domenica 30 marzo 2014

a te e te ancora  che conosci le zone d'ombra
ma talvolta ami di più le colline assolate
quelle del desiderio e del labirinto
l'aprile insegna le arti femminili  del filare
dopo le lane, le sete gli intrecci secretati del rinnovo
del pianto delle felci ombrose l'incanto
l'attesa di chi si cela al disgelo
la speranza che è fiore iris siepe del padre
che da sette anni non partoriva se non foglie ( o figlie?)

io partorisco le tue parole e  di silenzi i semi
le narro con la pazienza infinita del risveglio
caro mi sei, infinitamente estraneo, aeree pupille 
*

m'impietro al tuo sguardo incantatore
all'occhio che occulta i tuoi malefici istinti
schiudendo i miei a chi non voglio far vedere

così sulla soglia si rinnova il rito
la caccia crudele dall'occhio che dice
guardami guardami sono io il più infelice


*
vuoi essere amato ma soprattutto, vuoi
niente ti scoraggia tutto ti fomenta
e l'incantesimo dell'occhio e delle mani

il maleficio della voce su, dal plesso solare
incavo come il sacerdozio di chi per virtù
deve ascoltare dare, tu necrotizzato inascoltato

sabato 29 marzo 2014

mattinata incredibile: Theo che si difende da gatto con gli Stivali.
io che esco in pigiama per dividerli


una iris che sboccia - per Albert
delle begonie- per mia madre

un sogno dove sento e vedo te, la tua figura e voce, che mi parli con la voce di Guarnieri
entro in casa, la finestra è aperta. ma dentro c'è un architetto

davvero, stai svoltando anche tu,  e con me?

giovedì 27 marzo 2014

Daniele Timpano

Storia cadaverica d'italia

Dux in scatola
Risorgimento pop
Aldo morto

Titivillus a cura di Graziano Graziani ( Roma, 1978)

Daniele Timpano ( Roma, 1974)
ai versi strazianti di " Affioramenti", o a quelli, altrettanto duri, di e della " Incurabile carnagione", con esiti davvero toccanti ("quindi incidi pure")

(...)

Auguri di buon lavoro

con i più cari saluti,
Valerio Magrelli
Roma, 14 -3-2014

Mi ha fatto piacere trovare la tua raccolta dopo tanto tempo! (...)

 Sono molti i testi che mi hanno colpito. Penso, per esempio ai versi strazianti di " Affioramenti", o a quelli, altrettanto duri, di della " Incurabile curagione" ( per lapsus " carnagione").

Ma più in generale è la ferrea adozione delle terzine che mi sembra dischiuda alla tua scrittura una grande via di ricerca (...).

Valerio Magrelli

mercoledì 26 marzo 2014

20YEARS of Spellpound
di Renzia D’Incà

SU RUMOR(S)CENA di Roberto Rinaldi

 Da vent’anni e forse più, seguo  a Pisa il lavoro del Teatro  Verdi, teatro storico  cittadino dove, come del resto  in tutti i teatri  d’opera nazionali il melodramma è stato ( ed è)  il cuore della programmazione artistica.
Tuttavia  questo   storico Teatro,  ha rivendicato a sé tutta una  serie di competenze complesse, che fanno capo alla cultura artistica ed alla formazione in generale,  comuni anche ad altre  realtà nazionali, dove l’attenzione  specifica per la Danza è stata ed è patrimonio peculiare, oggi in grande attenzione della  Fondazione Toscana Spettacolo ( anche in relazione al progetto NID- Showcase open to Italian and International programmers, quest’anno ospitato proprio a Pisa  dal 22 al 25 maggio , in collaborazione con Fabbrica  Europa)  soprattutto grazie  ad alcune direzioni artistiche,  nel tempo  particolarmente sensibilizzate al settore.
La sensibilizzazione è stata capillare anche rispetto al territorio: memorabili  i “ ritrovamenti”( con termine che personalmente aborrro: location) - anche  talvolta , adibiti a mostre- degli spazi straordinariamente magici   i  cittadini della Chiesa di San Zeno dove erano state accolte, a suo tempo,  stagioni di danza di notevole  visibilità nazionale ed internazionale.
 E quindi ecco che si rinnova il sodalizio con la  Compagnia Spellbound  del coreografo Mauro Astolfi  che  proprio a Pisa ha deciso di presentare  in forma di  Galà  dalle sue migliori produzioni  internazionali che sono state in tour nei maggiori palcoscenici del mondo ( e con una prima assoluta),  i  venti anni di attività che  a Pisa ha visto  spesso la sua  presenza ( Spellbound  Contemporary art nasce  nel 1994, ha lavorato in tutto il mondo, è reduce da una tournée negli Stati Uniti) con  presenza stabile in questa città, anche in stage di formazione.
Il programma  del ventennale prevedeva due  tempi ( quante ragazzine in platea, le scuole di danza cittadine) in questo luogo  dove  il grande coreografo ha  di nuovo siglato la sua  straordinaria cifra artistica.
Il programma comprendeva due  momenti:  “Controfase”, che è stato in prima mondiale  a Russelsheim nel 2014, e poi adesso  in prima nazionale a Pisa.
Uno scontro tra due danzatori. Due identità forti.  Due comprimari in scena. Nella lotta nessuno soccombe. Difficile  comprendere il senso della lotta: anzitutto nessuno soccombe. Però neanche vince.  Una guerra  fra pari?  Verso cosa? Finale  aperto
Certamente è  di gran godimento la straordinaria leggerezza- nello  scontro che si capisce furibonda- dei corpi. Forse un suggerimento almeno visivo e di possibile interpretazione della  dinamica gestuale,  potrebbe giungere dalle  pratica e contaminazione  con le discipline  delle  arti marziali. Ma anche,  e qui si passa al simbolico, dallo scontro sulla identità di genere.
Il Potere?
Il lavoro è nato come studio per la formazione giovanile  Spellbound II con debutto in  Germania 2014 e  in Italia- Teatro  Verdi a Pisa.

