mercoledì 17 settembre 2014

Renzia D’Incà
E lo chiamano ‘Teatro sociale’

Lo chiamano Teatro sociale. Se per alcuni politici è stata, qualche volta, la classificazione compassionevole di un ghetto a basso costo, per padrini cinici un marchio un po’ spregevole e per gli opportunisti anche teatranti-talvolta purtroppo, un sottobosco di sfruttamento dei soggetti deboli, per noi, critici teatrali: cos’è?
Anche alla luce delle profonde trasformazioni politico-istituzionali (il MIB/act è di quest’estate), con in atto una involuzione dell’intero sistema culturale italiano legata alla profonda crisi economica di sistema vissuta in questo momento da tutti i Paesi europei ed occidentali, come sempre, chi ne fa le spese, in scuola pubblica come in cultura, sono le fasce più deboli della popolazione. Pensiamo allora a quelle famiglie  che oltre al peso di maggior povertà in più hanno in carico disabili, fisici e mentali, persone con disturbi adolescenziali come anoressie|bulimie che poi sfociano spesso in problemi  di patologie  a carico della sanità pubblica generalista cioè tutti noi (oggi a sua volta a gran rischio di tagli). Il ruolo del teatro a differenza delle arti terapie a cui talvolta è semplicisticamente accomunato (dalle azioni di strada a Torino anni Settanta fino alla proliferazione dei teatri nei bassi napoletani anni Duemila a bonifica di zone ad alto rischio di delinquenza minorile) poteva aver assunto una valenza politica di aggregazione e di scioglimento almeno parziale dei conflitti anche a bada di territori terre di nessuno, insomma una sorta di scudo protettivo nei confronti di realtà di emergenza sociale specie giovanile in cui la valenza relazionale che è intrinseca alla pratica teatrale, ha antropologicamente assunto significativa evidenza anche storicamente documentata.
Eppure, a volte e ancora, il cosiddetto Teatro sociale (etichetta di per sé stretta a molti che l’hanno praticata ribattesimandola magari Teatro civile o talvolta Politico) come sempre, suscitata da un atto espressivo a/sociale nato e cresciuto fuori dalle economie del teatro, può essere, e talvolta diventa, arte allo stato puro.  E lo è, di fatto, da quando è nato il teatro di ricerca novecentesco (ciò vale anche per  il cinema, con esempi davvero straordinariamente interessanti degli ultimi anni in Italia- e non cito, perché non ce n’è bisogno, dato  lo spazio intellettuale in cui stiamo interagendo).
Ciò lo sa bene chi ben conosce la storia delle avanguardie nazionali ed internazionali novecentesche in cui sia autori, uno per tutti  Beckett  che frequentò le  peggiori carceri internazionali, così come artisti ed operatori che si addentrano nel provare a tessere relazioni specie in ambito giovanile e quindi  a fare cultura per recuperare soggetti a rischio nei quartieri assediati dalla delinquenza minorile, nelle zone di mafia, di spaccio, di immigrazione insomma nel disagio sociale come nella malattia, ha nutrito la propria mescolanza  narrandola in forma appunto, d’arte e spesso con risultati d’eccellenza.
Forse e non a caso, molto giovane, per istinto e per passione seguivo le primissime esperienze di Teatro carcere del regista Armando Punzo a Volterra. Ricordo l’emozione di meraviglia mista a stupore (e ditemi se queste due emozioni non sono tangibile esperienza sensibile di visione di una forma di teatro allo stato puro) provata per un Pippo del Bono ai suoi albori visto la prima volta proprio a mezzanotte nella Piazza dei Priori (allora inserito nel festival di Roberto Bacci, era il 1999 con Barboni), seguendo poi esperienze nei Convegni appena nascenti dove ho assistito ad altri lavori, ne cito due fra i tanti, quelli di Lenz Rifrazioni e di Isolecomprese, a cura di Vito Minoia e Emilio Pozzi sui Teatri delle diversità a Cartoceto, sulla scia anche di indicazioni del mio maestro (e prefatore dei volumi che poi avrei firmato per il Teatro Politeama di Cascina) Giuliano Scabia. Voglio ricordare anche l’esperienza di Teatro sociale di Viterbo dove lavorava uno straordinario primario psichiatra prematuramente scomparso (2008) allievo di Giovanni Bollea (neuropsichiatra infantile di fama internazionale) insieme al suo staff di operatori ed insegnanti  con l’associazione Eta Beta guidata dall’amatissimo allievo Giorgio Schirripa che collaborava  anche con la Neuropsichiatria infantile pisana e Stella Maris.  Con quel gruppo e anche nel carcere viterbese, ha lavorato con suoi collaboratori Fabio Cavalli proprio in concomitanza con l’esperienza di Rebibbia e del film dei Taviani.
Nel frattempo mi occupavo per studio della ciclopica, in solitaria impresa, di Orazio Costa, che di seguaci e di “barboni”, fra Roma e Firenze ne aveva e ne ha ancora moltissimi fra i suoi ex allievi  attori e registi in quanto portatori di impegno civile e sociale appreso proprio dalla lezione umanistica del grande maestro  di intere generazioni di artisti passati dall’Accademia d’arte drammatica di Roma (ne cito solo due fra i tanti: i fiorentini Alessandra Niccolini e Paolo Coccheri).
Per  quanto riguarda un’obiezione spesso sentita dalla critica, più vecchio stampo: ma con quale linguaggio dobbiamo affrontare questo Teatro sociale? per me la risposta è semplice: quello delle categorie dell’arte e dell’analisi critica di nostra pertinenza. Punto e basta. Se poi arte non c’è, pazienza, non ne scriveremo.
Perché forse  non abbiamo recensito il lavoro di Danio Manfredini, così apprezzato anche dal mondo della psichiatria?
Forse è  per questa attenzione sensibile al fenomeno che mi sono avvicinata all’esperienza da me documentata per la Regione Toscana in due distinti step ne“Il gioco del sintomo” (Pacini Fazzi- Lucca 2002, poi in ristampa  con aggiornamenti ne “Il teatro del dolore”, Titivillus- 2012 testo adottato presso la Laurea in Riabilitazione, Facoltà di Medicina-Università di Pisa, Psichiatria) esperienza ventennale presso la Città del teatro  di Cascina diretta allora da Alessandro Garzella- (e fino al 2011), condotta dal regista con malati mentali in  collaborazione con l’USL 5 di Pisa.
Strettamente collegato con i bisogni, le urgenze, le follie del quotidiano che generazioni e generazioni di donne e uomini vivono  nella propria quotidianità tuttora ed hanno vissuto fra emergenze come: guerre, fenomenologie repressive legate al Potere di turno repressivo delle differenze ideologiche, sessuali, etniche, religiose,  oltre che ai parametri di prestazione  fisica e psichica vedi diverse abilità, quello che oggi è etichettato come Teatro sociale, aveva iniziato ad assumere nel tempo nel nostro Paese una sua distinta  autonomia fra i diversi generi teatrali più in voga almeno per un più largo pubblico di teatro.
Tuttavia nella legge regionale della Toscana, che per il triennio  segna i connotati del sistema e gli organismi che godono di risorse pubbliche, non v’è traccia di quelle che sarebbero potute  essere destinate al “teatro sociale”.
Mi sono rivolta una serie di domande cruciali sul tema, il Teatro sociale appunto, qui indagato in questo consesso così atipico per la sua-almeno  apparentemente ispirata debordianeità da parte di una neorealtà  di colleghe e colleghi di diverse generazioni dentro una convergenza mobilissima e molto individualmente tratteggiata  quale questa anarcoide di Rete Critica e proprio dentro un luogo a me particolarmente caro, il Carcere di Volterra dove ne seguo  e ho recensito i primi spettacoli per Hystrio fin dal 1990.

