continua a rodere. Forse avrebbe dovuto gridare di più alla radio sul canale 16 delle emergenze in mare. Avrebbe potuto farsi passare Catia Pellegrino, la comandante in persona di quel P402, il pattugliatore della Marina militare italiana che tutti conoscono come nave Libra. Avrebbe dovuto mettere gli ufficiali della Libra di fronte ai loro doveri militari e civili. Oppure no, forse avrebbe potuto insistere di più con la sua collega Ruth Ruggier, perché alzasse la voce con gli italiani. Ma tra forze armate esiste un galateo. È per questo che George Abela si è congedato prima del tempo: quel pomeriggio in volo a 61 miglia da Lampedusa e a 118 miglia da Malta ha scoperto che il galateo, gli accordi tra governi, la cooperazione tra alleati sono semplicemente una farsa. Ecco: gli avvocati italiani che vogliono la verità, Alessandra Ballerini ed Emiliano Benzi di cui lui ha letto i nomi sui giornali, o quel giudice siciliano che ha impedito l’archiviazione dell’inchiesta, perché non cercano direttamente Ruth Ruggier? Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi Il maggiore Ruth Ruggier il pomeriggio che ha cambiato la vita a George Abela è l’ufficiale di servizio nella sala operativa del Centro coordinamento soccorsi di Malta. Ruth è figlia d’arte. Il papà era entrato come sottufficiale maltese nella Royal Air Force, l’aeronautica militare britannica. E quando Londra ha chiuso la base aerea sull’isola, lui ha trasferito la famiglia in Inghilterra. Per questo la figlia parla inglese con accento perfetto. E non è l’unica eccellenza nel suo curriculum. Ruth Ruggier è anche la prima donna ufficiale delle Forze Armate di Malta. Si è arruolata nel 1993 e due anni dopo è la prima cadetta maltese a completare il duro addestramento alla Royal Military Accademy di Sandhurst, l’accademia reale dell’esercito che appena fuori Londra ha formato ufficiali della Regina come i principi Henry e William, il re Abdallah di Giordania, o il creatore di James Bond, Ian Fleming. Dietro il suo bel volto mediterraneo ha un carattere di ferro. È campionessa femminile nelle gare di nuoto e corsa tra reparti militari. Ma riesce anche a essere una mamma affettuosa. Il maggiore Ruggier è sposata con un collega. Lei e il tenente colonnello Ian Ruggier sono genitori di tre figli bellissimi. Il pomeriggio del massacro il comandante George Abela, seduto sul sedile sinistro del King Air in volo da quasi un’ora, le ha tutte e due a portata di radio. Sul canale 16 Vhf marino la prima ufficiale donna italiana a comandare una nave da guerra, il tenente di vascello Catia Pellegrino, che non risponde alle sue richieste di soccorso, così come non rispondono gli altri ufficiali di nave Libra. E sul canale riservato della Difesa, la prima ufficiale donna delle Forze Armate di Malta. Il maggiore Ruth Ruggier fa tutto quello che deve fare con scrupolo e intelligenza. Lei chiama gli italiani, li sollecita via fax in modo che ne resti prova. Chiede che mobilitino al più presto nave Libra perché è la più vicina. Vuole che sia messa sotto le dirette istruzioni del comandante Abela che osserva tutto dall’alto. Tutto giusto, tutto perfettamente rispettoso del galateo tra Stati e forze armate. Ma quando senti che l’ufficiale di servizio della Guardia costiera italiana e la Marina militare ti fanno perdere tempo, rimbalzano le tue richieste di soccorso e capisci che sta per compiersi il massacro, non puoi domandare elegantemente: «Who am I talking to, please, con chi sto parlando, per favore? ». Non sei in linea con Buckingham Palace. Sarà forse l’accento reale del maggiore Ruggier, sarà la sua ottima formazione. Ma sicuramente sarebbero più efficaci le bestemmie dei meccanici dell’aeroporto di Luca, gli specialisti che quel pomeriggio hanno consegnato il King Air al maggiore Abela e al suo copilota, il capitano Pierre Paul Carabez. E poi la durata di quella telefonata tra Roma e Malta. È l’ultima che potrebbe evitare la strage di civili: otto minuti di ciance e convenevoli. Un tempo infinito. Immaginate che fiasco sarebbe stato, se il regista Francis Ford Coppola avesse infilato una telefonata di otto minuti all’inizio della sequenza più drammatica di “Apocalypse Now”. I medici di Aleppo Gli abitanti di Aleppo si ritrovano all’improvviso come i vietnamiti del film, sotto il fuoco incrociato della guerra. A fine 2012 parte una violenta azione militare. Il centro storico della Medina viene conquistato dai rivoluzionari. E la città si risveglia tagliata in due dalla prima linea. Mazen Dahhan adesso lavora a tempo pieno nel dipartimento di neurochirurgia all’Al-Kindy Hospital, il più moderno nel Nord della Siria. «Perfino andare a lavorare in quei giorni è un pericolo. Puoi essere ucciso in qualunque momento. Dai bombardamenti, dai cecchini, dalla reazione dei soldati ai checkpoint», racconta il dottor Dahhan: «Avevo perso i contatti con gran parte dei pazienti, tagliati fuori dalla prima linea. Non si poteva più dormire per i tuoni delle bombe, per i missili. E in qualunque momento poteva addirittura peggiorare. Sono corso nel mio ambulatorio a prendere le cose più preziose: il certificato di laurea e i miei strumenti da neurochirurgo. Due giorni dopo tutto quel quartiere è diventato zona militare. Significa che non ci puoi più andare, che puoi essere colpito da un cecchino lungo il percorso. Che esci di casa e non torni più. Quando ci sono urgenze, l’ospedale ti chiama anche la notte e bisogna correre. È l’ora del coprifuoco. Non ci sono macchine nelle strade. Ogni auto che si muove sola è considerata una minaccia, perché può essere un’autobomba o cose del genere. Quindi quando guidi di notte, è meglio abbassare l’intensità dei fari e andare piano. Ma se pensi che sia una zona di cecchini, devi guidare veloce. E poi ci sono i posti di blocco. Come chirurgo, avevo tutti i miei strumenti sterilizzati e pronti all’uso in una borsa: perché in tempo di guerra un neurochirurgo si deve portare gli strumenti da casa oppure perché non sempre gli ospedali avevano tutte le cose che servono in sala operatoria. Così ai posti di blocco se vedevano cosa c’era nella borsa, oppure notavano il sacchetto con i campioni di medicinali che tenevo sempre con me, i soldati potevano pensare che stavo andando a fare interventi nelle zone vietate. Un mio collega è stato accusato di questo e non era vero. Io di solito mi presentavo subito all’inizio, prima che loro controllassero il bagagliaio. Lo dicevo subito chiaramente: sono un dottore, ho un’urgenza in ospedale, prego controllate la macchina. Io sono solo un dottore». Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi Ma nemmeno queste precauzioni possono bastare in tempo di guerra. «Conosco dottori che sono morti. Uccisi ai posti di blocco, dai soldati o dai ribelli. Altri sono stati colpiti per strada mentre andavano al loro ospedale oppure tornavano. Sono stati uccisi da bande di persone che avevano un kalashnikov e hanno sparato. Hanno le armi, fermano la macchina, te la prendono. So di almeno centocinquanta dottori ammazzati in questo modo. Una vergogna». Quella di Aleppo l’hanno chiamata la guerra degli ospedali. «Ho poi saputo che l’Al-Kindi Hospital è stato distrutto», elenca il dottor Dahhan: «C’erano anche ospedali privati come il “Dar al-Shifa”. Distrutti. L’ospedale dei bambini occupato dall’Isis. Distrutto. Quello che chiamavamo l’ospedale francese. Demolito, da un’autobomba, completamente demolito. È stato uno dei primi attentati dentro la città. Lì lavorava il mio amico Mohanad Jammo». La guerra cambia le ferite che un medico deve curare. Al pronto soccorso arrivano adulti e bambini con schegge metalliche o proiettili da rimuovere. E poi le ustioni. Quando fuori hanno cominciato a martellare con i missili, dentro gli ospedali hanno scoperto a quale temperatura scoppiano le bombe intelligenti. E giorno dopo giorno si aprono le ferite interiori. Quelle sono contagiose. Colpiscono anche chi vuole rimanere umano. È la contaminazione dell’anima. I demoni che ti accolgono e ti mostrano che al peggio non c’è fine. «La guerra mi ha cambiato, sì», ammette Mazen Dahhan, «mi ha cambiato moltissimo. Perché ti mostra tante cose nella vita che io non conoscevo prima. Mi ha insegnato che ci sono mostri che vivono tra di noi, ma sono vestiti come noi. Io non lo sapevo. Mostri che abitano accanto a noi, ci parlano, ci sorridono. Ho imparato questo, come padre, che la guerra separa e uccide le famiglie. Uccide qualsiasi attimo di umanità nella gente». Da padre, da medico, da uomo, il dottor Dahhan si convince che Aleppo ridotta così non può più essere la casa dei suoi bambini. L’amico Mohanad Jammo ha appena trovato lavoro nell’ospedale di Misurata, in Libia. Il dottor Jammo, capo degli anestesisti dell’ospedale francese demolito dall’autobomba, ha annunciato che partirà con tutta la sua famiglia. Mohamad, il figlio più grande, avrà presto sei anni. Naya, la sorellina, cinque. E tra poche settimane arriverà il terzo bimbo che hanno deciso di chiamare Nahel. Non può nascere all’inferno, Nahel. Mazen e Mohanad discutono del progetto ogni volta che si vedono. Un altro amico di Mohanad, Ayman Mostafa, lavora da pochi giorni a Misurata. È lui il contatto. Il dottor Mostafa, chirurgo e medico internista, è già andato via con la moglie, Fatena Katib, e la loro piccola Joud, che non ha ancora tre anni. Vista dalla loro città, perfino la Libia sembra un rifugio tranquillo. Fuga dalla Siria Il primo post del 2013 sulla pagina Facebook è una notizia definitiva: «Fine del lavoro nell’ospedale di Aleppo», pubblica il dottor Dahhan. «Ho chiesto al dipartimento di non assegnarmi più interventi», dice ora, «perché quando operi, poi devi seguire il ricovero fino alla fine. Dimesso l’ultimo mio paziente, ferito da un proiettile vagante, ero libero di partire. Abbiamo fatto le valigie con le cose essenziali, il minimo dei vestiti e il necessario per i bambini. Mohamed ha preso i suoi Lego. Tarek i pupazzetti di Spongebob. E abbiamo chiuso la porta. Erano le 8 del mattino, il 5 gennaio 2013. Mia moglie piangeva. L’ho abbracciata. Le ho detto: ok, adesso dobbiamo andare, ma quando la guerra finisce, torneremo. Non sapevo che da quel giorno non saremmo più tornati». Passano in macchina il confine turco. Poi l’Egitto in aereo. E infine dieci ore via terra, su un pulmino a noleggio. Il dottor Dahhan ha trovato lavoro all’ospedale di Tobruk, la città più vicina al confine egiziano. Sono più o meno gli stessi giorni del viaggio di Mohanad Jammo, sua moglie incinta e i due bambini. Arrivano appena in tempo. Poco dopo anche la Libia chiude i confini ai siriani. «Mi faccio portare direttamente al centro clinico di Tobruk», ricorda il dottor Dahhan, «e attraversando la città scopriamo che è assolutamente primitiva. Il clima, prima di tutto. Il caldo del Sahara, anche se è gennaio. E le case. Non c’erano molte costruzioni intorno a noi. Reem accanto a me piangeva perché già era stato molto, molto difficile per lei lasciare Aleppo e forse si aspettava qualcosa di meglio. La mattina dopo, quando abbiamo deciso di andare a scoprire l’area dove avremmo abitato, siamo rimasti scioccati. Non c’era nessuna forma di vita civilizzata intorno a noi». Il dottor Dahhan comincia il suo lavoro di neurochirurgo. Lo stipendio non è male: duemilacinquecento dollari al mese, anche se non sempre i pagamenti sono puntuali. Il problema non sono i soldi, no. «È raccapricciante e per niente piacevole per una donna siriana trovarsi a Tobruk», racconta, «perché quando io sono al lavoro, la mia famiglia è obbligata a rimanere chiusa in casa. Non ci sono parchi giochi o luoghi dove una donna possa andare da sola con i suoi bambini. Anche