domenica 30 novembre 2014


Intervista a Roberto Castello direttore artistico di SPAM Festival AFFARI NOSTRI Lucca Posted by Renzia D’Incà Rumors: “Ci parla della nuova stagione di SPAM fra Lucca e Porcari dove lei firma in co-direzione artistica con Graziano Graziani il festival Affari nostri?”. Castello: “In realtà la co-direzione con Graziano Graziani era già nata nella primavera scorsa (la stagione di Teatro popolare d’arte-Siamo nei tempi). Adesso in AFFARI NOSTRI abbiamo deciso di inserire un percorso sulle letterature del contemporaneo che prevede incontri con autori e reading di opere letterarie: Francesco Pacifico, Nicola Lagioia e Claudio Morici, questi i tre giovani autori introdotti da Rodolfo Sacchettini (Pacifico e Lagioia) e dallo stesso Graziano Graziani (Morici) conduttore per Fahrenheit su RADIO 3. Gli incontri sono ospitati nello spazio della Chiesa di Santa Caterina, in collaborazione con il Comune di Lucca e le librerie Baroni e Lucca Libri. Nelle nostre intenzioni, quelli che sono stati definiti “incontri letterari”, segnano un cambiamento solo apparente rispetto alla cifra legata alla residenza artistica di Danza nel territorio lucchese come associazione ALDES ( che ha sede a Porcari) ed è messa in secondo piano rispetto alla nostra idea di creare attenzione di produzione artistica per il festival Affari nostri che è attualmente in pieno corso a Lucca per concludere il 21 dicembre. Una residenza artistica nei territori della lucchesia, potrebbe non essere indispensabile nel solo settore della “Danza contemporanea” ma lo è, per noi di ALDES, che teniamo molto alla questione di come reagire ai decenni Ottanta /Novanta dove in un Paese conservatore come il nostro, sono stati scialacquati denari pubblici sia, per esempio, per la lirica che per la prosa classica, in un’ottica miope di sfruttamento della cultura passata. Noi di ALDES ci siamo chiesti: cosa vogliamo lasciare alle generazioni future? non certo cristallizzare il passato per far da traino al turismo che comunque è il settore in cui l’Italia può avere un’ importante espansione per sviluppo economico? e dunque, cosa possiamo proporre di alternativo dal punto di vista artistico-culturale allo status quo politico-istituzionale locale e nazionale? così ci siamo detti: noi vorremmo uno sguardo prioritario che guardi avanti perché i tempi sono cambiati. Gli “Affari nostri” includono nuovi schemi di collaborazioni legati anche alle logiche territoriali. Abbiamo bisogno di una programmazione sistemica non più e solo dal centro verso le periferie. Anche la scelta di questi tre giovani autori non è casuale: nei loro romanzi si parla di storie della nuova borghesia italiana, insomma dei “fatti nostri”, sono ritratti di un’Italia che ci riguarda, naturalmente sotto una luce critica che passa dal vaglio letterario. Rumors: “ Il Festival ha natura multimediale, secondo la specificità di ALDES, prevede svariate articolazioni, oltre alle presentazioni di libri infatti, sviluppa proposte di danza contemporanea (Marina Giovannini, Irene Russolillo); rassegne di video|teatro molto importanti come quella storica ed unica nel panorama nazionale firmata da Studio Azzurro specializzata nella documentazione video di spettacoli di teatro oltre alla sezione: Prove Schizzi Abbozzi e Tentativi. Come mai questo titolo Affari nostri? nostri, di chi? Castello: “Abbiamo usato l’accezione della parola Affari anche nel senso della logica di programmazione territoriale cioè ospitare autori toscani, penso ad esempio al compositore lucchese Gianmarco Caselli, non abbastanza valorizzato come è accaduto a molti musicisti della sua generazione. Oggi l’idea che più gente affluisce a teatro, cioè più pubblico c’è e più il progetto artistico funziona, secondo noi, non è più plausibile e non certo per fare discorsi da elitari o di destra. Per quanto riguarda la progettualità di Prove Schizzi ecc si tratta di lavori in corso ad ALDES, cioè di sei progetti attivati da qualche tempo con spettatori che fanno parte di un gruppo chiuso di osservatori. Quanto al progetto Studio Azzurro: risale a una quindicina di anni or sono. L’anno scorso è mancato Paolo Rosa e ci è sembrato necessario ricordarlo. La presenza in Affari nostri della rassegna di Studio Azzurro- Scena e doppia scena (Casa del boia- Lucca) vuole essere uno spazio in cui si storicizza il fare teatrale in forma di video: è una antologica per e sul teatro che per ben dodici ore per più giorni proietta materiali video o realizzati dallo stesso Studio o da loro documentato. La proiezione va avanti dalle 11 del mattino fino alla sera, cambiando ogni giorno, l’ingresso è gratuito. La rassegna si conclude con un intervento di Sandra Lischi, nota studiosa di video arte, docente al DAMS dell’Università di Pisa e con Valentina Valentini. Mi chiedo in quanto direttore artistico ALDES: perché invece di una agenzia di professionisti come Studio Azzurro non è stata la RAI a documentare in video molte straordinarie esperienze teatrali fin dagli anni Ottanta? forse perché è stata in competizione con le programmazioni Mediaset? RUMORS: “Nel festival in corso Affari nostri è in pieno work in progress una progettualità teatrale in collaborazione fra lei e Andrea Cosentino”. Castello: “Sì, presenteremo nella sezione Prove un nostro progetto legato al tema del denaro. Un tema scottante che riguarda tutti in questi tempi di crisi economica quindi anche noi artisti. Come ALDES non siamo residenza inquadrata dentro la legge regionale- ma sostenuti, ed abbiamo un’ottima collaborazione con gli enti locali su cui non graviamo, non solo: forniamo servizi culturali sul territorio per i cittadini.

