venerdì 26 dicembre 2014


War Now!ovvero guerra mai! su RUMORSCENA di Roberto Rinaldi Pistoia Un efficace ed intelligente lavoro sul tema della guerra che – come quello sull’amore- rischia in scena l’autodeflagrazione , a meno che non tratti trasfigurandole, le idee e certi copioni traendole dai classici. Così non è stato per War Now , in prima regionale, che sembrerebbe pescare, ma non è così o almeno non solo così , dai linguaggi dei video games. In realtà molto è giocato fin dalla costruzione drammaturgica dell’incipit, sull’interazione col pubblico. Ma fino a qui poco c’entra colla Rete, basti pensare agli allestimenti di Judith Malina e Julien Beck anni Settanta di Living theatre ( ripresentati anche trent’anni dopo a Pontedera Teatro) sui temi della guerra, della finanza, della violenza tout court. L’unica differenza con l’allora, è la presenza niente affatto massiccia ma solo in funzione di galleria fotografica, a restituire in un bianco e nero da Istituto Luce proiettate sul fondale, alcune struggenti dia delle grandi città internazionali coi loro segni di monumenti– a cominciare dalla Tour Eiffel e poi Londra passando per la capitale australiana prima e dopo i bombardamenti della Grande guerra 1915-18. Sono diapositive ben incentrate dentro il plot narrativo- solo apparentemente sconnesso, che procede per azioni sceniche interattive col pubblico fra flash back e incursioni nel futuribile, quale fosse un fantasy per microstorie di famiglie davanti la TV,. Ci sono molte azioni fisiche sopra e sotto il palcoscenico fra il pubblico, una narrazione franta, domande e dialoghi in presa diretta con gli spettatori secondo lo stile di Sotterraneo , ritmo veloce e per questo potrebbe sviare verso la visionarietà estetica un po’ prossima alla forma delle video performances. Si tratta di una collaborazione artistica che ha visto insieme dal festival di Santarcangelo, il Teatro Sotterraneo in sinergia col regista lettone Valters Silis all’interno del progetto internazionale SharedSpace. In scena tre attori di grande forza espressiva (Matteo Angius, Sara Bonaventura e Claudio Cirri), che si immedesimano in situazioni di guerra. Questi in tuta mimetica fissa, si infilano maschere per rischio guerra chimica e|o nucleare- il richiamo è all’ipotesi di una Terza guerra mondiale proposta come idea neanche tanto pellegrina a generazioni che fortunatamente mai ne hanno vissute almeno nel nostro Occidente europeo . Le donne o sono a loro volta inserite nel sistema della guerriglia (dei tre armati con mitra o kalashnikov, Sara Bonaventura , è donna) o sono Grandi Madri a cui viene sottratto oltre che ucciso l’infante. E provano a raccontarci una storia impossibile sullo scenario mondiale, attualissimo al punto che nella estrema azione di coinvolgimento del pubblico- assai consenziente- portano sulla scena gli “attori” afoni di una impossibile trattativa diplomatica internazionale. Il tutto con leggerezza mescolata alla ferocia indossata dalle loro tute militari, dalle loro maschere fasulle fra strazio e cinismo etico ed etnico- e qui l’influsso della co-regia di Silis è pulsante.. Ciò che emerge da questo laborioso complesso lavoro è la disinvoltura del catturare il pubblico- per alla fine, rovesciare i ruoli da attivi in passivi e viceversa: insomma alla fin fine il coup de theatre è che i morti siamo noi. Questa operazione fa riflettere sulla tragedia delle guerre. Perché ci induce a soffermarci sul fatto che l’odio chiama odio. L’ultima sezione ( dopo il pleonastico vomito con allegato di spremitura di orbite oculari con tanto di spruzzi) rimbalza sulla umanissima, purtroppo, condizione di chi dopo eccidi ed eccidi, anche di fronte alla Terza, evocata, Guerra Mondiale, vorrebbe ammazzare tutto e tutti. Ma l’occhio per occhio, si sa, non può che produrre ulteriori lutti, e questo meccanismo psichico umano del “ te la farò pagare” è molto ben rappresentato in War Now. Questo bel lavoro è un inno al pacifismo, al far riflettere sullo stereotipo così umani della vendetta che può solo chiamare e sviluppare a sua volta odio e sangue: ma quali bandiere sventolare se alla fine nessuno vince e tutti siamo sconfitti? È un lavoro contro la retorica dei vincitori. Alberto Moravia scrisse a suo tempo, e non era certo Capitini, che la guerra deve diventare per l’umanità un tabù. Eravamo morti anche tutti noi al Teatro Bolognini, noi pubblico vivo partecipante e di target under quaranta per lo più. Alla fine del lavoro di Silis col Teatro Sotterraneo War Now i miliziani microfonati ci hanno “nominati” uno per uno e una per una, in quanto spettatori in quanto co-attori compartecipi e testimoni ( ci avevano messi in croce già fin dal’ingresso mettendoci in lista nome cognome prima di consegnarci il nostro biglietto). Perché la guerra è adesso e dobbiamo, da vivi, vigilare. I mostri sono fuori e dentro di noi tutti. Concept e regia Valters Silis e Teatro Sotterraneo Con Matteo Angius, Sara Bonaventura e Claudio Cirri Scrittura Valters Silis e Daniele Villa Produzione Associazione teatrale pistoiese con Santarcangelo dei Teatri, Festival Internazionale del Teatro in Piazza, Teatro Sotterraneo Visto a Pistoia, Teatro Bolognini il 15 novembre 2014

martedì 23 dicembre 2014


La Valle dello stupore di Peter Brook su RUMORSCENA Posted by Renzia D’Incà Pistoia A Noir, E Blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles- Voyelles di Arthur Rimbaud; Il est de parfums frais comme des chantes d’enfants/ Doux comme les hautbois,/Verts comme les prairies, Et d’autres, corrompus, riches et triomphants- Correpondances-Les fleurs du mal di Charles Baudelaire La sinestesia, dal punto di vista neurologico, è il mescolarsi dei cinque sensi in una gamma complessa di modalità , una persona dotata di questa particolare capacità percettiva può realmente incrociare due o più sensi. Quando accade in poeti come i due sopra citati, potrebbe passare, magari anche per certi linguisti, come “estro” o come una intellettualizzazione letteraria, se poi accade ad uno scrittore come Marcel Proust che nel gusto e profumo della sua madeleine mentre da adulto l’affonda nel tè a colazione e così sprofonda nello struggente ricordo della sua infanzia e della madre, ecco: questa è grande letteratura. Lo stesso Nabokov pare ne fosse “ affetto”. E così musicisti come Liszt che ad una orchestra perplessa mentre dirigeva disse: un poco più di blu, questo tono lo vuole . O come accadde al pittore russo Wassily Kandinsky, un altro “affetto” da questa sindrome. Da tempo la PNL ( Programmazione Neuro Linguistica) se ne è occupata anche per definire alcune, sia pur molto generalistiche, tipologie di personalità. In The Valley of Asthonishment di casi clinici si tratta-secondo un registro già collaudato da Peter Brook in L’homme Qui, tratto dal saggio L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello del neurologo Oliver Sacks o in Je suis un phenomene (di Alexander Lurija, neuropsichiatra nonché maestro di Sacks), tuttavia stavolta i soggetti indagati non sono inquadrabili o non ancora, nello stretto registro dei manuali internazionali di Psichiatria, i più aggiornati, vedi il quinto. E’ un ritorno-rivisitazione, questo The Valley of Astonishement , poeticissimo, ad uno studio dello stesso Peter Brook scritto a quattro mani con lo scrittore e drammaturgo Jean Claude Carrière (messo in scena negli anni Settanta in La conférence des Oiseaux), ispirato dal poema mistico del persiano Farid al Diri ‘Attar, Il verbo degli uccelli, del 1177. Lo spazio- teatro è quello essenziale - minimalistico del Centro culturale pistoiese Funaro dove menti cosmiche quali quelle, tra altre, di Enrique Vargas operano, vigilano e concepiscono, da qualche anno, in straordinarie sinergie. Peter Brook fin dal Mahabharata, ha insegnato a molte generazioni di teatranti, che il teatro in quanto Teatro, non ha o almeno non avrebbe bisogno d’altro che di una sedia, un attore e un pubblico. Una triangolazione diabolica: è il set della vita, signori e signore. Il focus sulla mise en scène non è tanto ciò che dicono o fanno i personaggi: sono di per sé teatro le loro storie in quanto metastorie. E’ della memoria umana che si parla, e quindi di una questione che sta fra lo studio scientifico del funzionamento del cervello, insomma le attuali neuroscienze e la filosofia e che qui sconfina nella poetica letteraria prestata alla scena teatrale. Cosa è l’umano se non la sua memoria? ciò che ci ricordiamo del nostro sé, della nostra propria storia? ma se una particolare memoria intacca la vita di alcuni soggetti al punto da rasentare i territori della malattia come nel caso di Sammy, giornalista americana la cui memoria viene a costituire un caso clinico? la Sammy non prende appunti redazionali, Sammy ricorda tutto numeri frasi nomi sequenze stradali, non dimentica niente e lo fa attraverso associazioni mentali sinestesiche che la porteranno alla consapevolezza di essere appunto: un caso clinico oggetto anche amoroso di studio, da circo? (una strepitosa Kathryn Hunter, già attrice in altri lavori di Peter Brook). Ma, in similitudine, accade al giovane medico che pensa di esser pazzo – e diventa, forse, neurologo-fin da piccolo perché ad ogni colore associa immagini presenti solo dentro la sua mente disegnandoli sullo spazio bianco di un tappeto scenico che noi non vediamo (l’attore Jared Mc Neill, anche componente dell’équipe di neuro-scienziati che studiano appassionatamente e con grande empatia i”casi”) e poi un paralitico zoppo privo di proprio-percezione, che fa leva sul ricordo del movimento perduto attraverso la sua mente se ne riappropria, mentre un mago (Marcello Magni, il paralitico) anche Capo Circo nel suo tendone circense e senza un arto (la mano in questo caso) ci racconta- iscrivendoli tutti e tutto nello specchio dello specchio- storie (queste) al limite dell’incredibile ma che giochi non sono né tarocchi né taroccati, perché nelle menti di queste persone rese personaggi, sono esperienza sensoriale viva e diretta della propria singolarità neuronale dilatata nelle loro private esistenze reali. Persone la cui peculiarità- diversità può portarli a sfiorare la follia: in Sammy quella di non riuscire a dimenticare. Insomma, nei casi clinici trattati con una delicatezza, una rarefazione di segni cara al regista del nuovo lavoro internazionale di Peter Brook The Valley dentro una scena spoglia, tuttavia riscaldata oltre che dall’ironia dei dialoghi , la leggerezza dell’autoronia che finisce con un micro monologo in cui l’attore Mc Neill proclama - declama versi poetici perché alla fine solo la parola poetica ci porterà altrove come le note di due autorevoli musicisti che commentano a contrappunto le azioni sceniche del regista. Sono Raphael Chambouvet, pianista e Toshi Tsuchitori, musicista giapponese che ha approfondito la tradizione del suo Paese (anche soprattutto strumentale), che da anni collaborano agli spettacoli di Peter Brook. Al centro della creazione del lavoro della coppia di drammaturghi Peter Brook-Marie-Héléne Estienne, la ricerca, legata a fenomenologie psichiatriche di persone anche apparentemente integrate nel nostro sistema di “ normali” con alla base capacità percettive al confine con le psicosi. Una condizione molto vicina a quella di certi artisti ( e anche scienziati) costretti dalla propria intensa attività immaginativa a cercare mondi altri. Quelli che aprono porte di conoscenza che talvolta così nell’arte come nella scienza producono avanzamento dei saperi e delle conquiste della cultura dell’umanità. “ Attraversando i monti e le valli del cervello umano, ci troveremo nella sesta valle, quello dello stupore. I nostri piedi avanzeranno ben piantati per terra , ma ad ogni passo penetreranno nell’ignoto” . Come nel seme immaginativo del poema di Farid dove gli uccelli devono attraversare sette valli, sette percorsi per attingere alla natura di Dio, così attraverso i meandri della conoscenza del cervello umano , nella sesta valle, scopriremo-forse- un po’ di più della nostra essenza di uomini purchè “residenti” almeno un po’ illuminati dentro la Valle dello Stupore. E’ un peccato che per spettatori teatralmente vivi e che con questo inno alla visionarietà, alla poesia , si chiuda questo lavoro che avute solo due performances in Italia ( l’altra al Teatro Stabile dell’Umbria) perché in tournée in tutto il mondo fra Europa, Stati Uniti e Giappone. Una ricerca teatrale di Peter Brook e Marie–Hélène Estienne Luci Philippe Vialatte Con Katryn Hunter, Marcello Magni e Jared Mc Neill Musicisti : Raphael Chambouvet e Toshi Tsuchitori con Franck Krawczyk Realizzazione elementi scenici e direttore di scena Arthur Franc Produzione C.C.C.T./Theatre des Bouffes du Nord in coproduzione con Theatre for a new Audience, New York, Les Theatres de la ville de Luxembourg Visto al Centro culturale Il Funaro , Pistoia il 21 novembre 2014