Credo che lo sguardo di noi critici nei confronti di spettacoli definiti semplicisticamente Teatro sociale  debba rimanere molto indipendente ed in autonomia di giudizio personale e responsabile-come deve essere per deontologia professionale da parte di una categoria come la nostra, quella di giornalisti esperti di cultura che hanno avuto ed hanno esperienze di spazi sia cartacei che in web. Attenti alle mutazioni, alle riflessioni critiche sul nostro lavoro, ma anche intellettuali pronti a scendere in campo e sporcarci le mani.
Personalmente ho attraversato un percorso di ricerca decennale da osservatrice  esterna sin dal 2000 presso la Città del Teatro di Cascina dei processi di lavoro operanti in quello che era il secondo polo regionale toscano di  Teatro stabile di Innovazione ed ho visto alcune straordinarie esperienze di ricerca laboratoriali protette con pazienti psichiatrici. Da quei laboratori sono emerse due personalità di pazienti inseriti in percorsi di inserimento lavorativo come attori. Ne sono nati tre spettacoli che hanno girato in Toscana e altrove fra cui mi piace ricordare Re nudo, diretti da Alessandro Garzella.  In questi lavori ( anche descritti nel volume Il teatro del dolore) si sono mescolate le utenze psichiatriche con attori professionisti. Ci sono testimonianze tradotte in film-video molto forti di quelle esperienze laboratoriali, fra cui quella di Giacomo  Verde e di  Daniele Segre.

Perché non ricordare, a questo punto, il lavoro di Misculin?