se si copre completamente il volto, cosa che ad Aleppo non si usava, una donna in giro a Tobruk ha problemi. C’è sempre qualcuno pronto a spaventarla, a molestarla o peggio. Andavamo a fare la spesa al mercato e mi accorgevo che gli uomini la guardavano in modo irritante. Da gente così ti puoi aspettare qualunque cosa. Non c’è nessuna autorità a Tobruk. Le macchine circolano senza targa. E la legge che conta è quella dei clan. L’unica giornata di libertà per noi, Reem, me, i nostri bambini, era il venerdì, quando riuscivamo ad andare in spiaggia. Era la prima volta che Tarek e Besher vedevano il mare». Nemmeno Mohanad Jammo, diventato papà per la terza volta, è tranquillo. Si sentono al telefono. La guerra sta tornando anche in Libia. Praticamente li sta braccando. E i fanatici libici, che puoi incontrare ovunque a Misurata e a Tobruk, li considerano traditori perché non sono rimasti ad Aleppo a combattere al fianco di Al Qaeda. Il dottor Jammo, il dottor Mostafa e gli altri loro colleghi siriani le stanno provando tutte. Spediscono ogni settimana curricula e richieste di visto in Europa, Arabia Saudita, Emirati, Giordania. Niente da fare. A medici che in Libia guadagnano fino a seimila dollari al mese, i democratici Stati dell’Unione Europea non concedono più nemmeno il visto turistico. Le madri e i padri siriani non li vuole più nessuno. Come se la colpa della guerra fosse dei loro piccoli Nahel, Besher, Joud, Tarek, Naya, Mohamad e Mohamed. Un unico destino. Il grande massacro del Mediterraneo Condividi «Nell’aprile 2013», ammette il dottor Dahhan con un sorriso sarcastico al solo pensiero, «ricevo un’email dal Rashid Hospital di Dubai. Mi spiegano che mi vogliono assumere, quale sarà lo stipendio, quanti saranno i giorni di vacanza e come rimborseranno i voli per arrivare a destinazione. È la risposta alla domanda che avevo presentato durante la mia visita negli Emirati l’anno prima. Il direttore che mi vuole ha studiato e fatto tirocinio a Göteborg, qui in Svezia. Rispondo che accetto. Ma che non posso partire subito perché non mi hanno ancora dato la residenza in Libia e i confini libici sono chiusi ai siriani non residenti. Se parto, rimango fuori per sempre e mia moglie con i bambini restano bloccati a Tobruk. Chiedo se possono aspettare uno o due mesi che sono i tempi della burocrazia libica. E dall’ospedale di Dubai mi rispondono di sì, ok, possiamo aspettare». Il certificato di residenza libico arriva dopo due mesi. Mazen Dahhan ottiene subito un visto turistico e vola a Dubai. In ospedale lo aspettano per il giorno dopo. «Sono sicuro di aver fatto un colloquio molto buono con due medici, uno credo svedese e uno del posto. Illustro il mio curriculum, le operazioni fatte, il mio alto tasso di successo. Mi fanno domande su tutto, medicina, neurochirurgia, complicanze. E io rispondo a tutto. L’esame è in inglese. Esco con l’impressione che sia andata bene. La mia famiglia è salva. Il giorno dopo trovo in email la loro risposta: mi hanno rifiutato, non spiegano perché, ma mi hanno rifiutato. Torno in ospedale. Chiedo un altro colloquio. Mi ricevono. Rispondo correttamente a tutte le loro domande. Se sei preparato, sai quando le tue risposte sono giuste. Li supplico: per favore, viviamo come prigionieri, la mia famiglia è in Libia e la situazione lì è davvero difficile, mettetemi alla prova per uno o due mesi, uno o due mesi, non resterò oltre, faccio quello che volete, ve lo chiedo per la mia famiglia. Non mi dicono il perché. Ma la loro risposta è questa: purtroppo abbiamo deciso di non prenderti, sorry». Il dottor Dahhan corre a noleggiare una macchina. Il visto turistico gli lascia ancora qualche giorno. Attraversa il deserto. Va a chiedere a tutti gli ospedali che trova. In un posto sperduto tra le montagne incontra un neurochirurgo indiano. Devono aprire un nuovo dipartimento. Il dottor Dahhan viene accompagnato dal direttore: «Cominciamo con un contratto temporaneo», lo rassicura il futuro capo, «fai domanda e ti prendiamo». Il visto sta per scadere. Mazen Dahhan consegna la domanda e i suoi recapiti. Compra una valigia di giocattoli per i suoi bambini e torna in Libia. Dove un tassista gli rapina la valigia e i giocattoli. Mandare la famiglia in Turchia in un campo profughi è fuori discussione. In Turchia i siriani non possono lavorare. La moglie però ha uno zio in Libano disposto a ospitare lei e i bambini. Ma arrivare via terra è impossibile: anche l’Egitto ha chiuso le frontiere ai siriani. Rimane l’aereo. Il dottor Dahhan una mattina entra in un ufficio che è una specie di agenzia di viaggi. Gli dicono che il volo c’è, però non si può: tutti gli aerei per il Libano fanno scalo al Cairo e le autorità egiziane non concedono più nemmeno i visti di transito a gente come loro. Nemmeno a una mamma con tre bambini piccoli. La Libia è ormai un vicolo cieco dove le milizie tornano a sparare per strada. La via del mare Mazen si sfoga al telefono con l’amico Mohanad. Scopre che loro, il dottor Jammo e il dottor Mostafa e quasi tutti i medici siriani di Misurata, si sono rassegnati all’idea di scappare con un barcone. L’hanno già fatto altri colleghi e ora sono sani e salvi in Germania o in Svezia. Sono solo due o tre giorni di sofferenza fino allo sbarco in Italia. Anche Mohanad non può più rimanere a Misurata. Un gangster libico ha addirittura messo gli occhi sulla sua bambina di cinque anni: pretende che il dottor Jammo la prometta in sposa a suo figlio. Da medici quali sono, hanno calcolato i rischi della traversata: numero dei morti diviso numero degli arrivati vivi. Secondo i calcoli, fa una percentuale tra l’1,2 e il 3 per cento: per la razionalità di un chirurgo, ma anche per un padre che non sa più come proteggere i suoi bambini, è un rischio minimo che si può affrontare. «Quando dopo il 3 ottobre abbiamo saputo