domenica 12 febbraio 2017


L’uomo dal fiore in bocca in doppia trasposizione per la scena è su RUMORSCENA renzia.dinca Pontedera( Pisa). Nello stile del secondo anno di programmazione del nuovo Teatro della Toscana (Teatro della Pergola di Firenze e Teatro Era di Pontedera), dove i classici, magari rivisitati, hanno un posto d’onore, ecco la proposta congiunta una dopo l’altra anche nelle stesse serate del pirandelliano L’Uomo dal fiore in bocca. Un must di un classico dei classici, per due versioni molto diverse, quella curata da Gabriele Lavia anche regista e quella di Roberto Bacci con in scena, in a solo Dario Marconcini, direttore artistico del Teatro di Buti (Pisa) e storico fondatore del Teatro Era. La versione di Bacci-Marconcini si sviluppa nel senso della nettezza del mandato dell’autore premio Nobel per la letteratura, dell’atto unico. Il dramma dell’uomo affetto da un tumore all’ultimo stadio secondo la nomenclatura medica definito epitelioma, si sdipana nella sala Cieslak: uno spazio relativamente piccolo con sedie dislocate ad anello mentre l’azione si svolge nel centro della sala. L’uomo- attore si rivolge, come da copione, ad un pubblico a sua volta attore in scena dove al centro vengono fatti accomodare alcuni spettatori, come fossero passeggeri alla stazione in sala d’aspetto in attesa del treno. L’uomo si relaziona ad essi sedendosi ora accanto a uno ora all’altro e narra la sua tragica vicenda filosofeggiando secondo poetica pirandelliana. E’ particolarmente efficace questa versione scarna, definirla essenziale è anche riduttivo, concepita dal regista pontederese dell’ex Centro di sperimentazione e ricerca che ha dato con illuminazione accorta negli anni Settanta ospitalità e residenza a Jerzy Grotowski. Complice e sodale nell’operazione un attore in linea con questo genere di stile espressivo che in tutta la sua carriera ha dato peso alla parola restituendone la bellezza originaria in sintonia rispettosa con il drammaturgo o scrittore da cui ha attinto il lavoro. La trilogia pinteriana recente ne è solo ultima testimonianza e questo Pirandello conferma il segno artistico binomico scevro da narcisismi sia attoriali che di regia. Notevole l’apparato scenografico a supporto della densa struttura drammaturgica ideata da Gabriele Lavia per la sua regia e interpretazione de L’uomo dal fiore in bocca. Qui Lavia si produce in un corpo a corpo con il breve testo pirandelliano dell’Uomo dal fiore in bocca proponendo inserti da altri testi dell’autore siciliano dove la tematica sfuggente e intrigante è quella del rapporto col femminile, un femminile qui lascivo, inquietante e mortifero. E’ efficace il confronto-scontro coll’interlocutore passeggero, l’uomo pacifico, di Michele De Maria. Nella congerie tutta cerebrale giocata in punta di fioretto, ne fa le spese il poveruomo ignaro della forza delle considerazioni causidiche dell’uomo dal fiore in bocca, il malato nelle ultime ore di vita della cui sorte è ignaro per poi un po’ alla volta essere reso consapevole di chi ha di fronte senza peraltro cambiare niente del proprio status, anzi ne è irretito e soggiogato dalla forza dei ragionamenti. Lavia restituisce dall’alto della sua lunga e osannata carriera uno straziante eppur umanissimo ritratto aiutato da una sontuosa scena che riproduce gli interni di una stazione con un orologio senza lancette e una panchina che occupa a semicerchio il palcoscenico che diventa teatro nel teatro del dramma. Sono ben segnate in maniera espressionistica nella prossemica, nell’enfasi dei dialoghi, nella gestualità, le diverse situazioni emotive dei due attori-personaggi maschere in scena, serrati dall’argomentare loico, spietato, sado-masochistico del protagonista. In controluce il passaggio evanescente con ombrellino parapioggia- folate di vento si sciolgono fin dentro la sala passeggeri in transito, di una dama-sua moglie secondo la spiegazione del filosofico uomo malato. E come nel finale del Gattopardo la donna è la Morte. E come in Giorgio Caproni del Congedo del viaggiatore cerimonioso il paragone con la vita e le sue stazioni, i suoi treni è un topos letterario, un classico che regge e porta moltissimi spettatori a teatro come è il caso delle due versioni de L’uomo dal fiore in bocca visti al Teatro Era. L’uomo dal fiore in bocca con Dario Marconcini regia Roberto Bacci L’uomo dal fiore in bocca… e non solo con Gabriele Lavia, Michele De Maria, Barbara Alesse regia e adattamento Gabriele Lavia Visti a Teatro Era di Pontedera il 28 e 29 gennaio 2017