Il secondo movimentoLost for words”- L’invasione delle parole vuote Studio III,  è l’ultimo atto di una trilogia che ha debuttato a Tuscania nel 2013.
“Lost” è stata l’unica produzione europea  a cui è stato assegnato un premio  per la National  dance project negli Usa per la stagione 2012|13.
Delle due produzioni già proposte,  è quella che mi  ha  particolarmente colpito. Forse perché la più strutturata. I corpi  dei danzatori , maschili e femminili  finalmente, dentro uno spazio apparentemente domestico – assai claustrofobico-dove si anima , ma soprattutto si annida, un conflitto  che è dei corpi ed è senza  la parola. L’azione è in un interno, uno spazio riconoscibile- tavolo sedie letto, ma le persone che lo abitano- lo dis-abitano in perenne lotta fra loro che è identitaria ma niente affatto astratta ( padri madri figli e poi e ancora le famiglie  che ripetono le generazioni  tradizionali  o le  famiglie allargate?) E allora qual è l’oggetto del confliggere:  la parola.  Che non arriva, che non si frange, e non è una questione né generazionale né identitaria o di genere.
Qui si tratta, e si mette in scena  forse , della  parola che se non vuota “ parla” attraverso il corpo|spazio.
E  prova a parlare anche l’altro da sé.
Perché uno dei grandi temi della contemporaneità è che, anche fra persone che dovrebbero intelligere e confrontarsi, non c’è più parola. E allora il non verbale si può trasformare in scontro. Anche fisico. Che colla danza, proprio come medium  artistico ma anche  conoscitivo- relazionale , possiede una modalità. Tutta sua, di autorappresentarsi.
Ritrovare il senso “ puro” della parola, riqualificarla al suo   e comunque equivoco intrinseco ruolo, può essere anche – soprattutto ?l lavoro della danza. Al suo livello più raffinato ed attento alle dinamiche delle arti in  ascolto della multisensorialità  complice dei diversi linguaggi dell’arte.
Segue, come terzo movimento ed a chiusura,  in prima mondiale Dare- Dialogo per due uomini.
Una primizia , in cui è coinvolta l’intera compagnia .  E riparte dai due danzatori di Controfase. Da chi si riparte, dunque? Dall’eterna disputa’ fra  padre figlio, fra chi è il più forte?
Lo sapremo nella prossima ideazione  internazionale coreografica di Mauro Astolfi  con  la sua assistente Adriana De Santis

Mauro Astolfi  Coreografie
Marco Policastro  Disegno luci
Musiche Steven Price

Con Giovanni La Rocca, Mario Laterza
 Sonia Barbiero Alessandra  Chirrulli Maria cossu Gaia Mattioli Giuliana  Mele Marianna Ombrosi Giacomo Tedeschi


 Visto al Teatro   Verdi di Pisa il  13 marzo 2014

sabato 22 marzo 2014


finalmente hai capito chi era? chi è, ancora? e se invece di controtransferare in microdelirio vagante sull'argine, dopo che ti ho lasciato tranquillamente lavorare, cominciassi un pò a fare ammenda, ad addomesticare il tuo élan vitale ricongiungendoti colle tue passioni musicali, culturali, estetiche, per venire a me, danzante in catene? ancora narcisi. en attendant la struttura musicale è la stessa:il jazz. ora tocca agli assoli. vai col tuo ( ma ci stai andando)