giovedì 6 novembre 2014


LEZIONI DI STILE Francesco Orlando Francesco Orlando apparteneva a quel tipo di studioso per il quale l'insegnamento era tutt'uno con la ricerca. Interpretava magistralmente il senso e la qualità dell'insegnare regalando a studenti, discenti, colleghi lezioni in cui metteva in gioco con arte le inquietudini e le domande dello studioso. I suoi corsi non erano frequentati soltanto da studenti di Lettere e di Lingue, ma abitualmente anche da quelli di altre discipline, a cominciare dalle discipline filosofiche e storiche. Egli infatti andava oltre i limiti istituzionali e disciplinari delle materie di cui si occupava, letteratura francese o teoria della letteratura, perché le sue interpretazioni coglievano dall'interno di tali materie aspetti inconsueti che evocavano altri saperi, dalla filosofia alla psicanalisi. Riproponendo nel 1997 alle stampe il libro del 1982, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Francesco Orlando scrisse che si trattava del suo lavoro meno fortunato del ciclo freudiano e si chiese se la scarsa attenzione che originariamente gli aveva prestato la critica non fosse dipesa dal fatto che quel libro aveva un taglio interdisciplinare oppure che l'argomento affrontato fosse inattuale. In effetti, l'argomento era inattuale. Si trattava dell'illuminismo. Orlando ha tentato di consegnare, attraverso Freud, un illuminismo diverso. Se dovessi indicare con una parola cosa caratterizzi teoricamente e storicamente l'illuminismo di Orlando, un illuminismo che va dalla Riforma alle soglie di Rousseau, la risposta è facile: l'ironia. Se il barocco è segnato dalla metafora, l'illuminismo è caratterizzato dall'ironia. Un'ironia che determina il dislocarsi del punto di vista del narratore o dei protagonisti in una posizione tale che lo scenario da loro descritto assume tutti i toni graffianti, perché stupiti o ingenui, di una critica. Siamo dentro una situazione che giustappunto caratterizza il nesso tra illuminismo e ironia. La confutazione da parte di un altro, di un selvaggio, depotenzia il pericolo del peccato d'orgoglio che una critica simile può portare con sé. Similmente Usbek e Rica, i protagonisti delle Lettere Persiane di Montesquieu, oggetto di un intero capitolo di questo libro, viaggiatori orientali che si trovano a visitare e ad osservare Parigi, i suoi costumi e le sue istituzioni, hanno questo ruolo di osservatori estranianti ed estraniati. Vedono con altri occhi la vita della città europea e, dal loro particolare punto di vista, operano una critica che è filtrata dallo stupore tipico dello straniero che non sa nulla di ciò che osserva. Orlando fa una proposta che va al di là del piano della letteratura, perché il compromesso freudiano costituito dall'ironia illuminista ci porta verso quel lato dell'illuminismo che contiene in sé l'antidoto agli stessi pregiudizi che ha creato. Il gioco dello spostamento, da questo punto di vista, è senz'altro decisivo: come ci guardano gli altri? Anche quando una simile domanda funziona da simulazione o da artificio, resta ugualmente un'ottima domanda. Qui, come si vede, l'interpretazione letteraria va oltre la letteratura e la critica si veste di teoria. Cover volume Per Francesco OrlandoFrancesco Orlando insegnò sia alla Facoltà di Lingue sia alla Facoltà di Lettere. Si batté anche per la loro unificazione, ma la cosa non ebbe successo. Come preside della Facoltà di Lettere e Filosofia posso dire che Francesco Orlando ha dato lustro alla mia Facoltà non soltanto per sue ben note qualità di studioso, ma perché è fra coloro che ha contribuito a segnare uno stile che si caratterizza per il senso dell'insegnamento, un senso che era scientifico, didattico ed etico insieme. Non era uomo che usava l'università per fare altro, ma considerava l'insegnamento universitario come la forma primaria della comunicazione di uno studioso. Aveva, e la comunicava, una grande passione civile, indissociabile dalla critica. Intervenendo a un dibattito che aveva per argomento la malinconica domanda «A che serve la letteratura?», Francesco Orlando aveva sollevato un sospetto: «le mode dell'autoreferenzialità e dell'intertestualità – egli scriveva – ci ripetono da quarant'anni che la letteratura parla di se stessa e non del mondo, rimanda sempre ad altra letteratura a mai al mondo; non saranno per caso corresponsabili, secondo una sorta di legge del taglione, se ormai il mondo teme di annoiarsi a sentir parlare di classici e non vuol più lasciarsi rimandare ad essi? Farla finita con queste anziane mode, tornare a interrogarsi in modo originale sulla parte di mimesi e la parte di convenzione che fondano ogni arte, sarebbe corresponsabilità istituzionale di noi studiosi e insegnanti di letteratura». Ma