domenica 30 novembre 2014


Intervista a Roberto Castello direttore artistico di SPAM Festival AFFARI NOSTRI Lucca Posted by Renzia D’Incà Rumors: “Ci parla della nuova stagione di SPAM fra Lucca e Porcari dove lei firma in co-direzione artistica con Graziano Graziani il festival Affari nostri?”. Castello: “In realtà la co-direzione con Graziano Graziani era già nata nella primavera scorsa (la stagione di Teatro popolare d’arte-Siamo nei tempi). Adesso in AFFARI NOSTRI abbiamo deciso di inserire un percorso sulle letterature del contemporaneo che prevede incontri con autori e reading di opere letterarie: Francesco Pacifico, Nicola Lagioia e Claudio Morici, questi i tre giovani autori introdotti da Rodolfo Sacchettini (Pacifico e Lagioia) e dallo stesso Graziano Graziani (Morici) conduttore per Fahrenheit su RADIO 3. Gli incontri sono ospitati nello spazio della Chiesa di Santa Caterina, in collaborazione con il Comune di Lucca e le librerie Baroni e Lucca Libri. Nelle nostre intenzioni, quelli che sono stati definiti “incontri letterari”, segnano un cambiamento solo apparente rispetto alla cifra legata alla residenza artistica di Danza nel territorio lucchese come associazione ALDES ( che ha sede a Porcari) ed è messa in secondo piano rispetto alla nostra idea di creare attenzione di produzione artistica per il festival Affari nostri che è attualmente in pieno corso a Lucca per concludere il 21 dicembre. Una residenza artistica nei territori della lucchesia, potrebbe non essere indispensabile nel solo settore della “Danza contemporanea” ma lo è, per noi di ALDES, che teniamo molto alla questione di come reagire ai decenni Ottanta /Novanta dove in un Paese conservatore come il nostro, sono stati scialacquati denari pubblici sia, per esempio, per la lirica che per la prosa classica, in un’ottica miope di sfruttamento della cultura passata. Noi di ALDES ci siamo chiesti: cosa vogliamo lasciare alle generazioni future? non certo cristallizzare il passato per far da traino al turismo che comunque è il settore in cui l’Italia può avere un’ importante espansione per sviluppo economico? e dunque, cosa possiamo proporre di alternativo dal punto di vista artistico-culturale allo status quo politico-istituzionale locale e nazionale? così ci siamo detti: noi vorremmo uno sguardo prioritario che guardi avanti perché i tempi sono cambiati. Gli “Affari nostri” includono nuovi schemi di collaborazioni legati anche alle logiche territoriali. Abbiamo bisogno di una programmazione sistemica non più e solo dal centro verso le periferie. Anche la scelta di questi tre giovani autori non è casuale: nei loro romanzi si parla di storie della nuova borghesia italiana, insomma dei “fatti nostri”, sono ritratti di un’Italia che ci riguarda, naturalmente sotto una luce critica che passa dal vaglio letterario. Rumors: “ Il Festival ha natura multimediale, secondo la specificità di ALDES, prevede svariate articolazioni, oltre alle presentazioni di libri infatti, sviluppa proposte di danza contemporanea (Marina Giovannini, Irene Russolillo); rassegne di video|teatro molto importanti come quella storica ed unica nel panorama nazionale firmata da Studio Azzurro specializzata nella documentazione video di spettacoli di teatro oltre alla sezione: Prove Schizzi Abbozzi e Tentativi. Come mai questo titolo Affari nostri? nostri, di chi? Castello: “Abbiamo usato l’accezione della parola Affari anche nel senso della logica di programmazione territoriale cioè ospitare autori toscani, penso ad esempio al compositore lucchese Gianmarco Caselli, non abbastanza valorizzato come è accaduto a molti musicisti della sua generazione. Oggi l’idea che più gente affluisce a teatro, cioè più pubblico c’è e più il progetto artistico funziona, secondo noi, non è più plausibile e non certo per fare discorsi da elitari o di destra. Per quanto riguarda la progettualità di Prove Schizzi ecc si tratta di lavori in corso ad ALDES, cioè di sei progetti attivati da qualche tempo con spettatori che fanno parte di un gruppo chiuso di osservatori. Quanto al progetto Studio Azzurro: risale a una quindicina di anni or sono. L’anno scorso è mancato Paolo Rosa e ci è sembrato necessario ricordarlo. La presenza in Affari nostri della rassegna di Studio Azzurro- Scena e doppia scena (Casa del boia- Lucca) vuole essere uno spazio in cui si storicizza il fare teatrale in forma di video: è una antologica per e sul teatro che per ben dodici ore per più giorni proietta materiali video o realizzati dallo stesso Studio o da loro documentato. La proiezione va avanti dalle 11 del mattino fino alla sera, cambiando ogni giorno, l’ingresso è gratuito. La rassegna si conclude con un intervento di Sandra Lischi, nota studiosa di video arte, docente al DAMS dell’Università di Pisa e con Valentina Valentini. Mi chiedo in quanto direttore artistico ALDES: perché invece di una agenzia di professionisti come Studio Azzurro non è stata la RAI a documentare in video molte straordinarie esperienze teatrali fin dagli anni Ottanta? forse perché è stata in competizione con le programmazioni Mediaset? RUMORS: “Nel festival in corso Affari nostri è in pieno work in progress una progettualità teatrale in collaborazione fra lei e Andrea Cosentino”. Castello: “Sì, presenteremo nella sezione Prove un nostro progetto legato al tema del denaro. Un tema scottante che riguarda tutti in questi tempi di crisi economica quindi anche noi artisti. Come ALDES non siamo residenza inquadrata dentro la legge regionale- ma sostenuti, ed abbiamo un’ottima collaborazione con gli enti locali su cui non graviamo, non solo: forniamo servizi culturali sul territorio per i cittadini.

giovedì 6 novembre 2014


LEZIONI DI STILE Francesco Orlando Francesco Orlando apparteneva a quel tipo di studioso per il quale l'insegnamento era tutt'uno con la ricerca. Interpretava magistralmente il senso e la qualità dell'insegnare regalando a studenti, discenti, colleghi lezioni in cui metteva in gioco con arte le inquietudini e le domande dello studioso. I suoi corsi non erano frequentati soltanto da studenti di Lettere e di Lingue, ma abitualmente anche da quelli di altre discipline, a cominciare dalle discipline filosofiche e storiche. Egli infatti andava oltre i limiti istituzionali e disciplinari delle materie di cui si occupava, letteratura francese o teoria della letteratura, perché le sue interpretazioni coglievano dall'interno di tali materie aspetti inconsueti che evocavano altri saperi, dalla filosofia alla psicanalisi. Riproponendo nel 1997 alle stampe il libro del 1982, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Francesco Orlando scrisse che si trattava del suo lavoro meno fortunato del ciclo freudiano e si chiese se la scarsa attenzione che originariamente gli aveva prestato la critica non fosse dipesa dal fatto che quel libro aveva un taglio interdisciplinare oppure che l'argomento affrontato fosse inattuale. In effetti, l'argomento era inattuale. Si trattava dell'illuminismo. Orlando ha tentato di consegnare, attraverso Freud, un illuminismo diverso. Se dovessi indicare con una parola cosa caratterizzi teoricamente e storicamente l'illuminismo di Orlando, un illuminismo che va dalla Riforma alle soglie di Rousseau, la risposta è facile: l'ironia. Se il barocco è segnato dalla metafora, l'illuminismo è caratterizzato dall'ironia. Un'ironia che determina il dislocarsi del punto di vista del narratore o dei protagonisti in una posizione tale che lo scenario da loro descritto assume tutti i toni graffianti, perché stupiti o ingenui, di una critica. Siamo dentro una situazione che giustappunto caratterizza il nesso tra illuminismo e ironia. La confutazione da parte di un altro, di un selvaggio, depotenzia il pericolo del peccato d'orgoglio che una critica simile può portare con sé. Similmente Usbek e Rica, i protagonisti delle Lettere Persiane di Montesquieu, oggetto di un intero capitolo di questo libro, viaggiatori orientali che si trovano a visitare e ad osservare Parigi, i suoi costumi e le sue istituzioni, hanno questo ruolo di osservatori estranianti ed estraniati. Vedono con altri occhi la vita della città europea e, dal loro particolare punto di vista, operano una critica che è filtrata dallo stupore tipico dello straniero che non sa nulla di ciò che osserva. Orlando fa una proposta che va al di là del piano della letteratura, perché il compromesso freudiano costituito dall'ironia illuminista ci porta verso quel lato dell'illuminismo che contiene in sé l'antidoto agli stessi pregiudizi che ha creato. Il gioco dello spostamento, da questo punto di vista, è senz'altro decisivo: come ci guardano gli altri? Anche quando una simile domanda funziona da simulazione o da artificio, resta ugualmente un'ottima domanda. Qui, come si vede, l'interpretazione letteraria va oltre la letteratura e la critica si veste di teoria. Cover volume Per Francesco OrlandoFrancesco Orlando insegnò sia alla Facoltà di Lingue sia alla Facoltà di Lettere. Si batté anche per la loro unificazione, ma la cosa non ebbe successo. Come preside della Facoltà di Lettere e Filosofia posso dire che Francesco Orlando ha dato lustro alla mia Facoltà non soltanto per sue ben note qualità di studioso, ma perché è fra coloro che ha contribuito a segnare uno stile che si caratterizza per il senso dell'insegnamento, un senso che era scientifico, didattico ed etico insieme. Non era uomo che usava l'università per fare altro, ma considerava l'insegnamento universitario come la forma primaria della comunicazione di uno studioso. Aveva, e la comunicava, una grande passione civile, indissociabile dalla critica. Intervenendo a un dibattito che aveva per argomento la malinconica domanda «A che serve la letteratura?», Francesco Orlando aveva sollevato un sospetto: «le mode dell'autoreferenzialità e dell'intertestualità – egli scriveva – ci ripetono da quarant'anni che la letteratura parla di se stessa e non del mondo, rimanda sempre ad altra letteratura a mai al mondo; non saranno per caso corresponsabili, secondo una sorta di legge del taglione, se ormai il mondo teme di annoiarsi a sentir parlare di classici e non vuol più lasciarsi rimandare ad essi? Farla finita con queste anziane mode, tornare a interrogarsi in modo originale sulla parte di mimesi e la parte di convenzione che fondano ogni arte, sarebbe corresponsabilità istituzionale di noi studiosi e insegnanti di letteratura». Ma a che serve la letteratura? Ho avuto l'onore e il piacere di accompagnare Francesco all'ultima lezione che tenne in Facoltà prima di andare in pensione. Bastava respirare l'aria che respiravano i suoi studenti per capire che una domanda del genere può sorgere solo fuori dalle sue lezioni, solo quando la passione intellettuale e la passione civile cominciano, come forse sta accedendo oggi, a essere impercettibilmente sostituite da quelli che dovrebbero essere soltanto dei mezzi e dei supporti, dalle pratiche burocratiche, dagli orari, dai crediti e dai debiti, dalla cosiddetta full immersion, dalla sciocca rigidità dei percorsi di studio. Alla domanda: «a che serve la letteratura?» Francesco aveva risposto dicendo che essa «suona press'a poco come le seguenti: a che cosa serve l'aria che respiriamo? La terra che ci sostiene? Il corpo in cui consistiamo?». E aveva concluso con un messaggio semplice e bellissimo, un messaggio che mi piacerebbe scrivere sui muri di Palazzo Ricci: «L'aria, la terra, il corpo, la letteratura. Queste cose non servono... – scrive Francesco Orlando – piuttosto sono condizioni del nostro essere fisicamente quello che ognuno di noi è, un essere umano». Alfonso Maurizio Iacono 8 gennaio 2013