è davvero incredibile, per noi addetti ai lavori, che ci siano lettori( o poetastri) che credono che a chi fa letteratura e/o poesia professionalmente, corrispondano le persone reali che scrivono. la letteratura, la poesia, sono finzione estetica( la si studia in tutto il mondo nelle specifiche Università). altrimenti non lo sarebbero (sono rimasti ai pensierini della maestra, al taccuino-diario adolescenziale, all'avevo 8 in italiano ma facevo ragioneria, la mia professoressa non mi capiva ero troppo indietro coi...) ma c'è ancora qualche bischero a caccia di facili avventurette-vendette ( o inclusione nel DSM V) o qualche romantica vecchia zitella, che interpreta, sogna, e fra una sborata su feisbuc e una torta di mele per il nipotino, si eccita al pensiero di essere capito|a dai letterati eppure Pessoa: il poeta è un fingitore eppure qualcuno pensa che feisbuk sia il regno di chi si racconta in diretta e il vecchio Mc Luhan (come l'Umberto Eco)si fanno grasse risate

venerdì 21 marzo 2014


Presentazione del libro di poesie di Renzia D’Incà, Bambina con draghi Pisa, Biblioteca Comunale SMS, 4 febbraio 2014 Renzia D’Incà ha pubblicato cinque raccolte di poesie prima di questa che oggi presentiamo, Bambina con draghi, edita dalle Edizioni dei Leoni, con densa prefazione di Paolo Ruffilli. Rispetto alle precedenti, la nuova raccolta presenta significativi elementi di novità: nei temi e nello stile. Sebbene non vengano abbandonati il rigore, la raffinatezza formale, la cura, la sapienza della scrittura, caratteristiche formali precipue della poesia di Renzia D’Incà, stavolta le parole sembrano immerse in una mistura urticante, corrosiva, che resta loro addosso e le rende violente, appassionate, taglienti come spade. Il fatto è che stavolta le coordinate della raccolta s’inscrivono nel tragico, e il linguaggio viene (abilmente) lavorato perché sappia restituirlo. Parto dunque dalle parole: del titolo e delle sezioni. Il titolo della raccolta, Bambina con draghi, orienta correttamente su scenari infantili; essi però non hanno niente di idilliaco – ciò che del resto, in età post-freudiana, suonerebbe poco probabile e ingenuo. Della psicanalisi, in questa raccolta come nelle precedenti, c’è molto: il linguaggio (costruito anche col robusto apporto di un idioletto medico-psicanalitico), le situazioni di riferimento, il mantenimento di un binarismo colloquiale cioè di un confronto/scontro fra un Io e un Tu, che è mimetico della condizione analitica (ma con varianti significative). L’infanzia, dunque, non che essere età dell’oro, tempo dell’innocenza e della gioia, nella poesia di Renzia D’Incà si popola di creature orrorifiche, metamorfiche, terrorizzanti; la scrittura che le rappresenta sarà una discesa agli Inferi e restituirà gl’incontri con mostri e draghi affondando nel materiale psichico remoto e forse rimosso, che attraverso le parole poetiche riemerge ribollente. La raccolta è costituita da cinque sezioni; gli Affioramenti sono appunto il venire a galla di situazioni, immagini, personaggi appartenenti al passato, rappresentano insomma quel ritorno del rimosso (per riferirsi ancora a Freud) che è punto di partenza di ogni percorso analitico che aspiri a liberare il futuro: “e adesso per andare avanti / è necessario tornare indietro” (p. 25). Un movimento “a gambero” che avviene nella seconda sezione, Mesmerismi: il fluido magnetico (i mesmerismi appunto) che si libera nei fenomeni incontrollati (quelli ipnotici, quelli onirici) può costituire esso stesso una cura, se non la guarigione; e infatti nella prefazione Paolo Ruffilli parla di “percorso di autoconoscenza”. Tuttavia avrei qualche dubbio che questa strada, almeno il tratto che la raccolta documenta, porti davvero alla salvezza; a prospettive ben poco salvifiche allude, se dobbiamo prestargli fede, il titolo dell’ultima sezione, Dell’incurabile curagione, ironico neologismo, quest’ultimo (è in realtà arcaismo, ma così disusato da poterlo considerare nuovo conio), che non fa ben sperare e al contrario sembra esprimere perplessità su una cura (psicanalitica?) che non viene a capo dei problemi e, insieme, la speranza di una diversa via di fuga, una via di fuga come che sia, per liberarsi da ogni soggiogamento. Le sezioni centrali, Ipossie binarie e Parricidi, sono le più veementi, ulcerate, rivendicative; soprattutto in queste sezioni il lessico si rinnova rispetto alle precedenti raccolte, le immagini si sostanziano di riferimenti mitici, i personaggi acquistano proprietà di simboli, mentre l’Io femminile si carica di valori oppositivi che gridano trionfanti la sottrazione al dominio paterno, fino al feroce augurio di morte: “attendo la tua morte, padre / la tua dipartita perché la tua di morte / sarà soglia e porta alla mia sempiterna vita” (p. 38). E’ vero che anche in questa sezione permane una dimensione “ludica” del linguaggio, direbbe Jakobson, legata al mondo infantile, produttrice d’un comico raffinato che ha tanta parte nella scrittura anche precedente di Renzia D’Incà; qui però il comico è più contenuto perché, soprattutto nelle due sezioni centrali, la nota dominante è tragica. Vi si rappresenta il terribile scontro con il Padre (ovvero Fratello/Padre), con la sua legge, materiale morale sessuale, ed emergono ossessivi i fantasmi dell’incesto. E’ uno scontro all’ultimo sangue, dal quale Io si augura che il Padre esca sconfitto – di più: morto. Una morte di cui è prefigurato l’avvicinarsi in duri versi della sezione precedente, nella degradazione fisica paterna, nel suo rattrappimento e invecchiamento, nella perdita di forza interiore, nella riduzione del Padre Drago alla pura e soccombente bestialità: “fra noi adesso parla il linguaggio corporale / il borborigmo la tosse l’ansimare / tu spirito puro (senza l’anima) sei il più animale” (p. 31). Preciso che questo Drago non s’identifica tanto, o solo, nel padre reale di Io ma assume connotazioni più vaste e include qualunque figura caratterizzata dalle proprietà che all’interno della società patriarcale identificano l’immagine paterna. E qui l’opposizione privata Io/Tu, cioè Figlia/Padre, si allarga a diventare antropologica; è la grande fondativa opposizione fra Natura e Cultura dove il Padre, maschio depositario del potere e della tradizione, viene collocato a sorpresa non sul versante della Cultura, come ci si aspetterebbe, ma su quello della Natura. Perché questo Padre è uno dei draghi, anzi è IL Drago per eccellenza, è (come ho appena letto) “il più animale” e non può aspirare ad altra dimensione che quella della Natura, là dove nascono e crescono i mostri, come sappiamo fin dall’antica caccia che Teseo, forza della Ragione, condusse contro il mostro bestiale chiuso nel Labirinto. E’ l’ennesima metamorfosi, l’ennesimo raddoppiamento che nelle poesie di Renzia D’Incà caratterizzano le figure d’amore, secondo l’orientamento di lettura contenuto nel brano di Platone riportato in esergo, l’insuperata definizione di Eros. “Eros è un gran Demone, o Socrate: infatti tutto ciò che è demonico è intermedio fra Dio e mortale. Ha il potere di interpretare e di portare agli Dei le cose che vengono dagli uomini e agli uomini le cose che vengono dagli Dei: degli uomini le preghiere e i sacrifici, degli Dei, invece, i comandi e le ricompense dei sacrifici. E stando in mezzo fra gli uni e gli altri, opera un completamento, in modo che il tutto sia ben collegato con sé medesimo”. Le figure d’amore sono dunque binarie, possiedono un doppio che le altera, un’ombra maligna che può usurparne il posto. Ciò vale per il Padre/Fratello Amato, la cui terrificante epifania diventa il Drago; e vale per la Madre, assente in queste liriche che tuttavia le sono dedicate. Una Madre con la quale pare saldo il vincolo affettivo ma che non ha ruolo nella tragica lotta qui raccontata; ne esiste invece un doppio, un replicante mostruoso nell’altro personaggio femminile che appare di sguincio nei versi, una parodia di Madre, la mater controfigura, la Gorgone, la megera che sottolinea e rafforza la solitudine drammatica di questa Figlia combattente – questa Figlia che, capace di affrontare, in singolar tenzone e con pari violenza, lo strapotere del Padre/Drago, è, forse, vincente.