a che serve la letteratura? Ho avuto l'onore e il piacere di accompagnare Francesco all'ultima lezione che tenne in Facoltà prima di andare in pensione. Bastava respirare l'aria che respiravano i suoi studenti per capire che una domanda del genere può sorgere solo fuori dalle sue lezioni, solo quando la passione intellettuale e la passione civile cominciano, come forse sta accedendo oggi, a essere impercettibilmente sostituite da quelli che dovrebbero essere soltanto dei mezzi e dei supporti, dalle pratiche burocratiche, dagli orari, dai crediti e dai debiti, dalla cosiddetta full immersion, dalla sciocca rigidità dei percorsi di studio. Alla domanda: «a che serve la letteratura?» Francesco aveva risposto dicendo che essa «suona press'a poco come le seguenti: a che cosa serve l'aria che respiriamo? La terra che ci sostiene? Il corpo in cui consistiamo?». E aveva concluso con un messaggio semplice e bellissimo, un messaggio che mi piacerebbe scrivere sui muri di Palazzo Ricci: «L'aria, la terra, il corpo, la letteratura. Queste cose non servono... – scrive Francesco Orlando – piuttosto sono condizioni del nostro essere fisicamente quello che ognuno di noi è, un essere umano». Alfonso Maurizio Iacono 8 gennaio 2013

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Intervista di Elisabetta Menetti Marc Augé «Contemporaneità impossibile» e «iniziazione negativa» Nicola Bonazzi Parodia e scatologia: quando la letteratura prende in giro se stessa Alessandro Di Muro Paul Auster e i rifiuti. Un percorso attraverso la metropoli postmoderna Andrea Severi La spazzatura gradita a Italo Calvino. Un breve percorso tra i rifiuti de La poubelle agréée Home / Temi / Rifiuti scarti esuberi / Articolo Andrea Severi La spazzatura gradita a Italo Calvino. Un breve percorso tra i rifiuti de La poubelle agréée Delle faccende domestiche, l'unica che io disimpegni con qualche competenza e soddisfazione è quella di mettere fuori l'immondizia. L'operazione si divide in varie fasi: prelievo della pattumiera di cucina e suo svuotamento nel recipiente più grande che sta nel garage, poi trasporto del detto recipiente sul marciapiede fuori della porta di casa, dove verrà raccolto dagli spazzini e vuotato a sua volta nel loro autocarro [1]. Chi parla è l'Italo Calvino "eremita" a Parigi, borghese pater familias dimesso e fuori ruolo (in un'epoca ormai di fine del patriarcato, siamo nella metà degli anni Settanta) in una palazzina unifamiliare o pavillon a ridosso della cité. Scritto tra il 1974 e il 1976 e pubblicato per la prima volta su "Paragone/Letteratura" nel febbraio del 1977, La poubelle agréée – questo saggio scritto da un «antropologo dei gesti quotidiani carichi di un valore assoluto», in «quegli anni parigini, che erano anche gli anni di Lévi-Strauss, e di Barthes e di Foucault» [2] – confluì poi in «quella straordinaria narrazione autobiografico-saggistica» (Milanini) rappresentata dai "Passaggi obbligati". Afflitto – secondo il più classico dei cliché che grava sugli intellettuali – da una paralizzante inettitudine nella vita che si svolge in cucina e che si basa «su un ritmo musicale, su una concatenazione di movimenti come passi di danza» dove a farla da padrone sono le mani femminili della moglie e della figlia (spartito dove la pur buona volontà dello scrittore non può che tradursi in movimenti «stonati e torpidi», con conseguente inevitabile umiliazione), Calvino trova finalmente il suo momento, se non proprio di gloria, di felice inserimento all'interno del ciclo domestico, dopo l'ultimo pasto della giornata, quando «sparecchiata la tavola, l'ultimo osso o buccia o crosta è scivolato giù dalla liscia superficie dei piatti» e la tempesta comincia ad abbattersi sui piatti sporchi in provvisorio esilio in fondo al tunnel della lavastoviglie. «Questo è il momento per me d'entrare in azione». È una sorta di riscatto quotidiano, di rivincita quella che sta dietro lo smaltimento delle «scorie» domestiche, umile operazione priva, a tutta prima, della benché minima dignità. Eppure la meticolosità con cui Calvino compie ogni operazione, la giustificazione di ogni gesto che il lettore ha modo di apprezzare in tutta la sua calcolata premeditazione, fanno già presagire che qualcosa di molto importante stia sotto a questo 'rito' quotidiano: Ecco che già scendo le scale reggendo il secchio per il manico a semicerchio, attento a che non dondoli tanto da ribaltare il carico. Il coperchio di solito lo lascio in cucina: scomodo accessorio, quel coperchio, che male si destreggia tra il compito di nascondere e quello di levarsi di mezzo appena c'è da buttare dentro della roba [3]. È la «rappresentazione quasi fotografica, spassionata, meticolosa di cose concrete e familiari (i piatti, il