del naufragio di Lampedusa», rivela oggi il dottor Dahhan, «abbiamo sentito che avevano acceso un fuoco sul barcone per farsi vedere. E abbiamo pensato che accendere il fuoco su una barca di legno fosse una cosa stupida. Noi non avremmo acceso nessun fuoco. E se c’era già stato un naufragio la settimana prima, per la teoria del caso c’erano pochissime probabilità che potesse succedere a noi la settimana dopo. La strage di Lampedusa invece di scoraggiarci, ci ha incoraggiati a partire». "Un unico destino - Tre padri e il naufragio che ha cambiato la nostra storia'' - Il trailer Condividi La sera del 10 ottobre 2013 tutti i 480 passeggeri, tra cui cento bambini e trenta famiglie di medici, aspettano nel buio sulla spiaggia di Zuwara. Il segnale di luce dal peschereccio in arrivo è questione di minuti. Proprio in quel momento il dottor Dahhan riceve un messaggio su Whatsapp. Gli scrive il medico indiano che ha incontrato tra le montagne negli Emirati. Gli comunica che non lo prenderanno: non possono assumere siriani ora. Quello è l’ultimo messaggio sul suo numero di telefono libico. Mazen lo fa vedere a Reem, che continua a piangere per la paura: «Era ovvio», le dice, «non ci vogliono. Non ci resta che andare in Europa». Alla famiglia Dahhan tocca stringersi tra le persone ammassate nella parte bassa del peschereccio. Li accoglie una terribile puzza di benzina e petrolio e il ronzio di un ventilatore, messo lì perché non muoiano asfissiati. «A mezzanotte stiamo ormai navigando veloci verso l’Italia e sentiamo le grida. Dai bagliori capiamo che ci hanno puntato un faro. Noi sotto non possiamo vedere cosa accade là fuori», racconta il dottor Dahhan: «Dicono che ci sta inseguendo una motovedetta libica. Spariscono e ritornano e noi ci addormentiamo sfiniti. Ci risveglia il suono di un martello che batte sul metallo, toc, toc, toc. Venti colpi o poi molti altri. Dopo pochi secondi alcune persone gridano per il dolore. Gridano e io vedo un buco nella parete dello scafo, esattamente tra me e Reem. Ci hanno sparato. Il proiettile è penetrato e ha colpito due persone vicine a noi. Abbraccio Tarek e Mohamed. Reem stringe Besher. Mia moglie ha smesso di piangere e mi guarda sotto shock. Devo alzarmi a medicare i feriti. Non abbiamo nulla. Solo magliette strappate a strisce per fermare l’emorragia. È quello il momento preciso in cui l’acqua ha cominciato a entrare nello scafo bucato dalle raffiche di mitra». Passano le ore. Mohamed, Tarek, Besher sono ancora accanto alla mamma e al papà. «Tarek era in piedi vicino a me e mi dice: papà, come mai le nostre borse sono finite in mare? L’acqua dentro lo scafo è ormai alta più di mezzo metro. Il peschereccio è molto instabile. Sbanda a destra e a sinistra e fa fatica a raddrizzarsi. Chiedo a Dio che ci aiuti. Prendo Mohamed, Tarek e Besher. Li porto di sopra, all’aperto e li consegno ad Ayman, il dottor Mostafa. Trattali come se fossero i tuoi figli, gli dico, se succede qualcosa, prenditi cura di loro. Proprio così e questo è stato l’ultimo momento in cui ho visto i miei bambini». Epilogo A bordo qualcuno prega, qualcuno piange, molti gridano, una donna sta partorendo. A un certo punto un tale si alza in piedi, urla qualcosa al vento e butta in mare manciate di banconote: «Guardate, ho centomila euro», sbraita impazzito e svuota manciata dopo manciata tutta la sua borsa. Non ci sono soltanto medici tra di loro. Anche commercianti, imprenditori. La borghesia siriana. «Sono tornato di sotto da Reem. Mia moglie mi fissava e piangeva», ricorda quasi in trance il dottor Dahhan: «Io non riuscivo a guardarla, perché mi vergognavo di me stesso. Reem, Mohamed, Tarek, Besher, cosa vi ho fatto? Li avevo portati io lì sopra. Ci siamo abbracciati. In quel momento, il barcone si è rovesciato. Ho stretto Reem da dietro. Piangevo e la tenevo. Fino a quando la forza dell’acqua me l’ha strappata via. Aveva 30 anni la mia Reem». È così che per 268 persone, tra cui sessanta bambini, il fragore del mare si placa del tutto. Duecentosessantotto morti su 480 siriani in fuga. Manca poco al tramonto dell’11 ottobre 2013. L’allora maggiore George Abela, il suo copilota Carabez, l’operatore ai sistemi di bordo e i due osservatori li vedono annegare dal cielo, uno dopo l’altro. A ogni giro del loro aereo ricognitore assistono alla roulette dei minuti che separa i sommersi dai salvati. Besher, Tarek e Mohamed Dahhan, la loro mamma Reem, Joud Mostafa e la sua mamma Fatena, Mohamad Jammo e il suo fratellino Nahel, nato dopo l’arrivo della famiglia in Libia: anche loro scompaiono tra i sommersi. Dal maggiore Ruggier su su fino al comando generale delle Forze Armate di Malta sanno bene cosa è successo. George Abela l’ha firmato nel rapporto di fine missione, prima di togliersi la divisa per sempre: la Marina militare italiana è rimasta a guardare per quasi cinque ore. Dalle 12.26, con la prima chiamata di emergenza alla sala operativa di Roma della Guardia costiera. Fino alle 17.07, il momento esatto del capovolgimento del peschereccio. E la Libra sempre lì, a poche miglia, trenta, quaranta minuti di navigazione appena. Perché il comando in capo della Marina militare ordina alla comandante Pellegrino di allontanarsi dal peschereccio alla deriva? Perché gli ufficiali della nave italiana non rispondono alle disperate chiamate radio di George Abela? Due domande per spiegare il massacro. «L’imbarcazione è sovraccarica e molto instabile», ripete e ripete il comandante del King Air sul canale delle emergenze, quando manca più di un’ora al naufragio e c’è ancora tempo per andare a salvarli. «We are dying, stiamo morendo», grida per tutto il pomeriggio al telefono satellitare il dottor Jammo, in linea con la sala operativa della Guardia costiera italiana. Una registrazione che ha fatto il giro del mondo. A volte la vita scorre davvero al