Cerca su Griselda Home Chi Siamo TemiDibattiti Dizionario Sonde Didattica Informatica Agenda Newsletter Archivio IndiceTema n.6: Redazione Griselda Editoriale Fernanda Alfieri Il corpo del rifiuto tra eresia ed ortodossia Mimmo Cangiano Achille Castaldo Scarti dell'Assoluto. Quello che la forma lascia fuori Roberta Resta Resti del corpo, resti della scrittura: la poesia di Amelia Rosselli Andrea Campana Leopardi e gli scarti del canone Francesco Citti Lucia Pasetti Un rifiuto della storia: Eliogabalo, l'imperatore che morì nella cloaca Cinzia Ruozzi Relazioni d'ufficio: la scrittura marginale di Kafka Luigi Weber Rifiuti e gran rifiuti: di una costante crepuscolare nella poesia romagnola del Novecento Gianni Celati Lo spirito della novella Francesco Pitassio Il rifiuto e lo sguardo Paolo Albani Delle correzioni che non finiscono mai e di alcune bizzarre riscritture Giacomo Manzoli Cos'è “il trash” e cosa è trash? Javier Cercas I ritagli della storia e la memoria dei romanzi. Intervista di Elisabetta Menetti Marc Augé «Contemporaneità impossibile» e «iniziazione negativa» Nicola Bonazzi Parodia e scatologia: quando la letteratura prende in giro se stessa Alessandro Di Muro Paul Auster e i rifiuti. Un percorso attraverso la metropoli postmoderna Andrea Severi La spazzatura gradita a Italo Calvino. Un breve percorso tra i rifiuti de La poubelle agréée Home / Temi / Rifiuti scarti esuberi / Articolo Andrea Severi La spazzatura gradita a Italo Calvino. Un breve percorso tra i rifiuti de La poubelle agréée Delle faccende domestiche, l'unica che io disimpegni con qualche competenza e soddisfazione è quella di mettere fuori l'immondizia. L'operazione si divide in varie fasi: prelievo della pattumiera di cucina e suo svuotamento nel recipiente più grande che sta nel garage, poi trasporto del detto recipiente sul marciapiede fuori della porta di casa, dove verrà raccolto dagli spazzini e vuotato a sua volta nel loro autocarro [1]. Chi parla è l'Italo Calvino "eremita" a Parigi, borghese pater familias dimesso e fuori ruolo (in un'epoca ormai di fine del patriarcato, siamo nella metà degli anni Settanta) in una palazzina unifamiliare o pavillon a ridosso della cité. Scritto tra il 1974 e il 1976 e pubblicato per la prima volta su "Paragone/Letteratura" nel febbraio del 1977, La poubelle agréée – questo saggio scritto da un «antropologo dei gesti quotidiani carichi di un valore assoluto», in «quegli anni parigini, che erano anche gli anni di Lévi-Strauss, e di Barthes e di Foucault» [2] – confluì poi in «quella straordinaria narrazione autobiografico-saggistica» (Milanini) rappresentata dai "Passaggi obbligati". Afflitto – secondo il più classico dei cliché che grava sugli intellettuali – da una paralizzante inettitudine nella vita che si svolge in cucina e che si basa «su un ritmo musicale, su una concatenazione di movimenti come passi di danza» dove a farla da padrone sono le mani femminili della moglie e della figlia (spartito dove la pur buona volontà dello scrittore non può che tradursi in movimenti «stonati e torpidi», con conseguente inevitabile umiliazione), Calvino trova finalmente il suo momento, se non proprio di gloria, di felice inserimento all'interno del ciclo domestico, dopo l'ultimo pasto della giornata, quando «sparecchiata la tavola, l'ultimo osso o buccia o crosta è scivolato giù dalla liscia superficie dei piatti» e la tempesta comincia ad abbattersi sui piatti sporchi in provvisorio esilio in fondo al tunnel della lavastoviglie. «Questo è il momento per me d'entrare in azione». È una sorta di riscatto quotidiano, di rivincita quella che sta dietro lo smaltimento delle «scorie» domestiche, umile operazione priva, a tutta prima, della benché minima dignità. Eppure la meticolosità con cui Calvino compie ogni operazione, la giustificazione di ogni gesto che il lettore ha modo di apprezzare in tutta la sua calcolata premeditazione, fanno già presagire che qualcosa di molto importante stia sotto a questo 'rito' quotidiano: Ecco che già scendo le scale reggendo il secchio per il manico a semicerchio, attento a che non dondoli tanto da ribaltare il carico. Il coperchio di solito lo lascio in cucina: scomodo accessorio, quel coperchio, che male si destreggia tra il compito di nascondere e quello di levarsi di mezzo appena c'è da buttare dentro della roba [3]. È la «rappresentazione quasi fotografica, spassionata, meticolosa di cose concrete e familiari (i piatti, il lavastoviglie, il secchio di plastica, il bidone di zinco, il cartoncino e l'autocarro degli spazzini, le pagine accartocciate o coperte di cancellature)» [4]. Nel travaso dei rifiuti dalla pattumiera di cucina color verde pisello alla più grande poubelle del garage di color «grigio-verde scuro da uniforme militare», e nel trasporto di questa fuori dalle mura casalinghe – a favorire l'intervento dei netturbini – Calvino si sente «primo ingranaggio d'una catena d'operazioni decisive per la convivenza collettiva», riconoscendo la sua «dipendenza dalle istituzioni senza le quali morrei sepolto dai miei stessi rifiuti nel mio guscio d'individuo singolo, introverso e (in più d'un senso) autista». «La poubelle è lo strumento per inserirmi in un'armonia, per rendermi armonico al mondo e rendere il mondo armonico a me». La poubelle agréée, dunque, ci spiega Calvino, non è solo un termine tecnico per indicare la pattumiera conforme ai regolamenti prefettizi, quella prescritta dalle leggi municipali affinché, di un certo uniforme colore (verde scuro), col coperchio ben chiuso e di plastica, non risulti di danno a nessuno dei sensi, vista, olfatto e udito. Questa poubelle finisce per essere gradita, cara, anche perché, a dispetto del suo contenuto, o forse proprio a causa di esso, permette di assolvere un compito di grande valore sociale. C'è un pactum ben stabilito e vitale per la collettività dietro l'aggettivo agréée: non è quindi solo un fatto di autostima o di considerazione all'interno del nucleo familiare, la possibilità di inserirsi o meno lodevolmente in un concerto di azioni domestiche e di far recuperare scampoli di credibilità alla periclitante immagine del pater familias («È per essere io privatamente agréé che sto manovrando la pubblicamente agréée pattumiera, agréé io nel contesto casalingo, nella tacita distribuzione dei ruoli domestici, nell'orchestrazione della suite quotidiana della sussistenza familiare»); è invece l'aspetto sociale che finisce per prevalere su quello prettamente individuale-familiare, quando, per interpretare l'espressione "poubelle agréée", il francese lascia spazio all'inglese: È il verbo inglese to agree che invade il campo: è per rispettare un agreement, un patto concordato per mutuo consenso delle parti, che io sto posando questo oggetto su questo marciapiede, con tutto ciò che implica l'uso internazionale della parola inglese [5]. Un agreement con la città, sotto il quale sta la necessità non solo di liberarsi fisicamente di una mera quantità di scarti che impedirebbe alla vita di proseguire, ma anche di rapportarsi con quel processo di smaltimento dei rifiuti che risulta in qualche modo consustanziale alla vita stessa, in una sorta di tensione eraclitea tra vita e morte, nuovo e vecchio, tra ciò che si scarta e ciò che rimane. Raggiunta questa consapevolezza filosofica (d'altronde a colpire in questo scritto, «nel breve giro d'una confessione signorilmente autoironica […] è la quantità di considerazioni personali, sociologiche, filosofiche che vi sono condensate» [6]) ecco che da contratto il ciclo di enlèvement des ordures assurge persino al grado di rito, di rito purificatorio: Il portare fuori la poubelle va dunque interpretato contemporaneamente (perché così lo vivo) sotto l'aspetto di contratto e sotto quello di rito […] rito di purificazione, abbandono delle scorie di me stesso, non importa se si tratta proprio di quelle scorie contenute nella poubelle o se quelle scorie rimandano a ogni altra possibile mia scoria, l'importante è che in questo mio gesto quotidiano io confermi la necessità di separarmi da una parte di ciò che era mio, la spoglia o crisalide o limone spremuto del vivere, perché ne resti la sostanza, perché domani io possa identificarmi per completo (senza residui) in ciò che sono e ho. Soltanto buttando via posso assicurarmi che qualcosa di me non è stato ancora buttato e forse non è né sarà da buttare [7]. C'è bisogno, è vero, di una separazione netta tra ciò che è da gettare, da allontanare, e ciò che invece va conservato e tenuto nel circolo vitale. Ma solo prendendo coscienza di ciò che stiamo espellendo per sempre dai nostri confini riusciamo, valorizzando l'atto deiettivo, a caricare ciò che resta di un surplus di senso e di sostanza («La poubelle agréée: gradita in primo luogo a me, ancorché non gradevole; come è necessario gradire il non gradevole senza il quale nulla di quel che ci è gradito avrebbe senso»). Il discorso di Calvino, partito da semplice resoconto diaristico della vita domestica, conosce a tratti impennate gnomiche che sconfinano nel campo ontologico («Il buttar via è la prima condizione indispensabile per essere, perché si è ciò che non si butta via»), fatte salve, a brevissima distanza – come capita spesso alla scrittura di Calvino – escursioni nel campo del comico-basso corporeo. Ma qui l'inserzione scatologica, oltre ad una funzione umoristica, serve per collegare macrocosmo e microcosmo, la funzione di deiezione dei rifiuti domestici, nel grande ventre della città, e quella della propria defecazione, che, lasciando liberi gli intestini, consente una reale ispezione del proprio autentico essere: La soddisfazione che provo [buttando via i rifiuti casalinghi] è dunque analoga a quella della defecazione, del sentire le proprie viscere sgombrarsi, la sensazione almeno per un momento che il mio corpo non contiene altro che me, e non vi è confusione possibile tra ciò che sono e ciò che è estraneità irriducibile. Maledizione dello stitico (e dell'avaro) che temendo di perdere qualcosa di sé non riesce a separarsi da nulla, accumula deiezioni e finisce per identificare se stesso con la propria deiezione e perdervisi [8]. Bisogna liberarsi di una parte di noi per poter dare spazio sempre a nuove forme, alla nuova vita – dice Calvino – come, sull'esempio del racconto Funes o della memoria di Borges, possiamo ricavare che è lo scarto della memoria, l'oblio, a innestare il pensiero. Calvino utilizza la metafora del rito purificatorio: «l'enlèvement des ordures ménagères può essere anche visto come un'offerta agli inferi, agli dei della scomparsa e della perdita, l'adempimento di un voto (ecco ancora il contratto). Il contenuto della poubelle rappresenta la parte del nostro essere e avere che deve quotidianamente sprofondare nel buio perché un'altra parte del nostro essere e avere resti a godere la luce del sole, sia e sia avuta veramente». E questo rito di purificazione quotidiana diventa anche modo di esorcizzare la morte, di allontanare il più possibile quel momento in cui ci identificheremo a pieno con quelle scorie prima solo da noi prodotte: Questa quotidiana rappresentazione della discesa sottoterra, questo funerale domestico e municipale della spazzatura, è inteso in primo luogo ad allontanare il funerale della persona, a rimandarlo sia pur di poco, a confermarmi che ancora per un giorno sono stato produttore di scorie e non scoria io stesso [9]. Per questo gli ufficiali di questo quotidiano "rito di purificazione", i netturbini, coloro che impediscono che la nostra città si trasformi in un «infetto latamaio», sono definiti da Calvino «emissari del mondo ctonio», «caronti d'un al di là di carta unta e latta arruginita», ma pure «angeli […] annunciatori d'una salvezza possibile al di là dello sfacelo d'ogni produzione e consumo, affrancatori dal peso dei detriti del tempo, neri e grevi angeli della limpidezza e leggerezza». E non importa qui sottolineare l'importanza che questo valore, la "leggerezza" appunto, ricopre nella poetica dell'autore delle Lezioni americane. Qui interessa soprattutto rilevare come Calvino, pochi anni prima, avesse già parlato nei medesimi termini dei "netturbini" nella sua città invisibile dove l'assillo dello smaltimento dei rifiuti è posto come il tratto peculiare dei cittadini. Stiamo parlando della città di Leonia (anche se il tema del rifiuto e dello scarto è centrale anche per la città di Moriana e di Clarice), dove «gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell'esistenza di ieri è circondato d'un rispetto silenzioso, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta buttata via la roba nessuno vuole più averci da pensare» (nostro il corsivo). Nel saggio La poubelle agréée la figura dell'angelo della spazzatura serve a Calvino per far virare il discorso dal suo iniziale approccio antropologico verso considerazioni di tipo economico-sociale e, più in generale, politico. Da un punto di vista meramente classista, il borghese Italo Calvino produttore di rifiuti e gli éboueurs che «affiorano dalle nebbie del mattino» per smaltirli («i Nordafricani – un po' di baffi, uno zuccotto in capo; o – quelli dell'Africa nera – solo il bulbo degli occhi che rischiara il viso perso nel buio») appartengono a due mondi nettamente distinti: Il mio rapporto con la poubelle è quello di colui per il quale il buttar via completa o conferma l'appropriazione, il contemplare la mole delle bucce, dei gusci, degli imballaggi, dei contenitori di plastica riporta la soddisfazione del consumo dei contenuti, mentre invece l'uomo che scarica la poubelle nel cratere rotante del carro ne trae la nozione della quantità di beni da cui è escluso, che gli arrivano solo come spoglia inutilizzabile [10]. In questa realtà – che nella sua "veste" italiana alcuni nostri intellettuali, come Pier Paolo Pasolini dalle colonne del "Corriere della Sera", avevano sotto la loro lente d'ingrandimento proprio in quegli anni – un'analisi classista della società sembra risultare agli occhi di Calvino ormai sterile, dal momento che, non sembrando più essere nessun tipo di uomo al centro e padrone del sistema di produzione, produttore e consumatore si ritrovano entrambi ai margini del grande apparato capitalistico. Se, come scrive ancora Calvino, il processo industriale di produzione e distruzione» si rivela per quello che è, ovvero un «sistema che inghiotte gli uomini e li rifà a propria immagine e somiglianza», non importa più tanto chi ora riempia i cassonetti e chi ora li svuoti, perché visto che la «piramide sociale continua a rimescolare le sue stratificazioni etniche», si può star certi che «l'essere stato assunto come spazzino è il primo gradino d'una ascesa sociale che farà anche del paria di oggi un appartenente alla massa consumatrice e a sua volta produttrice di rifiuti, mentre altri usciti dai deserti "in via di sviluppo" prenderanno il suo posto a caricare e scaricare i secchi». In questa nuova dimensione in-umana perde tutta la sua "aura", assieme alla sua dimensione sociale ed ontologica, il ciclo di smaltimento dei rifiuti. Non è più possibile il compimento del ciclo vitale che invece era proprio del processo agricolo, dove «ciò che era sepolto nella terra rinasceva»: nell'età del consumismo dove spadroneggiano i contenitori in plastica, i rifiuti crescono in maniera direttamente proporzionale al ciclo di produzione dei prodotti, secondo equilibri e dosaggi stabiliti dal "Dio Capitale", non più garantiti dalla "madre" Terra: «Inutilmente rovesciamo, io e lo spazzino, la nostra oscura cornucopia, il riciclaggio dei residuati può essere solo una pratica accessoria, che non modifica la sostanza del processo. Il piacere di far rinascere le cose periture (le merci) resta privilegio del dio Capitale che monetizza l'anima delle cose e nel migliore dei casi ce ne lascia in uso e consumo la spoglia mortale». Ragione per cui la poubelle, a conti fatti, finisce per essere "gradita" non più al municipio, non più al produttore di rifiuti che sente l'utilità sociale e quasi "esistenziale" dell'operazione che sta svolgendo, ma «più ancora all'anonimo processo economico che moltiplica i prodotti nuovi usciti freschi di fabbrica e i residui logori da buttar via, e che ci lascia metter mano solo a questo recipiente da riempire e svuotare, io e lo spazzino». Ennesima, dolorosa presa di coscienza dell'alienazione dell'uomo moderno, o capitolo dell'alienazione narrato sub specie immunditiae. In un sorta di comico ribaltamento, sembra quasi che siano diventati i rifiuti (o meglio, le merci-rifiuti, tanto per sintetizzare il ciclo) i fruitori della poubelle, e gli esseri umani – nella doppia versione di riempitori e svuotatori – i semplici esecutori materiali, automi diligenti di un processo eterodiretto. Ad una sorta di trionfo dei rifiuti, di mondo capovolto, del resto (anche se in una maniera da fiaba eroicomica, quali sono le Cosmicomiche), si assiste anche nei due racconti inclusi ne La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche che hanno a che fare col tema della spazzatura. Nel racconto Le figlie della luna, il Giorno del Ringraziamento del Consumatore, lungo le strade di Manhattan, sfilano da una parte il corteo del Cliente Soddisfatto, organizzato da un grande magazzino per dar modo alla sua clientela di «manifestare la propria gratitudine verso la Produzione che non si stancava di soddisfare ogni suo desiderio»; dall'altra, invece, una Luna scrostata ed ammuffita guida un corteo di macchine massacrate, di scheletri di camion, che si arricchisce pian piano di persone, soprattutto negri e portoricani di Harlem. Quando si incontrano è la sfilata degli scarti, dei rifiuti, dei relitti (e derelitti) a inglobare quella del Nuovo e del Consumo, come in algebra il segno negativo sopraffà quello positivo: A Madison Square una sfilata incrociò l'altra: ossia ci fu un solo corteo. «Il Cliente Soddisfatto», forse per una collissione con la puntuta superficie della Luna, scomparve, si trasformò in un cencio di cauciù […] Non si capiva più quali fossero le vecchie [macchine] e quali le nuove: le ruote storte, i parafanghi arrugginiti erano mescolati con le cromature lucide come specchi, con le verniciature di smalto. E dietro al corteo le vetrine si ricoprivano di ragnatele e di muffa, gli ascensori dei grattacieli si mettevano a cigolare e a gemere, i cartelloni pubblicitari ingiallivano […]. La città aveva consumato se stessa di colpo: era una città da buttar via che seguiva la Luna nel suo ultimo viaggio [11]. Nel racconto I meteoriti invece, ambientato su una Terra «ancora piccola» che «si poteva spazzare e spolverare tutti i giorni», il vecchio narratore e protagonista Qfwfq divorzia dalla moglie Xha, fautrice [11]dell'ordine e della pulizia costante, per risposarsi con la ragazza Wha, che si sente perfettamente a suo agio nel disordine, e tra i rifiuti e gli scarti che non smaltisce costruisce il suo habitat. Ma nella chiusa del racconto, dopo averle perse entrambe, Qfwfq deve ammettere che «basterebbe riaverle tutte e due insieme un solo momento per capire» [12]. C'è insomma una complementarietà tra il disordine dei rifiuti ammucchiati e l'ordine conseguente al loro smaltimento: tra questi due stati contrastanti si crea una tensione irrisolta e latrice di un senso nascosto. Quel senso che riesce a sprigionare la creazione artistica, al termine di un'estenuante battaglia tra minute da gettare e bella copia, tra errori e correzioni, tra appallottolamenti e riscritture, seguendo un processo di successive elaborazioni reso possibile grazie all'eliminazione del superfluo, dell'inessenziale. Scrive Calvino al termine de La poubelle agréée: Scrivere è dispossessarsi non meno che il buttar via, è allontanare da me un mucchio di fogli appallottolati e una pila di fogli scritti fino in fondo, gli uni e gli altri non più miei, deposti, espulsi [13]. E poco prima aveva detto: Questi miei pensieri che leggete sono quanto s'è salvato di decine di fogli appallottolati nel cestino [14]. Il prodotto letterario è dunque ciò che rimane al termine di lunghi processi di eliminzione di rifiuti, di scarto, di superfuo, in una concezione, si potrebbe dire, michelangiolesca del fare artistico, – ovvero in continuo "levare", in continua sottrazione da una materia muta. E non è un caso che l'articolo di Calvino finisca proprio con l'esibizione (che ad altri scrittori potrebbe parer sconcia) degli appunti preparatori buttati giù dall'autore e servitigli come "scaletta", le scorie della scrittura primigenia che è stata eliminata dando però i suoi frutti. Questo rovesciare sul tavolo di lavoro il cestino contenente le bozze di scrittura e lasciare che esse mettano fine alla sua fatica rappresenta un grande omaggio ai rifiuti e al potenziale creativo implicito in ogni loro consapevole, "ragionata" deiezione. Nell'atto artistico, dunque, l'uomo che ha sperimentato la propria alienazione nella catena di smaltimento collettiva può tornare ad essere consapevole padrone del proprio privato processo di deiezione Tema della purificazione delle scorie il buttar via è complementare dell'appropriazione inferno d'un mondo in cui non fosse buttato via niente si è quel che non si butta via identificazione di se stessi spazzatura come autobiografia soddisfazione del consumo defecazione tema della materialità, del rifarsi, mondo agricolo… [15]. Alla fine si scopre dunque che, se c'è una stretta affinità tra le motivazioni del pater familias che ogni sera elimina la spazzatura dalle mura di casa e quelle dello scrittore che lavorando quotidianamente a espellere le scorie della scrittura arriva – a volte nel corso di anni – a licenziare finalmente un testo definitivo e soddisfacente, altrettanto non si può dire guardando i risultati: il Calvino agens, ovvero il Calvino netturbino domestico, viene schiacciato dal cumulo dei rifiuti, prendendo coscienza del processo di alienazione in atto nel sistema consumistico; il Calvino auctor invece alla fine trionfa, domina i rifiuti prodotti dalla propria scrittura, portando così a termine il saggio (anche se, con l'autoironia che gli è propria, l'autore fa aleggiare il sospetto di una "vittoria di Pirro"). Così che nel finale Calvino deve ammettere, analizzando il diverso tipo di assimilazione di ciò che si salva dalle due poubelle: Capisco ora che avrei dovuto cominciare il mio discorso distinguendo e comparando i due generi di spazzatura domestica, prodotti della cucina e della scrittura, il secchio dei rifiuti e il cesto della carta straccia [16]