lavastoviglie, il secchio di plastica, il bidone di zinco, il cartoncino e l'autocarro degli spazzini, le pagine accartocciate o coperte di cancellature)» [4]. Nel travaso dei rifiuti dalla pattumiera di cucina color verde pisello alla più grande poubelle del garage di color «grigio-verde scuro da uniforme militare», e nel trasporto di questa fuori dalle mura casalinghe – a favorire l'intervento dei netturbini – Calvino si sente «primo ingranaggio d'una catena d'operazioni decisive per la convivenza collettiva», riconoscendo la sua «dipendenza dalle istituzioni senza le quali morrei sepolto dai miei stessi rifiuti nel mio guscio d'individuo singolo, introverso e (in più d'un senso) autista». «La poubelle è lo strumento per inserirmi in un'armonia, per rendermi armonico al mondo e rendere il mondo armonico a me». La poubelle agréée, dunque, ci spiega Calvino, non è solo un termine tecnico per indicare la pattumiera conforme ai regolamenti prefettizi, quella prescritta dalle leggi municipali affinché, di un certo uniforme colore (verde scuro), col coperchio ben chiuso e di plastica, non risulti di danno a nessuno dei sensi, vista, olfatto e udito. Questa poubelle finisce per essere gradita, cara, anche perché, a dispetto del suo contenuto, o forse proprio a causa di esso, permette di assolvere un compito di grande valore sociale. C'è un pactum ben stabilito e vitale per la collettività dietro l'aggettivo agréée: non è quindi solo un fatto di autostima o di considerazione all'interno del nucleo familiare, la possibilità di inserirsi o meno lodevolmente in un concerto di azioni domestiche e di far recuperare scampoli di credibilità alla periclitante immagine del pater familias («È per essere io privatamente agréé che sto manovrando la pubblicamente agréée pattumiera, agréé io nel contesto casalingo, nella tacita distribuzione dei ruoli domestici, nell'orchestrazione della suite quotidiana della sussistenza familiare»); è invece l'aspetto sociale che finisce per prevalere su quello prettamente individuale-familiare, quando, per interpretare l'espressione "poubelle agréée", il francese lascia spazio all'inglese: È il verbo inglese to agree che invade il campo: è per rispettare un agreement, un patto concordato per mutuo consenso delle parti, che io sto posando questo oggetto su questo marciapiede, con tutto ciò che implica l'uso internazionale della parola inglese [5]. Un agreement con la città, sotto il quale sta la necessità non solo di liberarsi fisicamente di una mera quantità di scarti che impedirebbe alla vita di proseguire, ma anche di rapportarsi con quel processo di smaltimento dei rifiuti che risulta in qualche modo consustanziale alla vita stessa, in una sorta di tensione eraclitea tra vita e morte, nuovo e vecchio, tra ciò che si scarta e ciò che rimane. Raggiunta questa consapevolezza filosofica (d'altronde a colpire in questo scritto, «nel breve giro d'una confessione signorilmente autoironica […] è la quantità di considerazioni personali, sociologiche, filosofiche che vi sono condensate» [6]) ecco che da contratto il ciclo di enlèvement des ordures assurge persino al grado di rito, di rito purificatorio: Il portare fuori la poubelle va dunque interpretato contemporaneamente (perché così lo vivo) sotto l'aspetto di contratto e sotto quello di rito […] rito di purificazione, abbandono delle scorie di me stesso, non importa se si tratta proprio di quelle scorie contenute nella poubelle o se quelle scorie rimandano a ogni altra possibile mia scoria, l'importante è che in questo mio gesto quotidiano io confermi la necessità di separarmi da una parte di ciò che era mio, la spoglia o crisalide o limone spremuto del vivere, perché ne resti la sostanza, perché domani io possa identificarmi per completo (senza residui) in ciò che sono e ho. Soltanto buttando via posso assicurarmi che qualcosa di me non è stato ancora buttato e forse non è né sarà da buttare [7]. C'è bisogno, è vero, di una separazione netta tra ciò che è da gettare, da allontanare, e ciò che invece va conservato e tenuto nel circolo vitale. Ma solo prendendo coscienza di ciò che stiamo espellendo per sempre dai nostri confini riusciamo, valorizzando l'atto deiettivo, a caricare ciò che resta di un surplus di senso e di sostanza («La poubelle agréée: gradita in primo luogo a me, ancorché non gradevole; come è necessario gradire il non gradevole senza il quale nulla di quel che ci è gradito avrebbe senso»). Il discorso di Calvino, partito da semplice resoconto diaristico della vita domestica, conosce a tratti impennate gnomiche che sconfinano nel campo ontologico («Il buttar via è la prima condizione indispensabile per essere, perché si è ciò che non si butta via»), fatte salve, a brevissima