contrario. Intreccia vivi e morti, angeli e demoni. E li annoda in un unico destino. Ciascuno ha le sue ragioni. George Abela ha smesso di volare e filma fuochi d’artificio. Catia Pellegrino è diventata una star. Un film su di lei. Il libro autobiografico. E la decisione del suo comando di trasformarla nel volto immagine di Mare Nostrum. Se l’Italia non avesse dato il via alla più grande missione umanitaria del Mediterraneo, decisa proprio sulle emozioni dell’11 ottobre, l’allora comandante di nave Libra sarebbe oggi semplicemente un nome nell’elenco degli indagati per il naufragio. Omissione di soccorso e omicidio sono le accuse contro gli ufficiali italiani. Ma per ora possono stare tranquilli. Malta non aprirà gli archivi con le testimonianze dei suoi militari, che nessuna Procura italiana ha mai chiesto. Ci abbiamo provato noi a scalfire il muro di gomma appellandoci al “Freedom of information act”, la legge sulla libertà di informazione. La riposta dell’autorità maltese è quasi un’ammissione: «La richiesta di informazioni è respinta perché gli interessi di riservatezza prevalgono sull’interesse pubblico. Inoltre ogni rivelazione provocherebbe o potrebbe provocare danni alla sicurezza, alla difesa o alle relazioni internazionali di Malta con l’Italia. Risulta anche che siano in corso indagini dell’autorità italiana, in vista di azioni penali. La questione coinvolge quindi le relazioni internazionali tra i due Paesi». Più chiaro di così: meglio dimenticarsi dei bambini annegati e salvare la diplomazia. Sul lago svedese appena fuori Vargön l’alba ha gli stessi colori delicati del tramonto. Il dottor Dahhan è già in piedi pronto ad andare al lavoro. Ritrovarsi in casa solo la mattina per lui è come rivivere ogni volta la sera dopo il naufragio. Infila nella tasca della giacca il telefonino con le voci registrate della sua vita. Meno male che le ha salvate su Internet con tutte le foto, prima di imbarcarsi dalla Libia. Le voci prima di dormire lo aiutano a sognare. Quando riappaiono, Reem e i bambini, lui dice di svegliarsi felice. Purché sia un bel sogno, non l’incubo ricorrente in cui li perde. Adesso però deve proprio andare. Mazen Dahhan entra nel centro clinico del paese. Dalla solitudine dei suoi occhi è chiaro che anche stanotte non sono tornati a trovarlo. Le tappe Ore 12.26 Lo scafista di un peschereccio con 480 siriani a bordo chiama la Guardia costiera di Roma, ma cade la linea Ore 12.39 Richiama uno dei siriani, il dottor Mohanad Jammo. Riferisce che imbarcano acqua e stanno affondando Ore 13.00. Il peschereccio è nella zona di competenza maltese. La Guardia costiera italiana passa il caso a Malta. L'ufficiale di servizio, Clarissa Torturo, non riferisce che stanno affondando Ore 13.17 Il dottor Jammo richiama la Guardia costiera. Il capo della sala operativa, Leopoldo Manna, risponde che deve chiamare Malta Ore 13.48 Il dottor Jamma richiama: Malta gli ha risposto che sono più vicini a Lampedusa. Supplica l'ufficiale di servizio, Clarissa Torturo: «Stiamo morendo» Ore 14.35 La Guardia costiera italiana chiama Malta, che dice di non aver ricevuto formale richiesta via fax per assumere il coordinamento Ore 15.37 Luca Licciardi, capo sezione del Comando in capo della Squadra navale della Marina, ordina che nave Libra «non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette» maltesi Ore 15.41 Il capitano di fregata Nicola Giannotta passa l'ordine alla comandante di nave Libra, Catia Pellegrino. È a 40 minuti di navigazione dal peschereccio e viene fatta allontanare a 19 miglia Ore 16.00 George Abela, comandante di un aereo ricognitore maltese, scopre che la Libra è vicinissima. Chiama sul canale 16 delle emergenze, ma dalla Libra non risponde nessuno Ore 17.07. Il maggiore maltese Ruth Ruggier annuncia al collega italiano Antonio Miniero che il peschereccio si è rovesciato e c'è gente in mare

lunedì 4 dicembre 2017


Governare i social E EDITORIALE Governare i social di ANDREA CANGINIPubblicato il 3 dicembre 2017 La Nazione Ultimo aggiornamento: 4 dicembre 2017 ore 11:39 Oggi le chiamano fake news, ieri le chiamavamo bufale. Sono sempre esistite e da sempre chi governa se ne serve per rafforzarsi e chi sta all’opposizione per indebolire chi governa. Nei rapporti tra Stati, poi, la disinformazione è la regola, e non solo in tempo di guerra. Nulla di nuovo, dunque. «Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti, non solo del mestiere del politico e del demagogo, ma anche dello statista», ha scritto 45 anni fa la filosofa Hannah Arendt. Tra ieri e oggi, però, è sopraggiunta una novità: sono arrivati i social e una quota ormai maggioritaria di persone li usa come unica fonte di informazione. A differenza dei giornali e degli altri mezzi tradizionali di comunicazione, però, i social non si rendono responsabili dei contenuti che diffondono. Ne risulta una babele informativa su scala globale, una valanga di nozioni, notizie, immagini, video, commenti dove il vero convive col falso e che si riversa sugli utenti senza un criterio né un ordine. Una fonte vale l’altra, le notizie in partenza si equivalgono per poi collocarsi lungo un’ideale scala gerarchica sulla sola base del numero di condivisioni che ottengono. P Chi la spara più grossa, dunque, vince. Vince chi diffonde notizie che alimentano vecchi e nuovi pregiudizi, chi urla più forte, chi si indigna di più. Il dibattito civile e politico risulta di conseguenza dopato; aumentano esponenzialmente la conflittualità e l’approssimazione. È questo, a nostro avviso, il problema principale. E di questo problema le fake news, ovvero le notizie volutamente false tese ad alterare il confronto democratico, rappresentano un aspetto secondario. Matteo Renzi ne ha fatto materia di campagna elettorale, evoca oscuri legami tra gli agenti della disinformazione russa e il