sabato 1 novembre 2014


Jesus di Babilonia Teatri Posted by Renzia D’Incà Vicenza In una fase in cui la Rete, l’under 25 di fascia geografica cristiano-centrica, si appassiona a certe vignette sul Cristo e la cristologia fino a farne un cult apocrifo- Toc toc, chi è? Dio. La mamma mi ha detto di non aprire a cani e porci- oppure si spalma su Ipad, effe book, Iphone, video su you tube di Lady Gaga coi crocioni al petto, improbabilissime icone Harley Davidson per la new poor italian generation, collanine del rosario alla moda dei maschi greci isolani e simbologie sadomaso cadaveriche(ma non lo faceva anche Madonna, la cantante, a suo tempo e con altri più rozzi mezzi mediatici?). e che dire a commento della moda dilagante delle disco-cristoteche (che sempre al tecno house siamo da vent’anni)? e allora, che fare? certo, mettere al mondo e poi far crescere ed educare- oggi- un bambino nella confusione dei simboli-archetipi multimediali, non è affatto come bere o affogare dentro una tazza di tè, per dirla alla Mannarino? altro che Lipton o Twining delle madri o nonne mediamente borghesi. Che così incomincia l’affabulazione in salsa rapper a due- la coppia genitoriale di questo Jesus dei Babilonia Teatri, nella cornice di quell’architetto che fu Palladio, dentro una location teatrale unica al mondo: il Teatro Olimpico di Vicenza(per la microstagione vicentina a direzione artistica di Emma Dante e dopo la prima modenese ). E’Jesus : in scena irrompe l’energia a tutto tondo di un bambinetto età dell’asilo –l’Ettore, anche figlio della coppia in scena Valeria Raimondi e Enrico Castellani in jeans e magliette con stampigliato sopra il logo 33 (che a quell’età, pare-sia morto Gesù). La coppia genitoriale affronta in un monologante doppio il tema, con in braccio un imbarazzante pallone-pancione da basket – a volte in palleggio: Gesù chi è costui? e giù tutta una serie di slogan sulla iconografia-iconoclastia a partire dalla pubblicità invasiva ed invadente di questo ingombrantissimo Figlio dell’occidente cristiano, ma alla maniera del duo performers Raimondi /Castellani a cui Babilonia ci ha abituati - in doppio cantilenato. Certo da Chi mi ama mi segua della pubblicità (targata Oliviero Toscani)sui cartelloni di certi jeans primissimi anni Settanta, ne ha fatta di strada il brand del “crocifisso”. Parte una micro sezione- a cui ne seguiranno altre-di testualità dove è tutto un incrociarsi di meta-narrazioni sulla cristità. Il plot narrativo si snoda alternato a pezzi musicali pop al limite della banalità (attualissima e generazionale) e dal Vasco Rossi al Personal Jesus dei Depeche mode, mentre il bambino chiede (si chiede?) papà mamma perché Cristo muore? perché si nasce e poi si muore? magari ammazzati come Gesù? difficile pensare che queste siano domande che si pone un bimbetto di quell’età. certamente se le pongono i genitori di quel bimbo nella loro funzione, appunto, adulta-genitoriale. Anche nella scena, fissa, l’unico riferimento è un neon scomponibile/ ricomponibile formato da paroline dell’alfabeto, modello scuole elementari d’antan o di certa arte concettuale (che scorre con richiami da Alighiero Boetti a Cattelan), certo non quelle attuali del bimbo dell’asilo. Ecco che allora questo nuovo lavoro di Babilonia sembra voler rimandare ai temi di Vita versus Morte (ma anche eros-thanatos visti in Lolita) di cui ci siamo appassionati-quasi un rilancio in chiave post regressiva del Pinocchio (dove il tema era quello del coma e della sopravvivenza alla tragedia dell’incidente stradale che avrebbe potuto essere mortale ma che invece trasferisce ad un’altra dimensione pur sempre vitale, anche nelle sue limitazioni fisiche s/oggettive) e può far pensare ad un inno naturalistico alla prevalenza della corporeità e ad un darwinistico principio di élan vital o dell’equivalente del classicissimo amor vitae. Chissà, forse la risposta genitoriale alla domanda (?) del (loro figlio) che il loro Bambin Gesù, si trasforma in risposta esistenziale della coppia: non vogliamo un Cristo martirizzato ma un personal Jesus, un Paradiso in terra. Uno spazio dopo la cacciata di Adamo ed Eva ma hic et nunc, materiale, dove il corpo può avere dimensione di splendore e luce come la vita e la sua trasmissione attraverso la copula-insomma, il dionisiaco e|ma senza peccato originale? Un messaggio anti-intellettualistico che può lasciare perplessità. La sensazione del non-finito. Insomma, non che un spettacolo debba dare risposte, altri spazi politici e sociali dovrebbero darceli, a noi adulti e come semplici spettatori e persone. Credo , da non credente, che questo dei Babilonia ancora non sia un lavoro definito- il volo finale del corpo come utopia finale sia del bambino Jesus sull’altalena della vita come quello del risvegliato dal coma del precedente Pinocchio, non mi convince. Purtroppo. Tuttavia come soluzione artistica può essere e neanche troppo esotericamente un’ipotesi validissima. Quantomeno della speranza. Visto a Vicenza, Teatro Olimpico, 25 ottobre di Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Vincenzo Todesco con Enrico Castellani e Valeria Raimondi Scene e luci di Babilonia Teatri ( Luca Scotton) Costumi Babilonia Teatri (Franca Piccoli) Produzione Babilonia Teatri in coproduzione con La Nef/ Fabrique des Cultures Actuelles Saint Dié-des Vosges (France) e MESS International Theater Festival Sarajevo (Bosnia and Herzegovina) in collaborazione con Emilia Romagna Teatro Fondazione con il sostegno di Fuori Luogo La Spezia con l’Associazione ZeroFavole- Alta Mane Italia Spettacolo scelto da Emma Dante per il 67esimo Ciclo di spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza

martedì 28 ottobre 2014


Teatro recensione — 22/10/2014 19:22 Una ieratica Alcesti per una convicente regia e interpretazione al femminile Posted by renzia.dinca RUMOR(S)cena FIRENZE - Il segno e filo conduttore di Alcesti per la regia, adattamento (e traduzione) di Massimiliano Civica, sembra essere quella della consegna alle due attrici in scena: Daria Deflorian e Monica Piseddu , del tratto asciutto della ieraticità. Ne risulta una solo apparente rottura del canone spazio-tempo-azione attraverso un raffinatissimo scalpello registico che interseca, crepandola, la magistralità della tradizione della tragedia classica. Civica si inventa uno spazio/ tempo/ azione con coordinate altre, fuori sia dal tentativo di ri-attualizzazione dei temi (a quante operazioni di questo tipo abbiamo assistito) ed insieme oltre la dimensione ordinaria che è della tragedia greca. Perché rompere lo schema della drammaturgia, inserendola in un panopticon –una piccola porzione ma architettonicamente emblematica di uno spazio ristrutturato di ex carcere cittadino, a Firenze; quello delle Murate recuperato alla vita del quartiere, contenerlo e riproporlo per circa un mese, ogni sera e senza intenzioni (o volontà) di prospettive di tournée, è rilanciare una sia pur piccola ma: provocazione. Che a mio avviso si pone anche a livello semiotico oltre che su quello puramente a impatto teatrale. Viene da citare il lavoro del filologo e antropologo Maurizio Bettini dell’Università di Siena, che ha da molti anni ha portato avanti questa linea guida rispetto al ripensare ai classici non quali nostri contemporanei, come spesso insegnano nei licei-e non solo, ma come pensiero di un simbolico altro e anche assai lontano da quello della nostra attualità. Alcesti Le sensazioni evocate alla visione del lavoro di Civica sono quelle del freddo, della rarefazione, dell’ antinaturalismo delle azioni sceniche-lentissime, quasi a pre e post commento della parola enunciata o quasi a mò di soffiato neutro, completamente privo di espressività. Gestualità essenziale- da cerimoniale orientale-con uso di maschere certamente distantissime dalla tradizione italiana della commedia. Segni ambigui, insomma a cui poco la scena italiana è avvezza. Segni di ricerca affilatissima e di rimandi polisemici. Domina, regnante, il corpo-voce delle attrici (Monica Demuru è la terza, una sorta di mono/coreuta però fuori asse rispetto al minuscolo spazio di una pedana con cassettiere, le due reciproche, dove sono riposte maschere e cintole per cambio costume en plein air). Monica Demuru offre un’interpretazione molto convincente con le sue melopee dai richiami mitici, ecco solo forse e qui che esultano-fiochi- pochi richiami al mito tragico greco dalla tradizione ed in totale de/centralità dentro una scena inesistente basta e avanza lo spazio panopticon carcerario a segnalarne le urgenze significative). Alcesti 3 Altrettanto superbe interpreti sono Daria Deflorian (Admeto e altri tre personaggi, con maschere), e Monica Piseddu (Ercole e altri personaggi della tragedia classica euripidea), e niente ha più in comune con la contemporaneità nella rilettura di Civica: le attrici multimaschere in quanto portatrici in scena di personaggi che nello scambio dei ruoli-quali a|settiche incarnazioni di essenze-presenze sceniche, risultano secche, quasi disossate, senza diventare manichini- maschere. Queste donne|schermo, richiamano a doppi di doppi (donne|attrici multimedia che interpretano, a scambio, ruoli di ruoli, e pur ruoli nello scambio macabro della vita/ morte/ resurrezione) sullo sfondo- carcerario della Casa. già, la casa. quale casa? Quella della famiglia, dell’ospite o dell’Ade? O anche della casa-teatro-carcere? Qui si possono ri-trovare echi di teatro che attinge ad una tradizione colta di teatro antropologico di scuola occidentale novecentesca. Visto alle Murate Firenze, 3 ottobre 2014 Uno spettacolo di Massimiliano Civica Con Daria Deflorian, Monica Piseddu, Monica Demuru E con Silvia Franco Maschere Andrea Cavarra Costumi di Daniela Salernitano Produzione Fondazione Pontedera Teatro e Atto Due in collaborazione con il Comune di Firenze e con Rialto Sant’Ambrogio di Roma e Parco Le Murate Centro Servizi- Firenze Spettacolo per venti spettatori In replica fino a domenica 26 ottobre 2014, Alcesti 5 FacebookTumblrPinterest Tags: Alcesti Daria Deflorian featured Massimiliano Civicarenzia.dinca Autore: renzia.dinca Si è laureata all’Università di Pisa. Giornalista dal 1985, ha collaborato con Hystrio, Sipario, Rocca, Il Grandevetro, Il Gazzettino di Venezia, Il Tirreno, La Nazione, Il Giorno, Sant’Anna News. Lavora come consulente in teatro e comunicazione. Ha condotto ricerche universitarie per le riviste Ariel e Drammaturgia e svolto tutoraggio di master universitario di Teatro e comunicazione teatrale per l’Università di Pisa. Ha pubblicato in poesia Anabasi (Shakespeare & Company, Bologna 1995), L'altro sguardo (Baroni, Viareggio 1998), Camera ottica (ivi, 2002), Il Basilisco (Edizioni del Leone, Venezia 2006) con postfazione di Luigi Blasucci, L'Assenza (Manni-Lecce 2010) con prefazione di Concetta D'Angeli, Bambina con draghi ( Edizioni del leone, Venezia 2013) con prefazione di Paolo Ruffilli. È inserita nella rivista Italian Poetry della Columbia University.Come saggista teatrale il volume Il teatro del cielo (Premio Fabbri 1997), Il gioco del sintomo (Pacini-Fazzi, Lucca 2002) su un’esperienza di teatro e disagio mentale, La città del teatro e dell'immaginario contemporaneo (Titivillus, Corrazzano 2009), Il Teatro del dolore (Titivillus 2012), su una esperienza ventennale di teatro e disagio mentale presso La Città del teatro. Per Garzanti uscirà un saggio sul Metodo mimico di Orazio Costa. Come autrice di teatro sono stati rappresentati Ars amandi-ingannate chi vi inganna ed uno studio per Passio Mariae con video di Giacomo Verde. Collabora come performer con musicisti, tra i quali il maestro Claudio Valenti, che hanno composto brani inediti sui suoi testi ispirati al Il Basilisco e L'Assenza. © Copyright 2014 — Rumor(s)cena . Tutti i diritti riservati - contatti: direttore@rumorscena.it Rumor(s)cena è iscritto al nr. 4/11 del Registro Stampa del Tribunale di Bolzano dal 16/5/11 - direttore responsabile: Roberto Rinaldi in redazione: Annalisa Ciuffetelli, Valentina Cirri, Renzia D'Incà, Vicenza Di Vita, Rossella Menna, Annamaria Monteverdi, Emilio Nigro, Claudia Provvedini, Paolo Randazzo, Giorgia Sinicorni, Anna Vittorio webmaster: notstudio soluzioni grafiche