distanza – come capita spesso alla scrittura di Calvino – escursioni nel campo del comico-basso corporeo. Ma qui l'inserzione scatologica, oltre ad una funzione umoristica, serve per collegare macrocosmo e microcosmo, la funzione di deiezione dei rifiuti domestici, nel grande ventre della città, e quella della propria defecazione, che, lasciando liberi gli intestini, consente una reale ispezione del proprio autentico essere: La soddisfazione che provo [buttando via i rifiuti casalinghi] è dunque analoga a quella della defecazione, del sentire le proprie viscere sgombrarsi, la sensazione almeno per un momento che il mio corpo non contiene altro che me, e non vi è confusione possibile tra ciò che sono e ciò che è estraneità irriducibile. Maledizione dello stitico (e dell'avaro) che temendo di perdere qualcosa di sé non riesce a separarsi da nulla, accumula deiezioni e finisce per identificare se stesso con la propria deiezione e perdervisi [8]. Bisogna liberarsi di una parte di noi per poter dare spazio sempre a nuove forme, alla nuova vita – dice Calvino – come, sull'esempio del racconto Funes o della memoria di Borges, possiamo ricavare che è lo scarto della memoria, l'oblio, a innestare il pensiero. Calvino utilizza la metafora del rito purificatorio: «l'enlèvement des ordures ménagères può essere anche visto come un'offerta agli inferi, agli dei della scomparsa e della perdita, l'adempimento di un voto (ecco ancora il contratto). Il contenuto della poubelle rappresenta la parte del nostro essere e avere che deve quotidianamente sprofondare nel buio perché un'altra parte del nostro essere e avere resti a godere la luce del sole, sia e sia avuta veramente». E questo rito di purificazione quotidiana diventa anche modo di esorcizzare la morte, di allontanare il più possibile quel momento in cui ci identificheremo a pieno con quelle scorie prima solo da noi prodotte: Questa quotidiana rappresentazione della discesa sottoterra, questo funerale domestico e municipale della spazzatura, è inteso in primo luogo ad allontanare il funerale della persona, a rimandarlo sia pur di poco, a confermarmi che ancora per un giorno sono stato produttore di scorie e non scoria io stesso [9]. Per questo gli ufficiali di questo quotidiano "rito di purificazione", i netturbini, coloro che impediscono che la nostra città si trasformi in un «infetto latamaio», sono definiti da Calvino «emissari del mondo ctonio», «caronti d'un al di là di carta unta e latta arruginita», ma pure «angeli […] annunciatori d'una salvezza possibile al di là dello sfacelo d'ogni produzione e consumo, affrancatori dal peso dei detriti del tempo, neri e grevi angeli della limpidezza e leggerezza». E non importa qui sottolineare l'importanza che questo valore, la "leggerezza" appunto, ricopre nella poetica dell'autore delle Lezioni americane. Qui interessa soprattutto rilevare come Calvino, pochi anni prima, avesse già parlato nei medesimi termini dei "netturbini" nella sua città invisibile dove l'assillo dello smaltimento dei rifiuti è posto come il tratto peculiare dei cittadini. Stiamo parlando della città di Leonia (anche se il tema del rifiuto e dello scarto è centrale anche per la città di Moriana e di Clarice), dove «gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell'esistenza di ieri è circondato d'un rispetto silenzioso, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta buttata via la roba nessuno vuole più averci da pensare» (nostro il corsivo). Nel saggio La poubelle agréée la figura dell'angelo della spazzatura serve a Calvino per far virare il discorso dal suo iniziale approccio antropologico verso considerazioni di tipo economico-sociale e, più in generale, politico. Da un punto di vista meramente classista, il borghese Italo Calvino produttore di rifiuti e gli éboueurs che «affiorano dalle nebbie del mattino» per smaltirli («i Nordafricani – un po' di baffi, uno zuccotto in capo; o – quelli dell'Africa nera – solo il bulbo degli occhi che rischiara il viso perso nel buio») appartengono a due mondi nettamente distinti: Il mio rapporto con la poubelle è quello di colui per il quale il buttar via completa o conferma l'appropriazione, il contemplare la mole delle bucce, dei gusci, degli imballaggi, dei contenitori di plastica riporta la soddisfazione del consumo dei contenuti, mentre invece l'uomo che scarica la poubelle nel cratere rotante del carro ne trae la nozione della quantità di beni da cui è escluso, che gli arrivano solo come spoglia inutilizzabile [10]. In questa realtà – che nella sua "veste" italiana alcuni nostri intellettuali, come Pier Paolo Pasolini dalle colonne del "Corriere della Sera", avevano sotto la loro lente d'ingrandimento proprio in quegli anni – un'analisi classista