mercoledì 19 marzo 2014


GIUSEPPE GENNA: sei grandioso e ti copio Avendo assistito a una devastante puntata di "Presadiretta", formidabile programma di RaiTre, condotto da Riccardo Iacona (http://bit.ly/1nAuzL0); avendo letto un articolo che mi ha lasciato a dire poco indignato, su Repubblica, formidabile quotidiano di Repubblica, condotto da Ezio Mauro (http://bit.ly/1fEEXYa) - avendo fatto ciò, sono andato a cercare una fenomenologia emblematica e paradossale del Veneto. L'ho trovata su un forum (http://bit.ly/1eNXmCe). La cito integralmente (nella foto: un tipico contadino veneto): "Il Veneto è un antiluogo cruciale per comprendere come il cannibalismo, di cui la specie umana si macchiò per sopravvivere durante la Grande Migrazione in epoca glaciale, si sia innestato nella modernità e abbia proliferato. Qualunque padrone nel mondo - in Honduras nelle Russie in Sol Levante in Kamtchatka - è veneto. Il Veneto promulga, con la stantia pronuncia zuccherosa delle sue masse per nulla ibride e in tutto filamentose, una visuale prospettica sul mondo, sull'universo, sull'inflazione universale, sugli universi tutti: è un pianto aggressivo, vòlto all'accumulo sconsiderato di beni a detrimento del prossimo, la vocazione ruminante e lenta a un arricchimento che è sempiterna preda di un impoverimento fatale, il quale si pone agli esordi e al termine di questa infelice ventura veneta sul pianeta. E' come se la Brianza si lamentasse continuativamente, con un pianto flebile e costante, le cui lacrime sono gocce di acido solforico. I veneti giocano con gli accenti per simulare un vittimismo immaginario, ai limiti del processo cosmico che sarebbe ordito contro di loro. Essi rilasciano interviste a qualunque media, indifferenti al fatto che il medium in questione sia la CNN o TeleOderzo, e presentano il conto al cattivo demiurgo che ce l'ha con loro ab ovo: nei loro "distretti", sul "territorio", i capannoni sono dismessi e non c'è più lavoro! Ciò avviene in quanto, il lavoro, lo delocalizzano in Bangladesh o in Romania, dove le tredicenni vengono stipate a 28 dollari il dì, a tessere magliette Benetton 24/7. Quando cala la sera e le telecamere di TeleOderzo si sono spente, i veneti incrociano aggressivamente sulle strade dei loro territori orrendi, ricchi di scatolame in cui l'eccellenza italiana si distende, pensando di essere un'eminenza grigia, mentre è grigia senza essere eminenza. Il loro ragionamento sul mondo è semplice e puntuale: 'Esso è mio'. Da questo ubi consistam, che schianta l'egocogito cartesiano, essi fanno defluire una mucillagine rettorica, sbandierano un'origine rurale alla mano, presentificano il terrore di ritornare a vivere l'epoche contadine, quando come chiunque nel mondo tenevano una mucca dentro la catapecchia priva di pavimentazione, per scaldarsi - e quindi ci fanno ora un dramma che ha il Veneto e solo il Veneto per unico protagonista. Quell'esito di povertà destinale, che sta alle loro spalle e balugina davanti ai loro òmeri, è una condanna alla cui ombra accudiscono il proprio contagio e festeggiano l'agente patogeno che alberga nel corpo della regione. Non gliene frega un cazzo delle ville palladiane. Propongono un'abolizione terrificante dell'istanza culturale. Desiderano praticare l'ubicazione del bene e il voodoo del peggio. Sono una controlouisiana priva di banjo e dotata di istinto barbaro ma sedimentario. Il piagnisteo veneto ritiene di avere costruito il Venezuela e per questo desidera una medaglia al merito ogni settimana. Il Veneto è pontificale, nel senso che una volta costruì dei ponti fuori Caracas, questa prodezza costituendo un archetipo dell'immaginario collettivo che va da Belluno a Schio, da Conegliano a Montebelluna. La terra trema sotto i piedi veneti: sempre. Se la terra trema, il Piave mormora, ma nessuno sta lì ad ascoltarlo. L'esclusivismo veneto realizza il suo polimorfismo a Sidney o Dacca (in bengali: ঢাকা), incuneando un sentimento del mondo al modo stesso in cui un antigene fa il suo lavoro. Abbarbicato su dolci declivi, grondante chiare dolci e intossicate acque, il sentimento veneto del mondo si esprime attraverso un attaccamento alla razza aborigena che perfino in Texas e tra gli Inouk non ha confronti. Un leghismo prospero e abominevole trasuda da quei suoli, da quelle confezioni in alluminio che si sporgono sulle provinciali, da quella pronuncia blesa, sotto quel cielo sulfureo e monotono, disabitato dalle divinità e incapace di miti. Meglio: un mito si è prodotto, è Mammona, una Mammona che ha poppe immense e sempre pronte ad allattare l'infante veneto, a cui sono esplosi i capillari sul naso, a