Movimento 5 stelle e invoca una commissione parlamentare di inchiesta. Non crediamo che la vittoria di Trump negli Stati Uniti sia dovuta ai troll di Putin, non crediamo che il risultato delle prossime elezioni in Italia rischi di essere falsato da qualche bufala artatamente messa in Rete. Il tema è la normalità dell’informazione sui social, non la straordinarietà delle fake news. La soluzione non c’è, ma per migliorare la situazione basterebbe dare corpo a due parole: responsabilità e qualità. Se i social cominciassero ad assumersi qualche responsabilità, se il nome di chi diffonde un messaggio in Rete fosse identificabile, se le aziende che fanno pubblicità sui siti più screditati solo perché generano molto traffico puntassero a vetrine di qualità, e se si rivalutassero i cari e vecchi giornali la situazione un po’ migliorerebbe. Poi, certo, se ciascuno di noi avesse un certo grado di cultura e spirito critico il problema non si porrebbe affatto. Ma non è il caso di illudersi. Gira su WhatsApp (con commento, al solito, enfatico e indignato) uno spezzone di una recente puntata del quiz televisivo l’Eredità. Quattro concorrenti, una domanda: quando è stato nominato cancelliere Adolf Hitler? La prima concorrente ha risposto nel 1948, il secondo nel 1964, la terza nel 1979. «Sarà forse il 1933?», ha domandato, tremebonda, la quarta concorrente.

IL SECOLO XIX FacebookInstagramTwitterGooglePinterestYoutubeRSS IL VESSILLO ESPOSTO NELLA CASERMA 04 dicembre 2017 Bandiera nazi, il militare: «Non sapevo» C Bandiera del II Reich in caserma: carabiniere si difende Si difende il giovane carabiniere che ha ammesso di aver appeso la bandiera del Reich nella sua camera della caserma Baldissera di Firenze ARTICOLI CORRELATI La bandiera nella caserma si vede dalla strada Bandiera del Reich nella caserma dei carabinieri, Pinotti: «Voglio chiarimenti» Naziskin ingannati dalla bandiera del Secondo Reich Firenze - «È stata una leggerezza, non sapevo che fosse un simbolo dei neonazisti»: così il carabiniere del 6/o battaglione nella cui camera è stata affissa la bandiera di guerra della marina del Secondo Reich, spiega l’accaduto. Il militare, 23 anni, originario di Roma, afferma anche di non essere un neonazista e di essere un appassionato di storia, soprattutto del periodo durante il quale quel vessillo, acquistato su internet, fu usato. «Mi sono iscritto alla facoltà di storia dell’Università La Sapienza di Roma e voglio laurearmi». «Chiedo scusa - avrebbe anche detto - se ho violato i regolamenti». Pinotti: «Caso isolato» «Saranno coloro che sono preposti al giudizio a decidere quali sono le eventuali sanzioni. Io voglio ribadire da una regione come la Liguria, dove a forte San Martino sono stati trucidati otto carabinieri per aver partecipato alla Resistenza, che dei Carabinieri hanno fatto parte Salvo D’Acquisto e i tre martiri di Fiesole e voglio ricordare che l’arma dei Carabinieri è perfettamente inserita in quella che oggi è la nostra democrazia, nelle leggi della Repubblica e nella conoscenza della nostra Costituzione». Lo ha detto il ministro della Difesa Roberta Pinotti rispondendo ad una domanda sul caso della bandiera del secondo reich affissa da un carabiniere. «In ogni caso si tratta di un evento che riguarda una persona isolata sulla quale chi ha responsabilità valuterà quali sono realmente gli elementi della questione», ha sottolineato.(

domenica 3 dicembre 2017


Corriere della Sera / CRONACHE FIRENZE Le studentesse Usa ascoltate 12 ore «Così i carabinieri ci hanno stuprate» L’incidente probatorio conferma la versione delle due ragazze: una di loro sviene in aula La difesa dei militari: «Sono innocenti, nessuna scusa: le giovani erano consenzienti» di Marco Gasperetti Le hanno ascoltate per dodici ore, fino a notte, con una raffica di domande che avevano presentato gli avvocati della difesa. Le due studentesse americane di 21 e 19 anni hanno pianto e una di loro ha anche accusato un lieve malore («La mia assistita è quasi svenuta», ha spiegato l’avvocato Gabriele Zanobini) ma hanno ripetuto tutto ciò che avevano detto agli investigatori. Confermando che la notte del 7 settembre furono violentate da due carabinieri del 112 che avrebbero dovuto proteggerle e accompagnarle “sane a salve” nel loro appartamento nel centro storico di Firenze. Insomma, secondo i legali delle due ragazze, l’incidente probatorio che si è svolto nell’aula bunker di Firenze in modalità protetta, ha “cristallizzato” come prova le dichiarazione delle presunte vittime rafforzando la tesi accusatoria. «Non ci sono state contraddizioni, anche rispetto alle domande ritenute influenti e dunque non sono state invalidate le dichiarazioni iniziali delle studentesse». Memorizzato il cellulare dei carabinieri La difesa dei carabinieri accusati di stupro, l’appuntato Marco Camuffo e il carabiniere scelto Pietro Costa, hanno presentato per ciascuna ragazza oltre 250 domande, alcune delle quali, quelle ininfluenti per le indagini e degradanti per la dignità delle donne, non sono state ammesse. Tra queste anche la domanda se due studentesse quella sera indossassero gli slip. Accettato dal gip Mario Profeta invece il quesito sul motivo perché una delle due studentesse, che hanno confermato di aver bevuto molto alcol la notte del presunto stupro, avesse memorizzato sul suo cellulare il numero di uno dei militari accusati. La giovane ha confermato di averlo salvato nella rubrica ma ha aggiunto di non ricordarne il motivo. La difesa dei militari Secondo l’avvocato Giorgio Carta, legale del carabiniere Pietro Costa, dalla parole delle ragazze sarebbe invece confermata l’innocenza del suo assistito. «I militari sono stati fessi a dare alle studentessa un passaggio in auto ma non le hanno violentate perché loro erano consenzienti, dunque sono innocenti e non devono chiedere scusa».