Culture, Interviste, Pensieri critici — 24/10/2014 10:50 Per un Teatro Stabile in carcere a VolterraPosted by renzia.dinca RUMOR(S)cena VOLTERRA (Pisa) Il successo di VolterraTeatro è innegabile, se si scorre il lungo elenco di affermazioni riscontrate nel corso delle molte edizioni, in grado di affermarsi, soprattutto, grazie alla Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo. Il mentore e regista di un gruppo di attori detenuti della Casa Circondariale di Volterra: il “Carcere dei miracoli”, i luoghi della città abitati dall’arte, dalla musica, dalla poesia, dalla bellezza, ma anche da occhi e sensibilità nuove che hanno intercettato con la freschezza dello stupore le mille meraviglie che ogni anno, nonostante le complicazioni, nonostante l’asperità di un tempo duro votato all’individualismo sfrenato, l’associazione Carte Blanche sotto la direzione artistica di Armando Punzo, riesce a concepire e realizzare. Una formula unica al mondo di un festival d’arte che trasfigura gli spazi del carcere: dal carcere alla città, una cittadella nella città e un’altra città nella città. Un gioco di microcosmi meravigliosi. L’impossibile che diventa possibile, l’utopia realizzata. L’edizione 2014 ha visto il successo dell’ultima creazione artistica che ha dato vita ad al visionario allestimento di “Santo Genet”. Nel nome di quella poetica dell’impossibile che dopo ventisei anni è diventata grido di battaglia della Compagnia della Fortezza incarnandosi in “Santo Genet”, offrendo uno spettacolo e una promessa per la stagione teatrale che ha inaugurato pochi giorni fa il Teatro Menotti di Milano e a seguire tra pochi gioeni il Teatro Verdi di Pisa, per poi arrivare anche all’Arena del Sole di Bologna. Aniello Arena (foto di Stefano Vaja) Aniello Arena (foto di Stefano Vaja) A Volterra nel carcere si sono entrati duecentocinquanta spettatori al giorno per le repliche del palcoscenico-carcere, il tutto esaurito con liste d’attesa. 432.770 accessi complessivi e 9.596 visitatori al sito di VolterraTeatro. Dati che portano il discorso sulla creazione di un Teatro Stabile in carcere. “Pensavo di trovare un festival di teatro, pensavo di vedere spettacoli, invece ho trovato un città che è diventata essa stessa spettacolo e opera d’arte, ho imparato ad andare su e giù nei vari spazi di Volterra e a sentirmi a casa, in un tempo diverso da quello di sempre. Credo che in un’altra città tutto questo non sarebbe possibile”, così ha commentato Frank Raddatz, direttore di Teater Der Zeit, importante mensile di teatro tedesco di Berlino. Armando Punzo Armando Punzo E’ stato un festival che ha inseguito con ostinazione la volontà di testimoniare un ruolo imprescindibile dell’arte, nelle dinamiche umane di una società sempre più lacerata nei rapporti, nell’agire sopra dentro e intorno a quella “ferita” intorno a cui si è ragionato, da quando Armando Punzo ha lanciato l’idea di dedicare il festival proprio al tema della Ferita, quella della terra franata, quella umana, invisibile, dell’artista, e quella della comunità che su quella ferita ha saputo costruire, ora possiamo dirlo, un nuovo intreccio di rapporti. “Abbiamo ancora nel cuore la città, gli slarghi e i vicoli attraversati. Cogliamo questa forza di stare insieme, questa magia che il teatro ha ricreato, di unire, di proiettare. La memoria è futuro. Il segreto è cercare vincoli: la forza che li annoda è l’amore”, scrive Massimo Marino sul Corriere di Bologna, a proposito di La Ferita-Logos Rapsodìa per Volterra: l’evento di teatro collettivo a cura della Compagnia Archivio Zeta. Mercuzio_Teatro Palladium Roma (foto di Stefano Vaja) Mercuzio_Teatro Palladium Roma (foto di Stefano Vaja) VolterraTeatro vive in tempi di grandi difficoltà economiche. Cosa potrebbe essere se, invece fosse sostenuto da un efficace sostegno? L’interrogativo porta il discorso all’istituzione di un Teatro Stabile in carcere. Rumor(s)cena ha voluto chiedere a chi ha la responsabilità di amministrare la Cultura e a chi ha l’incarico politico e ai funzionari dell’amministrazione penitenziaria, quali siano le loro opinioni in merito. Un dialogo di più voci a cui vogliamo contribuire per il giusto riconoscimento di tanti anni di lavoro e di impegno artistico e soprattutto umano, con l’unico scopo di permettere a persone detenute e non, un ruolo significativo e partecipativo, offrendo loro un’opportunità capace di contribuire ad una crescita morale civile e artistica. Sono contributi a cui si vuole dare impulso ad un dibattito in grado di estendersi , convinti di attribuire il giusto riconoscimento ad una realtà artistica di cui l’Italia stessa dovrebbe vantarsi e sostenere. Un Teatro Stabile per la Compagnia della Fortezza, significherebbe dare continuità e sicurezza istituzionale alla straordinaria esperienza artistica e professionale che in 26 anni ha trasformato radicalmente il carcere di Volterra. Costruire una rete di città toscane ed europee, che contribuiscano materialmente alle attività della Compagnia e si impegnino a far pressione sul Governo italiano per l’attribuzione dello status di stabilità ad un’esperienza unica nel suo genere in Italia e nel mondo. Ne abbiamo parlato con le personalità delle istituzioni e con Armando Punzo, fondatore della Compagnia, regista, drammaturgo e negli ultimi anni anche attore nei suoi lavori insieme ai detenuti. Abbiamo raccolto i pareri istituzionali sia in ambito politico che negli ambienti dell’amministrazione della Giustizia rispetto alla richiesta del regista che da ben dieci anni risulta inevasa. Il progetto di Teatro Stabile consiste nella richiesta di realizzazione (e quindi nel riconoscimento di un percorso ben consolidato artisticamente da 26 anni) di un Teatro all’interno del carcere di massima sicurezza di Volterra, corredato da un progetto che prevede la costruzione di un prefabbricato da adibire a teatro per 250 spettatori e con funzioni di sala prove (attualmente il regista ha a disposizione una cella di tre metri per undici per poi lavorare nel cortile, quello dell’ora d’aria) e a un ulteriore proposta di utilizzo dello spazio per creare corsi di formazione educativi sia per le scuole che per le professioni dello spettacolo. Abbiamo raccolto per capire meglio di cosa si tratta, alcuni autorevoli pareri , un ventaglio di ipotesi ed impressioni che vengono sia dal mondo della politica culturale e dell’amministrazione pubblica, sia dall’amministrazione della Giustizia e osservatorio politico sullo stato delle carceri italiane. Armando Punzo Armando Punzo Sara Nocentini, assessore alla Cultura della Regione Toscana Cosa pensa dell’esperienza di Armando Punzo a Volterra e del suo progetto di Teatro Stabile? “ E’ un lavoro prezioso. L’esperienza di Punzo è nota come eccellenza artistica di arte e sociale a livello nazionale. In questo momento la Regione Toscana ha in attivo 16 progetti di Teatro in carcere dove l’elemento comune è la socializzazione. Punzo ha dato continuità ad una esperienza di 26 anni che non è un semplice spot. Riconfermiamo il finanziamento a Carte Blanche in vista dell’obiettivo di un Teatro Stabile che ha bisogno di uno spazio riconoscibile. Mi incontrerò a breve col sindaco di Volterra e col Provveditore alle carceri toscane Cantone. Tuttavia, senza la disponibilità del Ministero della Giustizia, non è possibile sapere come continuare a portare avanti questa progettualità in quanto l’autorizzazione non può arrivare dalla Regione. Del resto il Presidente Regione Toscana Enrico Rossi ha appoggiato da tempo l’idea del progetto Teatro stabile a Volterra. Sarò io stessa a cercare il dottor Cantone. Mi dispiacerebbe anche se Cantone si sentisse mortificato, laddove ci fosse una non volontà ministeriale alla realizzazione del progetto”. Marat Sade Marat Sade Carmelo Cantone, Provveditore alla carceri della Regione Toscana Da due anni lei è il Provveditore delle carceri toscane dopo aver ricoperto per ben 10 anni la carica di direttore del carcere di Rebibbia a Roma dove è stato fautore di laboratori per i detenuti fra cui quello del regista Fabio Cavalli che ha portato alla realizzazione del film Cesare deve morire , Orso d’oro al festival di Berlino 2012, firmato dai fratelli Taviani. ”E’ così, ma quel film è stato solo la punta di un iceberg rispetto alle moltissime altre attività che ho introdotto all’interno di quel carcere. La mia esperienza come funzionario del Ministero della Giustizia per la verità, è iniziata al carcere di Trieste dove sono stato vicedirettore per un anno all’inizio della mia carriera. Al suo interno sono stati realizzati laboratori tenuti da Misculin dell’Accademia della follia. In seguito sono stato per cinque anni fautore dell’esperienza del TAM, compagnia Teatro musica, di un laboratorio permanente realizzato con un gruppo di detenuti presso il carcere Due Palazzi di Padova”. Mercuzio non vuole morire Mercuzio non vuole morire Lei ha acquisito una notevole esperienza sul campo delle attività di recupero e riabilitazione dei detenuti nelle carceri italiane producendo anche numerosi materiali congressuali di documentazione del fenomeno, adesso che è diventato Provveditore alle carceri della Toscana cosa pensa in particolare e nello specifico, delle attività laboratoriali di teatro in e per il carcere in questa Regione? “Ritengo che non tutti i laboratori estesi sul territorio nazionale e regionale siano validi . E’ evidente che ci sono delle eccellenze come la Compagnia di Rebibbia a Roma e quella della Fortezza a Volterra diretta da Armando Punzo in Toscana. Penso che questi progetti abbiano inciso anche proprio pedagogicamente sulla funzione di riabilitazione, la funzione teatro all’interno di alcuni progetti in carcere ha avuto ritorni importanti da questo punto di vista. A questo proposito ritengo che il teatro in carcere sia arte-terapia, che il teatro in carcere deve essere sostenuto da teatranti di grande professionalità onde evitare inganno intellettuale: teatro come impegno etico da parte di conduttori e detenuti dove il gruppo vive l’esperienza come effettiva crescita con regole chiare per un impegno comune finalizzato ad un intento riabilitativo. Vede, quasi sempre il carcere non educa nè allo studio né al lavoro, il teatro può svolgere bene queste funzioni educando alla disciplina del singolo e del gruppo. Penso al lavoro di Cavalli, Punzo, Pedullà , Laura Salerno” Alice nel paese delle meraviglie Alice nel paese delle meraviglie Non crede che a questo punto emerga una necessità culturale, sociale e anche politica di dare riconoscimento ad una Compagnia come quella della Fortezza, dopo 26 anni di lavoro ? Cosa pensa della proposta del Teatro stabile lanciata da Punzo e anche sostenuta almeno teoricamente, da una parte della politica Toscana? “La Regione Toscana riconosce la realtà volterrana ed anche in modo sostanzioso visto che conferisce al progetto una cifra di 200 mila euro per il progetto carcere”. Mi sto riferendo ad una ipotesi di progetto che va oltre il Ministro Beni Culturali ma riguarda il Ministero della Giustizia. Le cito Punzo rispetto alla sua richiesta formalizzata di costituzione di Teatro stabile in carcere: (…)”Lavoriamo in una cella di 3 metri per 11 e allestiamo gli spettacoli nel cortile. Pensiamo a una sala di 250 posti, all’interno dell’ultimo muro di cinta del carcere, dove sarebbe più facile fare arrivare il pubblico e, per esempio, ospitare progetti di formazione con le scuole”. Secondo lei si può andare ad una effettiva ipotesi di istituzionalizzazione dell’esperienza Teatro carcere ? “Il passaggio istituzionale che vedo è quello di espandere l’esperienza trasferendola in altri istituti di pena. Quanto allo spazio più agibile dentro le mura carcerarie del Maschio, non lo ritengo praticabile: l’idea del prefabbricato? Non è possibile in quanto realizzabile su un impianto che è un Istituto penitenziario con spazi ridotti data la sua struttura architettonica di fortezza medicea. Se realizzato impedirebbe anche di praticare altre iniziative che sono state attivate dentro i progetti del carcere, come ad esempio le apericene organizzate dai detenuti per un pubblico esterno al carcere e devolute in beneficenza.” Hamlice 2010 Hamlice 2010 Franco Corleone, già deputato europeo, ex sottosegretario del Ministero della Giustizia, attuale Garante dei detenuti della Regione Toscana Può spiegare ai nostri lettori in cosa consiste il suo mandato? “L’incarico mi è stato assegnato dal Consiglio regionale toscano, carica indipendente dal Governo italiano. Si tratta di un ruolo complesso. Comprende la verifica dello stato di detenzione in carcere e nelle camere di sicurezza (gli arresti provvisori nelle caserme da parte di carabinieri e polizia). Il compito è quello di verificare lo stato dei detenuti rispetto ai principi costituzionali, all’ordine penitenziario e alle leggi specifiche, per esempio quelle inerenti al lavoro dentro il carcere, alla materia delicata della salute, secondo le competenze del SSN come, per fare un altro esempio i casi di suicidio, così purtroppo frequenti nel nostro sistema carcerario. Inoltre mi occupo dei documenti dell’OMS. L’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per le condizioni carcerarie dei detenuti nel nostro Paese, una condanna molto grave, per lo stato di diritto della situazione delle carceri italiane; insomma svolgo una funzione e di vigilanza e di denuncia in contraddittorio. Santo Genet (foto di Stefano Vaja) Santo Genet (foto di Stefano Vaja) In un momento in cui fra l’altro è vacante da tre mesi perché ancora non nominato, il Garante dei detenuti nazionale, cosa pensa della situazione delle carceri toscane per quanto riguarda i progetti culturali mirati al recupero e riabilitazione? “La Toscana presenta un quadro di grande ricchezza e di buon livello in generale con anche delle eccellenze. Fra le varie attività quella teatrale va molto bene fra i detenuti, anche a livello dilettantesco. Come anche la scrittura creativa, la lettura, il cinema. Li considero valori culturali non strettamente trattamentali ma ricostruttivi della personalità. Con l’attività teatrale si abbattono maggiormente le catene, il fare teatro assume anche funzione liberatoria, quasi un grido di “libertà”. Il Teatro in carcere dà grande ricchezza di espressività: il grande problema di chi è privato della libertà è infatti strettamente legato al corpo, quindi al muoversi liberamente”. Mercuzio non vuole morire 2011 Mercuzio non vuole morire 2011 VolterraTeatro,una esperienza che vive e resiste da ben 25 anni con la Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo. Da alcuni anni il regista rivendica e chiede di istituzionalizzare il suo lavoro coi detenuti attraverso il riconoscimento di un Teatro Stabile. Cosa pensa di questa proposta e del suo lavoro presso il carcere di massima sicurezza volterrano? “Quella di Volterra è un’esperienza unica e straordinaria per il livello artistico d’eccellenza. Ha i seguenti caratteri 1) la durata e questo perché è segnata da un filo stabile e di ricerca artistica da consentire rappresentazioni di straordinaria tessitura; 2) per il carcere dove è nato (per le lunghe pene, facilitando una vera Compagnia teatrale) e nella continuità del regista –conduttore insieme al suo staff. Mi è capitato più volte di chiedermi, vedendo gli allestimenti di Punzo: ma questi soggetti coinvolti sono attori-detenuti o detenuti-attori? Da sottosegretario alla Giustizia negli anni Novanta sono stato a Berlino con la Compagnia della Fortezza e ho potuto toccare con mano l’accoglienza entusiasta del pubblico di là. L’esperienza di Armando Punzo va assolutamente potenziata, le iniziative di questo elevato spessore culturale devono essere sviluppate come stimolo anche per gli stessi attori e per il regista. L’esperienza non deve essere semplicemente replicata ma essere messa nelle condizioni di andare ad un ulteriore passaggio progettuale”. Marat Sade Marat Sade Il Provveditore alle carceri toscane Carmelo Cantone sostiene che la proposta del Teatro stabile a Volterra è improponibile in quando non ci sono spazi adeguati per costruire un prefabbricato dentro il Maschio che accolga, secondo la richiesta di Punzo, 250 spettatori. Cantone ha dichiarato inoltre che l’esperienza del regista e della Compagnia, potrebbe essere “esportata” in altre carceri. Cosa pensa di queste dichiarazioni del Provveditore? “La trovo incredibile e inaccettabile. E’ vergognoso che sulle proposte della Compagnia non ci sia stato un approfondimento, questo già da alcuni anni dalla proposta presentata alla direzione e all’amministrazione penitenziaria. Ritengo il fatto molto grave. Personalmente ho parlato col direttore generale amministrativo penitenziario che si occupa di edilizia carceraria. Il suo atteggiamento è stato pilatesco. Vogliamo sapere cosa intendono fare. Per questo ne ho riparlato col Provveditore Cantone e lui è d’accordo, di realizzare un sopralluogo a Volterra coi tecnici. Fisserò una data per capire se ci sono le condizioni ostative oppure no per la realizzazione del prefabbricato. Sono convinto che questa esperienza volterrana senza Punzo e la sua Compagnia sarebbe stata quella di un carcere duro, e basta. Credo che la congiunzione straordinaria nata molti anni fa fra il giovane regista Armando Punzo e l’allora direttore dell’Istituto di pena Graziani sia stata un evento unico e che prima di cancellare questa storia è necessario dar vita e realizzare questo progetto di Teatro stabile per altri vent’anni, anche con altri detenuti che si avvicenderanno nel tempo. Se non diamo veste strutturata a questa storica realtà come patrimonio di istituzione totale, il rischio è che essa non abbia orizzonti significativi anche da parte della Compagnia di continuità progettuale”. piantina Teatro Stabile piantina Teatro Stabile Pensa ad un concorso di istituzioni per la realizzazione, anche finanziaria, dell’idea? “Penso per il momento, ad un concorso con altri Ministeri per avviare la progettualità. Una partnership fra soci sostenitori”. P.P.Pasolini l'elogio del disimpegno P.P.Pasolini l’elogio del disimpegno Marco Buselli, Sindaco di Volterra Lei è Sindaco a Volterra da sei anni, rieletto, cosa pensa della edizione 2014 di VolterraTeatro? Ha partecipato a qualche spettacolo dell’ ultima edizione? “In realtà no. Ho solo partecipato alla serata finale, dove ho assistito al lancio delle lanterne in Piazza dei Priori. Però ho apprezzato il logo La ferita anche come tema del festival 2014, in quanto ciò che è accaduto in questa città murata, il crollo del bastione del gennaio scorso, è stato come un attacco anche se purtroppo per niente simbolico, ma così reale e disastroso. Un colpo durissimo all’anima della città ed alla sua