cui le varici si sono evidenziate, a cui il prognatismo locale non fa difetto. Piangendo, il Veneto reclama la pappa e di nascosto la sottrae a un fratello che, secondo lui, non è naturale ma acquisito a forza e contro cui, indiscriminatamente, lancia il suo grido di battaglia, cantilenante e silenziosamente lancinante. Se il Veneto piange, Sparta non ride: il fantasma greco da anni mortifica il sogno patavino, l'enfasi serenissima, la prognosi valsugana. Il comfort veneto prevede l'esistenza del pick-up, del wi-fi libero ma con la password che lo blocca all'eventuale immigrato che si è connesso. La sua specie si autopercepisce in perenne estinzione e grida il suo sdegno contro questa imminenza, la quale mai si fa storia. Il Veneto sta alle origini: pressa dalle tenebre, si alimenta ovunque è buio, vende le stelle per fare più ricca di luganega la polenta che mangerà. Crono è veneto, Sardanapalo no. Il meticciato è l'incubo di questo popolo, che coincide con uno stato d'animo del genere umano: è lo spettro di una Grande Invasione, contro cui si devono costruire muraglie invalicabili e, per costruirle, non importa se si vanno a cavare laterizi dai patrimoni geologici esteri. Il Veneto indigna l'illuminista e sfianca l'avventore. L'autoctono è sempre veneto, dell'entroterra. Dopo il tessile, il veneto si vanta dell'accessorio, della scarpa traspirante, del manufatturiero. Protesta contro il negro, la puzza, il cattivo tempo, la congiuntura. Nemmeno l'elvetico sa seppellirsi nell'oscurità ctonia quanto il veneto, che propugna un esclusivismo apodittico: la vigna è sua e guai a posarci sopra gli occhi, il contado è suo, il campanile è suo, la patria è sua, il globo terracqueo è suo, è sua la galassia, la dimensione, la creazione tutta. Odia il parossitono e pratica volentieri il troncamento, a ogni latitudine. Il Veneto non si è scomposto, quando hanno annunciato la morte di Dio, perché non ha mai creduto che esistesse un dio e perché continuerà a fare finta di crederci. E' capace di gesti estremi, in tempi di allerta generale: a Vicenza mangiava i gatti. E' poi capace di lamentarsi perché i felini non frequentano più il "territorio". La sua cospirazione avviene alla luce del sole, che in Veneto è sempre coperto da spessi strati nuvolosi. La perizia del Doge è un orpello per distrarre il mondo intero e accaparrarsi un'autostrada, un 2% del mercato del cuoiame, un sottosegretario in più. Il Prodotto Interno Lordo del Veneto è lordo e basta. La fantasia dei veneti è giunta fino a noi, non viene dalle stelle:, ma neppure dalle stalle, che i veneti si sono dimenticati ma che si ricordano benissimo, e che temono più di ogni altra disgrazia. Ovunque, sempre, sul pianeta, è stata praticata l'arte di sfamarsi senza lamentarsi e fecondando la terra, ma il veneto ha sempre avocato a sé il primato e evocato da sé il primate, asserendo di essere il primo ad avere fatto tutto e vantando un diritto storico del tutto privo di fondamenti. Fosse stato nella Brianza, il Veneto avrebbe fatto causa a Gadda. Fosse stato nella Grecia, il Veneto avrebbe fatto causa a Serse. E' un Iraq prebellico e vagamente nordico, anche quando si manifesta a Lesotho. Prega la pioggia perché preservi il raccolto, come fanno tutti in ogni punto del mondo; ma il veneto non omette di pretendere che piova soltanto sul Veneto e non sull'intera superficie mondiale, dove spera che si realizzi una siccità intensa, rispetto alla quale mostrare di fregarsene, in quanto la siccità è beduina e del Burgundi, quindi va espulsa dall'ordine universale, deve tornare al suo paese che sta in un universo esterno e quantisticamente inavvicinabile. Lo straniero, nel Veneto, gli danno le botte. Vogliono bruciare i libri, nel Veneto, guadagnare sodo e lavorare molto, vogliono invadere il Garda ignorando che è un lago, lo vogliono annettere, vogliono la secessione da ovunque, anche da se stessi. Bevono sangue e lo sanno, i veneti, ma piace loro moltissimo fingere di ignorare. Sanno che Dio è con loro, ma sanno appunto anche che è morto: quindi ci sono loro, soltanto loro. L'obbrobrio è la norma, la felicità, il compimento. Tra Gesù e i Farisei, chi parlava veneto?" Avendo assistito a una devastante puntata di "Presadiretta", formidabile programma di RaiTre, condotto da Riccardo Iacona (http://bit.ly/1nAuzL0); avendo letto un articolo che mi ha lasciato a dire poco indignato, su Repubblica, formidabile quotidiano di Repubblica, condotto da Ezio Mauro (http://bit.ly/1fEEXYa) - avendo fatto ciò, sono andato a cercare una fenomenologia emblematica e paradossale del Veneto. L'ho trovata su un forum (http://bit.ly/1eNXmCe). La