Cerca persone, luoghi e cose Giuseppe Genna 3 h · Al bar domenicale, masticando rancore amaro e disperazione per la disoccupazione, scruto la buona borghesia che fu non smette di avanzare verso i confini dell'innominabile, come da genoma, ovvero la forma biologica del talento. Fatico a leggere il quotidiano, altro residuo della buona borghesia che fu, con il suo palinsesto che corrisponde a una descrizione dell'umano, per come il ceto medio intendeva questo apparato dell'esistenza, bipede, semipensante, non senziente del tutto, simmetrico a se stesso ma non all'ordine cosmico delle cose: un personaggio prevalentemente maschile, interessato alla cronaca interna più che a quella estera, ai fenomeni di costume e anche alle notizie basali dell'economia, laddove essa era intesa quale listino titoli dei propri investimenti, e poi al centro un poco di cultura, più libri che arte o musica, e quindi lo spettacolo con i suoi lucori e i drammi viventi del gossip o gli spifferi sulla salute cerebrale della iena contro cui berciare immondamente oppure pregare perché è come una di famiglia, e infine lo sport, ovvero il pallone, ovverosia la cronaca e l'intervista a frasi prefabbricate dell'attaccante, che è un utile idiota dedito alla causa dei circenses, contro cui sputare veleno per via del panem, i compensi alati o stellari degli altri sono sempre una tara morale, da demolire infervorandosi davanti al caffè col ginseng, prima di raccontare alla platea lo stato di salute del proprio rene - questo era l'uomo del quotidiano finenovecento, uno spettro composto di scaletta e saperi. Pare incredibile che si sia vissuti così, transando con la propria morte e assistendo con moderata sovreccitazione a quella altrui. Eppure si visse così, non d'arte, ma di stato dell'arte. E ancora oggi, mentre io fatico a sintetizzare le notizie per l'ansia da disoccupazione feroce, la buona borghesia che fu, e che a oggi conta una media anagrafica di un'ottantina d'anni, sentenzia ad alta voce, più sulla note isterica che gutturando o emettendo il baritonale: quella di Trump è una rivoluzione fiscale, aumenterà il debito pubblico ma intanto si abbassano le tasse, e consistentemente! "Consistentemente". Quanta perizia avverbiale per significare l'orrore privato indifferenziato da quello pubblico! E poi, ovviamente, gli zingari, i negri, qualche ricordo del mondo d'antan, un romanticismo a tinte pastellate, una grazia vomitevole, Berlusconi che comunque è meglio di quegli altri e però Berlusconi ha portato il Paese alla rovina, e poi la parolina sintetica di Sallusti, la pastafrolla da sbocconcellare mentre si tira un giudizio mai assolutorio sull'universo, e i fascismi avanzano verso i confini dell'anagrafe e i confini si slabbrano e il tempo si è slabbrato tutto. E la nuova borghesia che ritiene di essere? Sta allo smartphone, cincischia su Whatsapp, non sa chi sia Giorgio Gori, non si interrela, abolisce nel silenzio di sé e di tutto ciò che gli anziani aboliscono in altra maniera, straparlando di sé e di tutto. Questa regola aurea della socialità italiana mi impone il discrimine tra due civiltà paritetiche, omogenee, seppure diversissime tra loro: gli abolitori vecchi e gli ablatori nuovi. La sigaretta nel gelo, fuori del bar, per stornare l'angoscia, è l'unico istante in cui posso irridere ai molti? Quanto ti manca l'amore? Non abbastanza da fuggire, evadere da qui, evidentemente. Manca l'amore nel cosmo umano, microscopico, qui, ora, sempre, Italia, dove ovunque è come ovunque, nell'eterna riabilitazione da un trauma di cui s'ignora la natura: di cui ignorano la natura, che a me è lampante. E la soluzione, dunque? La soluzione?