della società sembra risultare agli occhi di Calvino ormai sterile, dal momento che, non sembrando più essere nessun tipo di uomo al centro e padrone del sistema di produzione, produttore e consumatore si ritrovano entrambi ai margini del grande apparato capitalistico. Se, come scrive ancora Calvino, il processo industriale di produzione e distruzione» si rivela per quello che è, ovvero un «sistema che inghiotte gli uomini e li rifà a propria immagine e somiglianza», non importa più tanto chi ora riempia i cassonetti e chi ora li svuoti, perché visto che la «piramide sociale continua a rimescolare le sue stratificazioni etniche», si può star certi che «l'essere stato assunto come spazzino è il primo gradino d'una ascesa sociale che farà anche del paria di oggi un appartenente alla massa consumatrice e a sua volta produttrice di rifiuti, mentre altri usciti dai deserti "in via di sviluppo" prenderanno il suo posto a caricare e scaricare i secchi». In questa nuova dimensione in-umana perde tutta la sua "aura", assieme alla sua dimensione sociale ed ontologica, il ciclo di smaltimento dei rifiuti. Non è più possibile il compimento del ciclo vitale che invece era proprio del processo agricolo, dove «ciò che era sepolto nella terra rinasceva»: nell'età del consumismo dove spadroneggiano i contenitori in plastica, i rifiuti crescono in maniera direttamente proporzionale al ciclo di produzione dei prodotti, secondo equilibri e dosaggi stabiliti dal "Dio Capitale", non più garantiti dalla "madre" Terra: «Inutilmente rovesciamo, io e lo spazzino, la nostra oscura cornucopia, il riciclaggio dei residuati può essere solo una pratica accessoria, che non modifica la sostanza del processo. Il piacere di far rinascere le cose periture (le merci) resta privilegio del dio Capitale che monetizza l'anima delle cose e nel migliore dei casi ce ne lascia in uso e consumo la spoglia mortale». Ragione per cui la poubelle, a conti fatti, finisce per essere "gradita" non più al municipio, non più al produttore di rifiuti che sente l'utilità sociale e quasi "esistenziale" dell'operazione che sta svolgendo, ma «più ancora all'anonimo processo economico che moltiplica i prodotti nuovi usciti freschi di fabbrica e i residui logori da buttar via, e che ci lascia metter mano solo a questo recipiente da riempire e svuotare, io e lo spazzino». Ennesima, dolorosa presa di coscienza dell'alienazione dell'uomo moderno, o capitolo dell'alienazione narrato sub specie immunditiae. In un sorta di comico ribaltamento, sembra quasi che siano diventati i rifiuti (o meglio, le merci-rifiuti, tanto per sintetizzare il ciclo) i fruitori della poubelle, e gli esseri umani – nella doppia versione di riempitori e svuotatori – i semplici esecutori materiali, automi diligenti di un processo eterodiretto. Ad una sorta di trionfo dei rifiuti, di mondo capovolto, del resto (anche se in una maniera da fiaba eroicomica, quali sono le Cosmicomiche), si assiste anche nei due racconti inclusi ne La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche che hanno a che fare col tema della spazzatura. Nel racconto Le figlie della luna, il Giorno del Ringraziamento del Consumatore, lungo le strade di Manhattan, sfilano da una parte il corteo del Cliente Soddisfatto, organizzato da un grande magazzino per dar modo alla sua clientela di «manifestare la propria gratitudine verso la Produzione che non si stancava di soddisfare ogni suo desiderio»; dall'altra, invece, una Luna scrostata ed ammuffita guida un corteo di macchine massacrate, di scheletri di camion, che si arricchisce pian piano di persone, soprattutto negri e portoricani di Harlem. Quando si incontrano è la sfilata degli scarti, dei rifiuti, dei relitti (e derelitti) a inglobare quella del Nuovo e del Consumo, come in algebra il segno negativo sopraffà quello positivo: A Madison Square una sfilata incrociò l'altra: ossia ci fu un solo corteo. «Il Cliente Soddisfatto», forse per una collissione con la puntuta superficie della Luna, scomparve, si trasformò in un cencio di cauciù […] Non si capiva più quali fossero le vecchie [macchine] e quali le nuove: le ruote storte, i parafanghi arrugginiti erano mescolati con le cromature lucide come specchi, con le verniciature di smalto. E dietro al corteo le vetrine si ricoprivano di ragnatele e di muffa, gli ascensori dei grattacieli si mettevano a cigolare e a gemere, i cartelloni pubblicitari ingiallivano […]. La città aveva consumato se stessa di colpo: era una città da buttar via che seguiva la Luna nel suo ultimo viaggio [11]. Nel racconto I meteoriti invece, ambientato su una Terra «ancora piccola» che «si poteva spazzare e spolverare tutti i giorni», il vecchio narratore e protagonista Qfwfq divorzia dalla moglie