cito integralmente (nella foto: un tipico contadino veneto): "Il Veneto è un antiluogo cruciale per comprendere come il cannibalismo, di cui la specie umana si macchiò per sopravvivere durante la Grande Migrazione in epoca glaciale, si sia innestato nella modernità e abbia proliferato. Qualunque padrone nel mondo - in Honduras nelle Russie in Sol Levante in Kamtchatka - è veneto. Il Veneto promulga, con la stantia pronuncia zuccherosa delle sue masse per nulla ibride e in tutto filamentose, una visuale prospettica sul mondo, sull'universo, sull'inflazione universale, sugli universi tutti: è un pianto aggressivo, vòlto all'accumulo sconsiderato di beni a detrimento del prossimo, la vocazione ruminante e lenta a un arricchimento che è sempiterna preda di un impoverimento fatale, il quale si pone agli esordi e al termine di questa infelice ventura veneta sul pianeta. E' come se la Brianza si lamentasse continuativamente, con un pianto flebile e costante, le cui lacrime sono gocce di acido solforico. I veneti giocano con gli accenti per simulare un vittimismo immaginario, ai limiti del processo cosmico che sarebbe ordito contro di loro. Essi rilasciano interviste a qualunque media, indifferenti al fatto che il medium in questione sia la CNN o TeleOderzo, e presentano il conto al cattivo demiurgo che ce l'ha con loro ab ovo: nei loro "distretti", sul "territorio", i capannoni sono dismessi e non c'è più lavoro! Ciò avviene in quanto, il lavoro, lo delocalizzano in Bangladesh o in Romania, dove le tredicenni vengono stipate a 28 dollari il dì, a tessere magliette Benetton 24/7. Quando cala la sera e le telecamere di TeleOderzo si sono spente, i veneti incrociano aggressivamente sulle strade dei loro territori orrendi, ricchi di scatolame in cui l'eccellenza italiana si distende, pensando di essere un'eminenza grigia, mentre è grigia senza essere eminenza. Il loro ragionamento sul mondo è semplice e puntuale: 'Esso è mio'. Da questo ubi consistam, che schianta l'egocogito cartesiano, essi fanno defluire una mucillagine rettorica, sbandierano un'origine rurale alla mano, presentificano il terrore di ritornare a vivere l'epoche contadine, quando come chiunque nel mondo tenevano una mucca dentro la catapecchia priva di pavimentazione, per scaldarsi - e quindi ci fanno ora un dramma che ha il Veneto e solo il Veneto per unico protagonista. Quell'esito di povertà destinale, che sta alle loro spalle e balugina davanti ai loro òmeri, è una condanna alla cui ombra accudiscono il proprio contagio e festeggiano l'agente patogeno che alberga nel corpo della regione. Non gliene frega un cazzo delle ville palladiane. Propongono un'abolizione terrificante dell'istanza culturale. Desiderano praticare l'ubicazione del bene e il voodoo del peggio. Sono una controlouisiana priva di banjo e dotata di istinto barbaro ma sedimentario. Il piagnisteo veneto ritiene di avere costruito il Venezuela e per questo desidera una medaglia al merito ogni settimana. Il Veneto è pontificale, nel senso che una volta costruì dei ponti fuori Caracas, questa prodezza costituendo un archetipo dell'immaginario collettivo che va da Belluno a Schio, da Conegliano a Montebelluna. La terra trema sotto i piedi veneti: sempre. Se la terra trema, il Piave mormora, ma nessuno sta lì ad ascoltarlo. L'esclusivismo veneto realizza il suo polimorfismo a Sidney o Dacca (in bengali: ঢাকা), incuneando un sentimento del mondo al modo stesso in cui un antigene fa il suo lavoro. Abbarbicato su dolci declivi, grondante chiare dolci e intossicate acque, il sentimento veneto del mondo si esprime attraverso un attaccamento alla razza aborigena che perfino in Texas e tra gli Inouk non ha confronti. Un leghismo prospero e abominevole trasuda da quei suoli, da quelle confezioni in alluminio che si sporgono sulle provinciali, da quella pronuncia blesa, sotto quel cielo sulfureo e monotono, disabitato dalle divinità e incapace di miti. Meglio: un mito si è prodotto, è Mammona, una Mammona che ha poppe immense e sempre pronte ad allattare l'infante veneto, a cui sono esplosi i capillari sul naso, a cui le varici si sono evidenziate, a cui il prognatismo locale non fa difetto. Piangendo, il Veneto reclama la pappa e di nascosto la sottrae a un fratello che, secondo lui, non è naturale ma acquisito a forza e contro cui, indiscriminatamente, lancia il suo grido di battaglia, cantilenante e silenziosamente lancinante. Se il Veneto piange, Sparta non ride: il fantasma greco da anni mortifica il sogno patavino, l'enfasi serenissima, la prognosi valsugana. Il comfort veneto prevede l'esistenza del pick-up, del wi-fi