popolazione. Può esserci un segnale positivo nella ‘ferita’, perché il sangue, deve scorrere. Il rischio è nell’ addormentarsi, è l’assuefazione.” Ci parli dell’esperienza della Fortezza, lei è Sindaco di Volterra da oltre cinque anni, l’esperienza della Compagnia di Armando Punzo è presente da ben 25 anni. “A mio modo di vedere è esperienza unica a livello internazionale. Il Festival Volterra Teatro è un brand che si è confermato nel tempo. Il rischio è quello della ripetizione, è necessario aprirsi a percorsi nuovi. Il tema della ferita-scelto nell’edizione 2014, richiama quello della catarsi. Con il crollo del pezzo delle mura abbiamo assistito ad un sorta di pellegrinaggio dei volterrani che andavano sul luogo del disastro, come se le persone avessero perso una parte della propria identità. E’ stato quindi interessante percorrere questo tema della “ferita”in quanto filo rosso che coglieva e riproponeva un processo di individuazione sociale e appartenenza di cittadinanza entro gli spazi della città. Il teatro parla a pochi eletti tuttavia ritengo che l’esperienza del Mercuzio ( Mercuzio non deve morire, nato dentro il carcere che ha coinvolto l’intera cittadinanza) sia stata positiva e che il progetto teatrale vada mantenuto e valorizzato”. Cosa pensa della proposta che viene da più soggetti come l’assessore alla cultura di Pisa Dario Danti e in precedenza dalla assessora Scaletti della Regione, a proposito di istituzionalizzare il Teatro stabile a Volterra ? “Per quanto riguarda la questione del Teatro stabile in carcere, è necessario prima parlare di un piano economico sulla sostenibilità. Come Comune abbiamo dato la nostra partnership al progetto, ma qui si tratta di investire e non abbiamo fondi. Siamo una città di undicimila abitanti : come posso pensare, da Sindaco, di poter investire sul progetto Teatro carcere nei prossimi anni di mia pertinenza, quando è crollato a gennaio un pezzo della cinta muraria?. La questione deve diventare a questo punto soprattutto di competenza regionale e statale, inquadrando la questione dentro Carcere stabile a Volterra in quanto patrimonio culturale. Volterra teatro gode di ben 30 mila euro di finanziamenti come festival e 12 mila per la Compagnia della Fortezza. Inoltre ritengo che l’esperienza, che ha avuto riconoscimenti straordinari in Europa sia in ambito teatrale che cinematografico, debba a questo punto essere di pertinenza anche del ministero della Giustizia oltre che di quello della Cultura”. Pinocchio Pinocchio Dario Danti, assessore alla cultura del Comune di Pisa Dario Danti, lei è da poco più di due anni assessore alla cultura del Comune di Pisa, tuttavia da molto tempo ha a cuore le sorti della Compagnia della Fortezza, fondata da Armando Punzo con Carte Blanche “E’ così E da quando sono diventato assessore ho promosso un network per i detenuti-attori. Il Teatro Stabile permetterebbe di non rischiare di vedere la nostra esperienza, nata dentro il territorio della provincia pisana svanire nel nulla, in un momento storico in cui le province sono state abolite”. Lei ha lanciato questa idea, unica nel suo genere, a Firenze nel dicembre scorso in occasione della presentazione dell’autobiografia di Aniello Arena, attore detenuto protagonista di Reality di Matteo Garrone. Di cosa si tratta e cosa è accaduto nel frattempo? “La mia proposta era quella di costruire un network di città che sostenessero concretamente la Compagnia proprio partendo da Pisa, dove nel 1993 la Fortezza si è esibita per la prima volta fuori dalle mura carcerarie e dentro lo spazio cittadino dello storico Teatro Verdi (alcuni spettacoli sono andati in tournée successivamente anche a Milano, Prato, Berlino). Il nostro Teatro comunale, che è Fondazione lirica (e con in atto iniziative internazionali di Danza come il Progetto NID 2014), inaugurerà nel prossimo novembre a distanza di ben 21 anni , la stagione di prosa con Santo Genet , ultimo lavoro di Punzo visto quest’anno, ma solo da poche persone e molti addetti ai lavori, dentro il Maschio a Volterra”. Da quanto sostiene, sembra che ci sia davvero una straordinaria continuità di progetto in atto e a lungo termine, cosa politicamente rara per il nostro Paese. “Stiamo lavorando perché questo sia così. La territorialità non deve essere un limite, anzi, deve essere un volano. E quindi io mi attivo per il massimo sostegno in Italia ed in Europa per una delle principali esperienze teatrali nazionali. La stessa Cristina Scaletti, ex assessore alla Cultura in Regione Toscana, aveva appoggiato il progetto del Teatro Stabile. Scaletti ha più volte anche sollecitato il ministero perché concedesse la stabilità considerando il progetto “ un modo straordinario di fare vivere la cultura in carcere, facendola diventare uno strumento di crescita, studio, incontro umano”. Ecco perché il mio assessorato darà il massimo sostegno alla realizzazione del progetto di Teatro stabile in Italia ed in Europa.” Silvano Patacca, direttore artistico del Teatro Verdi- Pisa Ci parla di come è nata l’idea di inaugurare la stagione di prosa 2014|2015 ( l’8 e 9 novembre) proprio con lo spettacolo Santo Genet della Compagnia della Fortezza? “Già dal primo studio su Genet del 2013 avevo fortemente voluto di poter far rappresentare anche nel nostro teatro il nuovo lavoro di Punzo. Il motivo principale è che ricorrono i 25 anni dalla fondazione della Compagnia della Fortezza ma c’è di più: il Teatro di Pisa è stato il primo teatro in assoluto ad ospitare il Marat Sade (l’occasione nacque dai permessi famigliari concessi ai detenuti-attori, dall’allora direttore del carcere Graziani). Sul palco del Teatro Verdi venne ricostruita la scenografia che riprendeva l’inferriata del cortile del Maschio,utilizzata per l’ora d’aria. Ci è sembrato estremamente significativo che dentro un teatro borghese, di tradizione, come il nostro( allora diretto da Riccardo Bozzi) fosse importata una esperienza così particolare. In realtà il lavoro di Armando dopo tutti questi anni è universalmente riconosciuto dalla critica come “lavoro sull’attore” al di là di quella che per qualcuno potrebbe sembrare essere stata una semplice esperienza riabilitativa (dentro un’ottica in senso lato di Teatro sociale) mentre secondo me è diventata, nel tempo, esperienza puramente estetica e già canonizzata dentro i termini di teatro classico”. Armando Punzo, direttore artistico di Volterrateatro e regista della Compagnia della Fortezza Ci racconta la sua esperienza di 26 anni di gestione, direzione di un’esperienza così determinante per la sua vita artistica e umana? E cosa pensa a proposito della mancata realizzazione del Teatro Stabile in carcere? “Viviamo in un mondo brutale ed insensato. Creare e cercare armonia e bellezza è la sola possibilità che abbiamo. Una aspirazione ideale e concreta che ho applicato al teatro, che è diventato il mio lavoro in carcere. Un carcere-metafora che raffigura la nostra attuale esistenza e non solo un luogo della nostra attualità, della nostra contemporaneità. Ci sono artisti che hanno dipinto una natura incontaminata, in molti casi altro non era che un sogno concreto di natura umana incontaminata. In 26 anni ho incontrato tante persone in carcere, ho lavorato con tantissimi, molti di loro, avrebbero potuto avere la possibilità di scegliere di essere degli ottimi attori, altri di essere dei bravissimi tecnici. Aniello Arena è uno degli esempi lampanti di queste possibilità, attore protagonista della Fortezza, è passato al cinema con Matteo Garrone che lo ha voluta come protagonista assoluto del suo film Reality, così come Franco Felici che ha lavorato nel cinema con Marco Simon Puccioni o Jamel Soltani che è stato nel 2010 attore protagonista di uno spettacolo presentato e prodotto dal Napoli Teatro Festival o ancora Alì El Barouni che finita la pena si è trasferito in Finlandia dove ha creato una compagnia teatrale con i ragazzi a rischio sociale. Hamlice Hamlice Il mio lavoro ha dato l’avvio a tantissime esperienze di teatro in carcere in Italia. Più di un centinaio ad oggi. I progetti Europei realizzati sul tema del teatro in carcere, hanno permesso di comprendere che l’esperienza della Fortezza rimane unica per longevità e risultati. In Libano e in Cile, Zeina Daccasce e Jaqueline Romeau, dopo un periodo di lavoro con la Fortezza, hanno creato due esperienze uniche nei loro rispettivi Paesi. Per non parlare della relazione straordinaria costruita con gli Agenti del carcere di Volterra che sono diventati, per la maggior parte, sostenitori e protagonisti dello sviluppo del nostro lavoro. Quello che ci è mancato, parallelamente al successo che ci è stato riconosciuto e ai risultati straordinari realizzati, è uno spazio vero ed attrezzato, che ci permettesse di lavorare ancora più a fondo sulla formazione ai diversi mestieri del teatro dandoci anche la possibilità di mostrare, durante tutto l’anno e non solo per un brevissimo periodo estivo, i nostri spettacoli al pubblico esterno e agli studenti delle scuole della Provincia e della Regione. Insomma un luogo dove poter sviluppare concretamente tanti tipi di possibilità lavorative, naturale e giusto sviluppo delle attività trattamentali. P.P.Pasolini l'elogio del disimpegno P.P.Pasolini l’elogio del disimpegno Accanto e parallelamente a tutto ciò, si pone la naturale esigenza, dopo 26 anni di serio e continuo lavoro in tale ambito, di avere una maggiore stabilizzazione istituzionale. Questo non vuol dire più finanziamenti, ma più tutela e garanzia di continuità nel tempo. Il riconoscimento di un modello culturale e trattamentale innovativo e unico, che dovrebbe essere messo a frutto e diventare un patrimonio di tutti. Quindi, per fare chiarezza, le linee di azione del nostro progetto sono due: una maggiore istituzionalizzazione e stabilizzazione dell’esperienza e la costruzione di uno spazio teatrale attrezzato all’interno del carcere, dove poter svolgere adeguatamente svariate attività teatrali, didattiche, formative e performative. Dico adeguatamente, perché è paradossale che il carcere di Volterra, famoso in tutto il mondo per l’esperienza teatrale della Compagnia della Fortezza, sia uno dei pochi carceri in Italia non dotato di sala teatrale. La formulazione e la presentazione del mio progetto di Teatro Stabile in carcere risale a circa dieci anni fa. In successive tappe ho presentato, alla Direzione del Carcere, il progetto relativo alla fattibilità del prefabbricato, disegnato da noti architetti (un teatro da 250 posti da costruirsi sull’ultimo cortile del carcere-non dentro gli spazi noti dove avvengono gli spettacoli ), corredato anche da progetti per le scuole e per la formazione dei detenuti alle arti dello spettacolo. Il progetto dovrebbe essere stato presentato alla Cassa Ammende, un organismo del Ministero della Giustizia che con i soldi provenienti appunto dalle ammende per vari reati, finanzia progetti e strutture nelle carceri, finalizzati alle attività trattamentali, lavorative e di reinserimento dei detenuti. Da allora, pur facendo numerose sollecitazioni e reinoltri del progetto, non ho mai ricevuto nessuna risposta, in primis dalla Direzione del Carcere e neanche dalla Cassa Ammende . Il nostro progetto era, comunque, solo indicativo, ed aveva molteplici possibilità di sviluppo che potevano anche essere realizzate dall’Amministrazione Penitenziaria in prima persona. Si potrebbe pensare a tante altre soluzioni alternative, ad esempio, anche ad un Teatro di paglia, totalmente ecologico e a più basso costo, costruito con tecniche innovative e già realizzato in altri Paesi. Sia ben chiaro, che per questo progetto strutturale non ho mai chiesto finanziamenti al Comune di Volterra e tanto meno alla Regione Toscana e Provincia di Pisa. Ho sempre e solo chiesto un sostegno politico. Ciò che attendo, sono risposte concrete e motivate da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, dopo ben 26 anni di residenza come Compagnia della Fortezza-Carte Blanche, dentro il carcere di Volterra. Invece riconosco che il Ministero dei Beni e Attività Culturali ha fatto e fa la sua parte importante per sostenere il nostro lavoro. Così come, in maniera importante e fondamentale,la Regione Toscana, il Comune di Volterra e la Provincia di Pisa per la formazione. Il carcere ci ha solo permesso di entrare a lavorare, non è poco, ma non è più sufficiente. Adesso vorrei avere risposte dal Ministero della Giustizia. E’ vero che la Fortezza Medicea dove ho svolto e svolgo il mio lavoro a Volterra, ha una struttura peculiare, per ragioni strutturali storico-urbanistiche, dentro mura ciclopiche- cosa che non è in altre carceri costruite di recente in Toscana. Infatti è proprio per ovviare a questi problemi strutturali, che nel progetto da noi presentato, la struttura dovrebbe essere costruita in un cortile del carcere, “al limite” tra il dentro e il fuori, un cortile fino ad ora in disuso e usato quasi come discarica e deposito di materiali vecchi e all’interno del quale fanno bella mostra dei casottini di cemento armato usati come pompa dell’acqua, cabina elettrica, ecc., rispetto ai quali mai nessuno si è preoccupato di rilevare che arrecassero danno estetico alla Fortezza, quindi non vedo perché dovrebbe esserlo un teatro, tra l’altro prefabbricato e quindi totalmente rimovibile. La nostra prima proposta proponeva anche l’interramento di quelle strutture orribili per rendere fruibile alla città e ai visitatori quello spazio bellissimo. Armando Punzo Armando Punzo Tuttavia è inspiegabile e paradossale che dato il nostro progetto presentato da così tanti anni, non ci sia stata mai una risposta da chi di competenza. Dopo dieci anni sarebbe assurdo che mi si dicesse, dopo tutto il lavoro fatto e tutto il tempo dedicato a questo progetto, che ci sono problemi tecnici a realizzarlo in quello spazio. Anche perché nessuno ha mai sollevato obiezioni. Voglio sottolineare, che la questione che pongo non deve essere pensata all’interno di una logica localistica: credo che il mio lavoro sia noto a livello nazionale e non solo; inoltre la qualità del mio lavoro artistico è testimoniata da stampa e televisioni, da saggistica di critici teatrali e intellettuali che ne hanno scritto e riferito in abbondanza. Purtroppo la debolezza del contendere- io Armando Punzo- credo non stia negli argomenti artistici e/o culturali che ho prodotto col mio lavoro, ma risieda anche nel fatto che il tema del carcere, in questo Paese, ha scarsissimo interesse presso la comunità dei cittadini e quindi abbia ben poco peso nell’opinione pubblica, politicamente e quindi anche sulle indicazioni di voto. Ciò che mi preme è sostenere che, a distanza di dieci anni, è del tutto inspiegabile il fatto di non avere ricevuto risposte né dal direttore del carcere volterrano, né dalla Cassa Ammende nazionale: si tratta forse di una questione puramente economica? La costruzione del prefabbricato richiesto sarebbe sprovvista di copertura finanziaria rispetto al progetto a suo tempo presentato? Non credo… La Cassa Ammende ha finanziato il restauro del cortile e della torre del Maschio, un progetto che avevamo suggerito alla direzione e che è stato realizzato in totale autonomia e allo scopo di creare locali atti allo svolgimento delle attività lavorative dei detenuti. Questo progetto è stato presentato nella stessa sessione della Cassa Ammende nella quale sarebbe dovuto essere presentato il nostro, che invece è rimasto in giacenza su qualche scrivania. Perché? Ecco: è sul concreto che vorrei delle risposte. Che non sono arrivate e non arrivano. Ciò che io penso è che ci sia in atto, da tempo, una volontà di resistenza, che personalmente non comprendo: il Teatro carcere, che sto conducendo da svariati anni, è una attività trattamentale, sì o no? Qualcuno si aspetta di chiuderla, magari riducendoci allo sfinimento”. Cosa chiede in definitiva? “Chiedo solo di lavorare in condizioni che ci permettano l’evolversi del nostro percorso, anche perché noi come Carte Blanche siamo accreditati dalla Regione Toscana come “agenzia formativa” e come tale potremmo incrementare notevolmente la nostra attività e crescere sia attraverso la creazione di percorsi formativi per i detenuti legati ai mestieri del teatro: come la scenotecnica, la fonica, l’illuminotecnica, sia aprendo la formazione a partecipanti esterni al carcere che verrebbero a formarsi sia nel campo delle attività culturali in carcere che in quelle trattamentali. Possibilità queste che abbiamo sempre proposto è che sono state realizzate con la scuola, ad esempio, e negate al teatro che ha concretamente aperto il carcere di Volterra e indicato la strade da percorrere per la realizzazione di un Istituto all’avanguardia. Il nostro lavoro è stato fonte di ispirazione per tutti e messo da parte. Basta vedere che strada ha preso quello che era il nostro progetto con Sloow Food. E tornando al tema del Teatro stabile, visto che abbiamo immaginato, forti di numerose perizie professionali di ingegneri e architetti, il luogo dove costruire il prefabbricato-teatro, chiedo alle autorità: questo spazio non è forse adeguato? Se sì, perché ? manca forse di requisiti? Se sì, l’istanza va certificata e notificata dalle Autorità Penitenziarie. Il precedente capo del D.A.P., Giovanni Tamburino (Dipartimento Amministrazione Penale di Roma), si era preso carico del progetto e il Ministro di allora Cancellieri, vedeva molto positivamente il nostro progetto. Nel frattempo intanto è decaduto il Ministro e poi il Capo del Dipartimento. Quando io chiedo “un Teatro Stabile in Carcere a Volterra”, sto mettendo in atto una provocazione, una provocazione culturale, Strehler e Grassi proponevano “un teatro d’arte per tutti”, ed è questo che mi interessa”. 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È inserita nella rivista Italian Poetry della Columbia University.Come saggista teatrale il volume Il teatro del cielo (Premio Fabbri 1997), Il gioco del sintomo (Pacini-Fazzi, Lucca 2002) su un’esperienza di teatro e disagio mentale, La città del teatro e dell'immaginario contemporaneo (Titivillus, Corrazzano 2009), Il Teatro del dolore (Titivillus 2012), su una esperienza ventennale di teatro e disagio mentale presso La Città del teatro. Per Garzanti uscirà un saggio sul Metodo mimico di Orazio Costa. Come autrice di teatro sono stati rappresentati Ars amandi-ingannate chi vi inganna ed uno studio per Passio Mariae con video di Giacomo Verde. Collabora come performer con musicisti, tra i quali il maestro Claudio Valenti, che hanno composto brani inediti sui suoi testi ispirati al Il Basilisco e L'Assenza. © Copyright 2014 — Rumor(s)cena . 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mercoledì 17 settembre 2014