giovedì 9 febbraio 2017


e fu così che ritrovai il tuo portafogli smarrito nel cestino della tua bici dopo la spesa alla coop e di nuovo complici amici ed amanti di cibo e parole cannibali felici( gentili) di calcio la Juve e di giovani favolosi un teatro vivente il riscatto del niente possiamo amarci con poco conta l'intesa il gioco la mente che ascolta sottende il grido sommesso che scompiglia la rugiada dei giorni il vento che vibrisse di gatti scuotono * mente impotente che rischiara la parola il senso quei bambini morti che scendono il Piave la maestra che li rende alla tomba la gioia sottile del ritrovarsi che scalda l'abbaino le soffitte le sconfitte gli antri nevosi il raccontarti sarà' ciò che morto ciò che ancora vive tempeste di vita invitta

giovedì 2 febbraio 2017


I passi ultimi: un cabaret danzante sull’orlo della fine su RUMORSCENA renzia.dinca Pontedera (Pisa). Quel sapore di balera molto retrò, quegli anni Cinquanta-Sessanta, nostalgici ricordi di nonni e genitori che non ci sono più e sono comunque stati, sono la memoria storica di altre generazioni, quelle venute dopo, con la Febbre del sabato sera di John Travolta, dei Bee Gees, di Thanks god it’s Friday. Riproporre quei suoni, quelle atmosfere da parte di Teatro delle Briciole, sa di operazione di recupero o di rottamazione? ché ancora a qualcuno viene in mente coll‘aiuto di reminescenze arcaiche o sinapsi metafisiche un’orchestra-spettacolo allora nota al grande pubblico come la Casadei, quella della “mazurca di periferia scaccia pensieri tanta allegria, metti la quarta e vieni con me?”. Eppure quella fenomenologia pop, romagnola del ballo liscio, modello costa adriatica per famiglie non degna di studi antropologici universitari magari alla Umberto Eco ma tanto cara alle orecchie e alle saghe domestiche di migliaia di danzatori improvvisati e non, ha fatto la storia del popolo italiano di nonni bisnonni e genitori. Quella della balera era la preistoria del luogo di socializzazione delle fasce sociali contadina operaia e piccolo borghese, che ha ricostruito l’Italia nel dopoguerra, divertendosi in modalità semplice, frugale, quella della TV bianco e nero di Mike Bongiorno del Rischiatutto (e non a caso in riedizione Fabio Fazio), di Non ho l’età e del falsetto di Anima mia torna a casa tua (in seguito affidata anni Ottanta Novanta alle cure per attività da divano familistiche dei berluscones Mediaset). Ingenua, allegra. Bei tempi. Si fa per dire: il Teatro delle Briciole, storico gruppo parmense, ripropone con ironia e un po’ di sberleffo quel clima da balera dove l’interazione col pubblico o meglio quello che era il rapporto col pubblico, potrebbe apparire in prima istanza gioioso, da cena di classe di ex liceali oggi ultra sessantenni. Invece tutto crolla in questa serata magari affittata in una sala triste, di bicchierate di vino bianco, di fotografi improvvisati, di luci al neon appese a festoni da circo che vanno bene per capodanno carnevale compleanni cresime e seconde nozze (forse coi fichi secch). Mentre è il tema della Morte che si annuncia fra uno stacchetto e l’altro, magari occasione per riffe a prezzo stracciato di piccole cose di pessimo gusto, oggetti di svendita di case e vite in disfacimento. Lo spettacolo continua con l’ombra della fine: cosa accadrà a fine spettacolo? la fine del mondo? le danze in cui ad un certo punto non sono più neanche coinvolti gli spettatori-che fin dall’ingresso in sala vengono travolti a coppie nelle danze, perché non c’è più niente da festeggiare ma qualcuno prova o ci prova a rappresentare la morte quella finta, in scena, una in particolare quella di Desdemona che strappa qualche risata allo spettatore-attore, che così le parti si rovesciano o almeno ci si prova a rimetterle in gioco, le vite, le possibili morti di donne a cominciare da Desdemona; così come l’annunciato fallimento del capo-balera e capocomico venditore di sòle – ricordate le gite fuori porta con vendita di pentole?, il capocomico Savino Paparella, neanche in grado di pagare il dj che si limita a mettere la base sonora. E sono bravi Elisa Cuppini e Paparella i due imbonitori-danzatori coppia circense, a raccontarcela questa vita, che come cantava un dì la Berté è: vita balera. Sempre appesa al filo della fine. Un lavoro I passi ultimi che è metafora di vite tempi e insieme anche della società dello spettacolo italiana, quella attuale. Un lavoro che tange una visione esistenzialista delle parole e delle cose. Ma ci si alza un po’ alleggeriti, noi spettatori, certo non scherzosi uscendo dalla sala Thierry Salmon del Teatro Era di Pontedera? Forse un po’, magari pensando che le cose belle non ritornano, vanno vissute hic et nunc. E così era e, forse, è. Oppure no. E comunque perché: questa è la vita, bellezza.