libero ma con la password che lo blocca all'eventuale immigrato che si è connesso. La sua specie si autopercepisce in perenne estinzione e grida il suo sdegno contro questa imminenza, la quale mai si fa storia. Il Veneto sta alle origini: pressa dalle tenebre, si alimenta ovunque è buio, vende le stelle per fare più ricca di luganega la polenta che mangerà. Crono è veneto, Sardanapalo no. Il meticciato è l'incubo di questo popolo, che coincide con uno stato d'animo del genere umano: è lo spettro di una Grande Invasione, contro cui si devono costruire muraglie invalicabili e, per costruirle, non importa se si vanno a cavare laterizi dai patrimoni geologici esteri. Il Veneto indigna l'illuminista e sfianca l'avventore. L'autoctono è sempre veneto, dell'entroterra. Dopo il tessile, il veneto si vanta dell'accessorio, della scarpa traspirante, del manufatturiero. Protesta contro il negro, la puzza, il cattivo tempo, la congiuntura. Nemmeno l'elvetico sa seppellirsi nell'oscurità ctonia quanto il veneto, che propugna un esclusivismo apodittico: la vigna è sua e guai a posarci sopra gli occhi, il contado è suo, il campanile è suo, la patria è sua, il globo terracqueo è suo, è sua la galassia, la dimensione, la creazione tutta. Odia il parossitono e pratica volentieri il troncamento, a ogni latitudine. Il Veneto non si è scomposto, quando hanno annunciato la morte di Dio, perché non ha mai creduto che esistesse un dio e perché continuerà a fare finta di crederci. E' capace di gesti estremi, in tempi di allerta generale: a Vicenza mangiava i gatti. E' poi capace di lamentarsi perché i felini non frequentano più il "territorio". La sua cospirazione avviene alla luce del sole, che in Veneto è sempre coperto da spessi strati nuvolosi. La perizia del Doge è un orpello per distrarre il mondo intero e accaparrarsi un'autostrada, un 2% del mercato del cuoiame, un sottosegretario in più. Il Prodotto Interno Lordo del Veneto è lordo e basta. La fantasia dei veneti è giunta fino a noi, non viene dalle stelle:, ma neppure dalle stalle, che i veneti si sono dimenticati ma che si ricordano benissimo, e che temono più di ogni altra disgrazia. Ovunque, sempre, sul pianeta, è stata praticata l'arte di sfamarsi senza lamentarsi e fecondando la terra, ma il veneto ha sempre avocato a sé il primato e evocato da sé il primate, asserendo di essere il primo ad avere fatto tutto e vantando un diritto storico del tutto privo di fondamenti. Fosse stato nella Brianza, il Veneto avrebbe fatto causa a Gadda. Fosse stato nella Grecia, il Veneto avrebbe fatto causa a Serse. E' un Iraq prebellico e vagamente nordico, anche quando si manifesta a Lesotho. Prega la pioggia perché preservi il raccolto, come fanno tutti in ogni punto del mondo; ma il veneto non omette di pretendere che piova soltanto sul Veneto e non sull'intera superficie mondiale, dove spera che si realizzi una siccità intensa, rispetto alla quale mostrare di fregarsene, in quanto la siccità è beduina e del Burgundi, quindi va espulsa dall'ordine universale, deve tornare al suo paese che sta in un universo esterno e quantisticamente inavvicinabile. Lo straniero, nel Veneto, gli danno le botte. Vogliono bruciare i libri, nel Veneto, guadagnare sodo e lavorare molto, vogliono invadere il Garda ignorando che è un lago, lo vogliono annettere, vogliono la secessione da ovunque, anche da se stessi. Bevono sangue e lo sanno, i veneti, ma piace loro moltissimo fingere di ignorare. Sanno che Dio è con loro, ma sanno appunto anche che è morto: quindi ci sono loro, soltanto loro. L'obbrobrio è la norma, la felicità, il compimento. Tra Gesù e i Farisei, chi parlava veneto?" Mi piace · · Condividi Piace a 8 persone. Gaia de Marinis Ammazza. Stasera mi guardo la puntata di Presadiretta. Mangio leggero 14 ore fa · Mi piace · 2 Daphne Descends " avendo fatto ciò, sono andato a cercare una fenomenologia emblematica e paradossale del Veneto. L'ho trovata su un forum (http://bit.ly/1eNXmCe). La cito integralmente "... Strano forum... Il modo di scrivere dell'autore in questione, ricorda molto il tuo, Giuseppe Genna... Figura tra l'altro, nella sua scheda utente, che partecipi al forum proprio da oggi. X) 13 ore fa · Mi piace · 1 Daniela Franzyn questo fa il paio con il tuo sugli svizzeri;-) 12 ore fa · Mi piace · 1 Topazio Perlini E io che credevo Veneto fosse participio passato di venere e mi annacquavo in un abbraccio che era solido ed umido. Invece no. Ripasso grammatica, aro le paludi. circa un'ora fa · Mi piace · 1 Giuseppe Genna Arare le paludi E' il Veneto, Topazio!!!!! Solo tu mi capisci. circa un minuto fa · Mi piace Renzia D'incà