sabato 2 dicembre 2017


Giuseppe Genna 1 h · Ho incontrato una webstar. L'andatura saccente almeno quanto lo sguardo, pieno di sé e vuoto dell'altro, l'aspetto inelegante di questa freakness contemporanea, dove il tarro è un elemento dello hipstering, la psicologia brasata, la sicumera di chi è garantito dall'andamento non lento del mondo di cui è imbibito, la fenomenologia d'accatto che domina il presente e, concludendolo, ritiene di aprirlo come una scatoletta di sardine a un futuro pressoché simile alla peggiore delle fantasie fantascientifiche, tra "Minority report" e "Addio Fottuti Musi Verdi" (il classico di The Jackal, una pellicola in digitale, storica e imperdibile, già in catalogo e nel canone e nella dimenticanza di tutto ciò, nonostante sia in sala, ovvero il luogo che hanno distrutto gli spiriti semplicistici dell'era post 2012), e incedeva, la webstar, adusa a complimenti e ad autoriferimenti, strapieni di vocativi ai suoi follower, post del cazzo infittiti di irrealismo tipico di una società del benessere in marcescenza, questo recente con il pelo facciale da negozio di barberia ad Amsterdam, questa spocchia esistenziale psicologica morale, un satanismo della normalità, un satanismo privo di qualunque Satana, che è al centro di un economato fatto di views e di condivisioni della sua prosa laceroconfusa, sputtanante gli altri sempre, la battuta non pronta, mentre mi stringe la mano non ascolta nemmeno il mio nome e continua a incedere sulle piastre marmoree del luogo in cui lo incrocio, il suo pseudonimo è sulle labbra di chiunque abbia a che fare coi lucori di Rete attuale, un luogo geometricamente espanso verso il nullapiù, la sua parlata emiterrona, il suo gomorrismo tattile e visivo, l'olocausto dell'umanismo su due gambe con il culo a baricentro basso, il lombrosianesimo mi aiuti, come sempre e più di prima, spalancate al suo sembiante e alla sua assenza di dialettica le porte di ciò che fu spettacolo e ora è nebbiolina cimiteriale ubiquitaria, fuoco fatuo, lubrificante per crisi apoplettiche del corpo emotivo, la sua attitudine spannometrica a tanta roba con il prefisso super ("superbello", "superimportante", etc.) e con l'avverbio onnipresente "tipo" ("tipo che stavo andando", anziché "stavo andando"), un coagulo emorragico di memi in svanimento istantaneo, una figura olografica di una Pixar sotto cattiva lisergìa: vi dico: l'orrore. Quanta pena deve dare a un umanista l'umano? Quanta speranza ripongo nelle parole, ultime sorelle, a cui dare perenne addio? Quante immagini irradia un corpo umano tozzo e pronto all'esperienza del bardo thodol? Quale storia estraggo da questa grezza fibra d'uomo? E quanti calci nei denti voglio dargli? Moltissimi.

venerdì 1 dicembre 2017


Credo in tutto ciò che non vedo e credo poco in quello che vedo... credo che la terra si abitata, anche adesso, in modo invisibile. Credo negli spiriti dei boschi, delle montagne e deserti... Credo anche nei morti che non sono più morti... Credo nelle apparizioni. Credo nelle piante che sognano... Nelle farfalle che ci osservano improvvisando, quando occorra, magnifici occhi sulle ali. Credo nel saluto degli uccelli, che sono anime felici, e si sentono all’alba sopra le case. Anna Maria Ortese, Corpo celeste

giovedì 30 novembre 2017


Immigrazione, salute e pregiudizi: l’ex ministro Kyenge a Pisa PisaCronaca CRONACA Immigrazione, salute e pregiudizi: l’ex ministro Kyenge a Pisa Doppio appuntamento all'ex convento Cappuccini e a Cascina Pubblicato il 30 novembre 2017 Ultimo aggiornamento: 30 novembre 2017 ore 15:41 Vota questo articolo Pisa, 31 novembre 2017 - L’ex ministro Cecile Kyenge a Pisa. “Immigrazione, salute e pregiudizi” è il titolo del seminario (ad ingresso gratuito) organizzato per sabato 2 dicembre a partire dalle 8.30 presso la Biblioteca Storica dell’ex convento dei Cappuccini da agenzia formativa Aforisma, società cooperativa Pegaso Lavoro e Acli Provinciali di Pisa in collaborazione con Caritas Diocesana, Patronato Acli Pisa, Centro Studi e CSSS iCappuccini. L’evento formativo affronta, in una prospettiva medico-scientifica, il tema dell’immigrazione e dell’impatto sanitario nel Paese, troppo spesso al centro di paure infondate, pregiudizi, polemiche e divisioni nel dibattito sull’accoglienza. Tra i relatori del seminario, moderato dal giornalista Francesco Paletti, dopo i saluti dell’assessore al sociale Sandra Capuzzi interverranno il dott. Francesco Menichetti, Primario UO malattie Infettive, la dott.ssa Manila Bonciani, GrIS Toscana-SIMM Gruppo Immigrazione e Salute –Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, il dott. Riccardo Bosi medico pediatra e membro dell’INMP - Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà , Antonio Russo Responsabile Immigrazione /Legalità di Acli Nazionali ed il dott. Emiliano Carlotti, Presidente IPASVI Collegio di Pisa. Nel pomeriggio a partire dalle 14.45 tavola rotonda con l’ex ministro per l’Integrazione oggi europarlamentare e membro della Commissione Libertà Civili, Giustizia e Affari Interni, Cecile Kyenge, il Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Toscana, Lauro Mengheri e ancora Antonio Russo del dipartimento welfare Acli. Al dibattito verrà presentata anche la relazione della commissione d’inchiesta parlamentare sul sistema di accoglienza dei migranti da parte del presidente della commissione on. Federico Gelli. Per partecipare al seminario è sufficiente scaricare la scheda d’iscrizione da www.aforismatoscana.net e www.pegasolavoro.eu/it/corsi?tipo=ecm. Per maggiori informazioni: ecm@aforismatoscana.net; info@pegasolavoro.eu e 050.2209491. Alle ore 21:15 l’appuntamento culturale si sposta a Cascina con l’europarlamentare ed ex ministro per l’integrazione Cecile Kyenge presso il teatro parrocchiale del circolo Acli “L. Tellini” di San Prospero (via M. Giuntini 135, loc. San Prospero) dal titolo “Racconto migratorio. Prospettive locali, nazionali, europee tra opportunità e criticità”. Dopo i saluti di Paolo Martinelli presidente Acli Provinciali e don Emanuele Morelli direttore Caritas Diocesana, interverranno Francesco Paletti giornalista e redattore del Dossier immigrazione IDOS, Antonio Russo responsabile alle Politiche Sociali e welfare Acli Nazionali. L’iniziativa è promossa dalle Acli Provinciali all’interno del progetto Punto Famiglia Acli in collaborazione con Caritas Diocesana, Aforisma, Nucleo Acli San Prospero e Nucleo Acli “C. Ciucci”, Centro Studi iCappuccini. “L’iniziativa punta ad approfondire il complesso fenomeno migratorio attraverso un racconto realistico e non strumentale, nel tentativo di comprendere le criticità e le opportunità che le migrazioni pongono>> affermano gli organizzatori .