Renzia D’Incà
E lo chiamano ‘Teatro sociale’

Lo chiamano Teatro sociale. Se per alcuni politici è stata, qualche volta, la classificazione compassionevole di un ghetto a basso costo, per padrini cinici un marchio un po’ spregevole e per gli opportunisti anche teatranti-talvolta purtroppo, un sottobosco di sfruttamento dei soggetti deboli, per noi, critici teatrali: cos’è?
Anche alla luce delle profonde trasformazioni politico-istituzionali (il MIB/act è di quest’estate), con in atto una involuzione dell’intero sistema culturale italiano legata alla profonda crisi economica di sistema vissuta in questo momento da tutti i Paesi europei ed occidentali, come sempre, chi ne fa le spese, in scuola pubblica come in cultura, sono le fasce più deboli della popolazione. Pensiamo allora a quelle famiglie  che oltre al peso di maggior povertà in più hanno in carico disabili, fisici e mentali, persone con disturbi adolescenziali come anoressie|bulimie che poi sfociano spesso in problemi  di patologie  a carico della sanità pubblica generalista cioè tutti noi (oggi a sua volta a gran rischio di tagli). Il ruolo del teatro a differenza delle arti terapie a cui talvolta è semplicisticamente accomunato (dalle azioni di strada a Torino anni Settanta fino alla proliferazione dei teatri nei bassi napoletani anni Duemila a bonifica di zone ad alto rischio di delinquenza minorile) poteva aver assunto una valenza politica di aggregazione e di scioglimento almeno parziale dei conflitti anche a bada di territori terre di nessuno, insomma una sorta di scudo protettivo nei confronti di realtà di emergenza sociale specie giovanile in cui la valenza relazionale che è intrinseca alla pratica teatrale, ha antropologicamente assunto significativa evidenza anche storicamente documentata.
Eppure, a volte e ancora, il cosiddetto Teatro sociale (etichetta di per sé stretta a molti che l’hanno praticata ribattesimandola magari Teatro civile o talvolta Politico) come sempre, suscitata da un atto espressivo a/sociale nato e cresciuto fuori dalle economie del teatro, può essere, e talvolta diventa, arte allo stato puro.  E lo è, di fatto, da quando è nato il teatro di ricerca novecentesco (ciò vale anche per  il cinema, con esempi davvero straordinariamente interessanti degli ultimi anni in Italia- e non cito, perché non ce n’è bisogno, dato  lo spazio intellettuale in cui stiamo interagendo).
Ciò lo sa bene chi ben conosce la storia delle avanguardie nazionali ed internazionali novecentesche in cui sia autori, uno per tutti  Beckett  che frequentò le  peggiori carceri internazionali, così come artisti ed operatori che si addentrano nel provare a tessere relazioni specie in ambito giovanile e quindi  a fare cultura per recuperare soggetti a rischio nei quartieri assediati dalla delinquenza minorile, nelle zone di mafia, di spaccio, di immigrazione insomma nel disagio sociale come nella malattia, ha nutrito la propria mescolanza  narrandola in forma appunto, d’arte e spesso con risultati d’eccellenza.
Forse e non a caso, molto giovane, per istinto e per passione seguivo le primissime esperienze di Teatro carcere del regista Armando Punzo a Volterra. Ricordo l’emozione di meraviglia mista a stupore (e ditemi se queste due emozioni non sono tangibile esperienza sensibile di visione di una forma di teatro allo stato puro) provata per un Pippo del Bono ai suoi albori visto la prima volta proprio a mezzanotte nella Piazza dei Priori (allora inserito nel festival di Roberto Bacci, era il 1999 con Barboni), seguendo poi esperienze nei Convegni appena nascenti dove ho assistito ad altri lavori, ne cito due fra i tanti, quelli di Lenz Rifrazioni e di Isolecomprese, a cura di Vito Minoia e Emilio Pozzi sui Teatri delle diversità a Cartoceto, sulla scia anche di indicazioni del mio maestro (e prefatore dei volumi che poi avrei firmato per il Teatro Politeama di Cascina) Giuliano Scabia. Voglio ricordare anche l’esperienza di Teatro sociale di Viterbo dove lavorava uno straordinario primario psichiatra prematuramente scomparso (2008) allievo di Giovanni Bollea (neuropsichiatra infantile di fama internazionale) insieme al suo staff di operatori ed insegnanti  con l’associazione Eta Beta guidata dall’amatissimo allievo Giorgio Schirripa che collaborava  anche con la Neuropsichiatria infantile pisana e Stella Maris.  Con quel gruppo e anche nel carcere viterbese, ha lavorato con suoi collaboratori Fabio Cavalli proprio in concomitanza con l’esperienza di Rebibbia e del film dei Taviani.
Nel frattempo mi occupavo per studio della ciclopica, in solitaria impresa, di Orazio Costa, che di seguaci e di “barboni”, fra Roma e Firenze ne aveva e ne ha ancora moltissimi fra i suoi ex allievi  attori e registi in quanto portatori di impegno civile e sociale appreso proprio dalla lezione umanistica del grande maestro  di intere generazioni di artisti passati dall’Accademia d’arte drammatica di Roma (ne cito solo due fra i tanti: i fiorentini Alessandra Niccolini e Paolo Coccheri).
Per  quanto riguarda un’obiezione spesso sentita dalla critica, più vecchio stampo: ma con quale linguaggio dobbiamo affrontare questo Teatro sociale? per me la risposta è semplice: quello delle categorie dell’arte e dell’analisi critica di nostra pertinenza. Punto e basta. Se poi arte non c’è, pazienza, non ne scriveremo.
Perché forse  non abbiamo recensito il lavoro di Danio Manfredini, così apprezzato anche dal mondo della psichiatria?
Forse è  per questa attenzione sensibile al fenomeno che mi sono avvicinata all’esperienza da me documentata per la Regione Toscana in due distinti step ne“Il gioco del sintomo” (Pacini Fazzi- Lucca 2002, poi in ristampa  con aggiornamenti ne “Il teatro del dolore”, Titivillus- 2012 testo adottato presso la Laurea in Riabilitazione, Facoltà di Medicina-Università di Pisa, Psichiatria) esperienza ventennale presso la Città del teatro  di Cascina diretta allora da Alessandro Garzella- (e fino al 2011), condotta dal regista con malati mentali in  collaborazione con l’USL 5 di Pisa.
Strettamente collegato con i bisogni, le urgenze, le follie del quotidiano che generazioni e generazioni di donne e uomini vivono  nella propria quotidianità tuttora ed hanno vissuto fra emergenze come: guerre, fenomenologie repressive legate al Potere di turno repressivo delle differenze ideologiche, sessuali, etniche, religiose,  oltre che ai parametri di prestazione  fisica e psichica vedi diverse abilità, quello che oggi è etichettato come Teatro sociale, aveva iniziato ad assumere nel tempo nel nostro Paese una sua distinta  autonomia fra i diversi generi teatrali più in voga almeno per un più largo pubblico di teatro.
Tuttavia nella legge regionale della Toscana, che per il triennio  segna i connotati del sistema e gli organismi che godono di risorse pubbliche, non v’è traccia di quelle che sarebbero potute  essere destinate al “teatro sociale”.
Mi sono rivolta una serie di domande cruciali sul tema, il Teatro sociale appunto, qui indagato in questo consesso così atipico per la sua-almeno  apparentemente ispirata debordianeità da parte di una neorealtà  di colleghe e colleghi di diverse generazioni dentro una convergenza mobilissima e molto individualmente tratteggiata  quale questa anarcoide di Rete Critica e proprio dentro un luogo a me particolarmente caro, il Carcere di Volterra dove ne seguo  e ho recensito i primi spettacoli per Hystrio fin dal 1990.

Credo che lo sguardo di noi critici nei confronti di spettacoli definiti semplicisticamente Teatro sociale  debba rimanere molto indipendente ed in autonomia di giudizio personale e responsabile-come deve essere per deontologia professionale da parte di una categoria come la nostra, quella di giornalisti esperti di cultura che hanno avuto ed hanno esperienze di spazi sia cartacei che in web. Attenti alle mutazioni, alle riflessioni critiche sul nostro lavoro, ma anche intellettuali pronti a scendere in campo e sporcarci le mani.
Personalmente ho attraversato un percorso di ricerca decennale da osservatrice  esterna sin dal 2000 presso la Città del Teatro di Cascina dei processi di lavoro operanti in quello che era il secondo polo regionale toscano di  Teatro stabile di Innovazione ed ho visto alcune straordinarie esperienze di ricerca laboratoriali protette con pazienti psichiatrici. Da quei laboratori sono emerse due personalità di pazienti inseriti in percorsi di inserimento lavorativo come attori. Ne sono nati tre spettacoli che hanno girato in Toscana e altrove fra cui mi piace ricordare Re nudo, diretti da Alessandro Garzella.  In questi lavori ( anche descritti nel volume Il teatro del dolore) si sono mescolate le utenze psichiatriche con attori professionisti. Ci sono testimonianze tradotte in film-video molto forti di quelle esperienze laboratoriali, fra cui quella di Giacomo  Verde e di  Daniele Segre.

Perché non ricordare, a questo punto, il lavoro di Misculin?