anche tu, mio emmebi, controllato a vista da quella signora, uscisti dal teatro per troppo caldo del settembre pisano. e ti giustificasti con lei. io non mi voltai. eppure tu soffermasti a lungo i tuoi occhi color pece sul mio abito bianco. da dickinson. io le chiesi l'ora. lei mi guardò. aveva labbra rosso ciliegia. troppo grandi troppo rosse. un volto solcato da cicatrici. un volto malato? capelli corvini che sembravano parrucca. una testa malata?poi iniziò il concerto jazz. e fu lì che capii che non avrei potuto lasciarti. never more. never more

in questo scampolo di mattinata grigia dove il giardino si ricopre di fiori primaverili rinnovando l'incanto della bella stagione che si preannuncia, la notizia di te. lancinante, come un fulmine. era il 30 aprile ed eravamo seduti uno accanto all'altra nella tua tenuta. tu guardavi lontano verso l'orizzonte, verso il mare. la collina riverberava l'argento degli olivi ( quelli che i tuoi figli adesso producono olio della fioraia. ricordo lo splendore delle iris, viola. e tu che mi dicesti parole impronunciabili. l'incantesimo di tramonto che avrebbe cambiato le nostre vite. e adesso. ancora. un'altra svolta

mercoledì 12 marzo 2014


anche io ho il mio amichetto immaginario. si chiama emmebi. sta nella zona winnicottiana. un suo collega- puffo pure lui- ha detto pubblicamente che ci abbiamo un altro amico (noi 3) si chiama Richard Courtney

venerdì 7 marzo 2014


(...) mi conforta che sto scrivendo ad una poetessa, cioè a qualcuno che sa, perchè la pratica per vocazione, quanto sia vitale la difesa dello spazio di significazione dove vige il rifiuto dell'univoco, della parola che squadri da ogni lato, e di tutte le riduzioni a norma e gli assoggettamenti ideologici che essa implica (...). prof Giancarlo Fasano

gatto nero chiorbone, detto Attilo, si aggira in giardino agente Ros l'ha nutrito ben bene - e non solo degli avanzi di Rosik -e siamo sempre alla difesa del Clan-destino

giovedì 6 marzo 2014


è la rigidità della struttura che non funziona|lo specchio la perfetta simmetria si può superarla, in accordo, pas à deux, solo infrangendola Carmen Martinez, musicista amica e mia interprete