Xha, fautrice [11]dell'ordine e della pulizia costante, per risposarsi con la ragazza Wha, che si sente perfettamente a suo agio nel disordine, e tra i rifiuti e gli scarti che non smaltisce costruisce il suo habitat. Ma nella chiusa del racconto, dopo averle perse entrambe, Qfwfq deve ammettere che «basterebbe riaverle tutte e due insieme un solo momento per capire» [12]. C'è insomma una complementarietà tra il disordine dei rifiuti ammucchiati e l'ordine conseguente al loro smaltimento: tra questi due stati contrastanti si crea una tensione irrisolta e latrice di un senso nascosto. Quel senso che riesce a sprigionare la creazione artistica, al termine di un'estenuante battaglia tra minute da gettare e bella copia, tra errori e correzioni, tra appallottolamenti e riscritture, seguendo un processo di successive elaborazioni reso possibile grazie all'eliminazione del superfluo, dell'inessenziale. Scrive Calvino al termine de La poubelle agréée: Scrivere è dispossessarsi non meno che il buttar via, è allontanare da me un mucchio di fogli appallottolati e una pila di fogli scritti fino in fondo, gli uni e gli altri non più miei, deposti, espulsi [13]. E poco prima aveva detto: Questi miei pensieri che leggete sono quanto s'è salvato di decine di fogli appallottolati nel cestino [14]. Il prodotto letterario è dunque ciò che rimane al termine di lunghi processi di eliminzione di rifiuti, di scarto, di superfuo, in una concezione, si potrebbe dire, michelangiolesca del fare artistico, – ovvero in continuo "levare", in continua sottrazione da una materia muta. E non è un caso che l'articolo di Calvino finisca proprio con l'esibizione (che ad altri scrittori potrebbe parer sconcia) degli appunti preparatori buttati giù dall'autore e servitigli come "scaletta", le scorie della scrittura primigenia che è stata eliminata dando però i suoi frutti. Questo rovesciare sul tavolo di lavoro il cestino contenente le bozze di scrittura e lasciare che esse mettano fine alla sua fatica rappresenta un grande omaggio ai rifiuti e al potenziale creativo implicito in ogni loro consapevole, "ragionata" deiezione. Nell'atto artistico, dunque, l'uomo che ha sperimentato la propria alienazione nella catena di smaltimento collettiva può tornare ad essere consapevole padrone del proprio privato processo di deiezione Tema della purificazione delle scorie il buttar via è complementare dell'appropriazione inferno d'un mondo in cui non fosse buttato via niente si è quel che non si butta via identificazione di se stessi spazzatura come autobiografia soddisfazione del consumo defecazione tema della materialità, del rifarsi, mondo agricolo… [15]. Alla fine si scopre dunque che, se c'è una stretta affinità tra le motivazioni del pater familias che ogni sera elimina la spazzatura dalle mura di casa e quelle dello scrittore che lavorando quotidianamente a espellere le scorie della scrittura arriva – a volte nel corso di anni – a licenziare finalmente un testo definitivo e soddisfacente, altrettanto non si può dire guardando i risultati: il Calvino agens, ovvero il Calvino netturbino domestico, viene schiacciato dal cumulo dei rifiuti, prendendo coscienza del processo di alienazione in atto nel sistema consumistico; il Calvino auctor invece alla fine trionfa, domina i rifiuti prodotti dalla propria scrittura, portando così a termine il saggio (anche se, con l'autoironia che gli è propria, l'autore fa aleggiare il sospetto di una "vittoria di Pirro"). Così che nel finale Calvino deve ammettere, analizzando il diverso tipo di assimilazione di ciò che si salva dalle due poubelle: Capisco ora che avrei dovuto cominciare il mio discorso distinguendo e comparando i due generi di spazzatura domestica, prodotti della cucina e della scrittura, il secchio dei rifiuti e il cesto della carta straccia [16]

sabato 1 novembre 2014


Jesus di Babilonia Teatri Posted by Renzia D’Incà Vicenza In una fase in cui la Rete, l’under 25 di fascia geografica cristiano-centrica, si appassiona a certe vignette sul Cristo e la cristologia fino a farne un cult apocrifo- Toc toc, chi è? Dio. La mamma mi ha detto di non aprire a cani e porci- oppure si spalma su Ipad, effe book, Iphone, video su you tube di Lady Gaga coi crocioni al petto, improbabilissime icone Harley Davidson per la new poor italian generation, collanine del rosario alla moda dei maschi greci isolani e simbologie sadomaso cadaveriche(ma non lo faceva anche Madonna, la cantante, a suo tempo e con altri più rozzi mezzi mediatici?). e che dire a commento della moda dilagante delle disco-cristoteche (che sempre al tecno house siamo da vent’anni)? e allora, che fare? certo, mettere al mondo e poi far crescere ed educare- oggi- un bambino nella confusione dei simboli-archetipi multimediali, non è affatto come bere o affogare dentro una tazza di tè, per dirla alla Mannarino? altro che Lipton o Twining delle madri o nonne mediamente borghesi. Che così incomincia l’affabulazione in salsa rapper a due- la coppia genitoriale di questo Jesus dei Babilonia Teatri, nella cornice di quell’architetto che fu Palladio, dentro una location teatrale unica al mondo: il Teatro Olimpico di Vicenza(per la microstagione vicentina a direzione artistica di Emma Dante e dopo la prima modenese ). E’Jesus : in scena irrompe l’energia a tutto tondo di un bambinetto età dell’asilo –l’Ettore, anche figlio della coppia in scena Valeria Raimondi e Enrico Castellani in jeans e magliette con stampigliato sopra il logo 33 (che a quell’età, pare-sia morto Gesù). La coppia genitoriale affronta in un monologante doppio il tema, con in braccio un imbarazzante pallone-pancione da basket – a volte in palleggio: Gesù chi è costui? e giù tutta una serie di slogan sulla iconografia-iconoclastia a partire dalla pubblicità invasiva ed invadente di questo ingombrantissimo Figlio dell’occidente cristiano, ma alla maniera del duo performers Raimondi /Castellani a cui Babilonia ci ha abituati - in doppio cantilenato. Certo da Chi mi ama mi segua della pubblicità (targata Oliviero Toscani)sui cartelloni di certi jeans primissimi anni Settanta, ne ha fatta di strada il brand del “crocifisso”. Parte una micro sezione- a cui ne seguiranno altre-di testualità dove è tutto un incrociarsi di meta-narrazioni sulla cristità. Il plot narrativo si snoda alternato a pezzi musicali pop al limite della banalità (attualissima e generazionale) e dal Vasco Rossi al Personal Jesus dei Depeche mode, mentre il bambino chiede (si chiede?) papà mamma perché Cristo muore? perché si nasce e poi si muore? magari ammazzati come Gesù? difficile pensare che queste siano domande che si pone un bimbetto di quell’età. certamente se le pongono i genitori di quel bimbo nella loro funzione, appunto, adulta-genitoriale. Anche nella scena, fissa, l’unico riferimento è un neon scomponibile/ ricomponibile formato da paroline dell’alfabeto, modello scuole elementari d’antan o di certa arte concettuale (che scorre con richiami da Alighiero Boetti a Cattelan), certo non quelle attuali del bimbo dell’asilo. Ecco che allora questo nuovo lavoro di Babilonia sembra voler rimandare ai temi di Vita versus Morte (ma anche eros-thanatos visti in Lolita) di cui ci siamo appassionati-quasi un rilancio in chiave post regressiva del Pinocchio (dove il tema era quello del coma e della sopravvivenza alla tragedia dell’incidente stradale che avrebbe potuto essere mortale ma che invece trasferisce ad un’altra dimensione pur sempre vitale, anche nelle sue limitazioni fisiche s/oggettive) e può far pensare ad un inno naturalistico alla prevalenza della corporeità e ad un darwinistico principio di élan vital o dell’equivalente del classicissimo amor vitae. Chissà, forse la risposta genitoriale alla domanda (?) del (loro figlio) che il loro Bambin Gesù, si trasforma in risposta esistenziale della coppia: non vogliamo un Cristo martirizzato ma un personal Jesus, un Paradiso in terra. Uno spazio dopo la cacciata di Adamo ed Eva ma hic et nunc, materiale, dove il corpo può avere dimensione di splendore e luce come la vita e la sua trasmissione attraverso la copula-insomma, il dionisiaco e|ma senza peccato originale? Un messaggio anti-intellettualistico che può lasciare perplessità. La sensazione del non-finito. Insomma, non che un spettacolo debba dare risposte, altri spazi politici e sociali dovrebbero darceli, a noi adulti e come semplici spettatori e persone. Credo , da non credente, che questo dei Babilonia ancora non sia un lavoro definito- il volo finale del corpo come utopia finale sia del bambino Jesus sull’altalena della vita come quello del risvegliato dal coma del precedente Pinocchio, non mi convince. Purtroppo. Tuttavia come soluzione artistica può essere e neanche troppo esotericamente un’ipotesi validissima. Quantomeno della speranza. Visto a Vicenza, Teatro Olimpico, 25 ottobre di Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Vincenzo Todesco con Enrico Castellani e Valeria Raimondi Scene e luci di Babilonia Teatri ( Luca Scotton) Costumi Babilonia Teatri (Franca Piccoli) Produzione Babilonia Teatri in coproduzione con La Nef/ Fabrique des Cultures Actuelles Saint Dié-des Vosges (France) e MESS International Theater Festival Sarajevo (Bosnia and Herzegovina) in collaborazione con Emilia Romagna Teatro Fondazione con il sostegno di Fuori Luogo La Spezia con l’Associazione ZeroFavole- Alta Mane Italia Spettacolo scelto da Emma Dante per il 67esimo Ciclo di spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza