mercoledì 10 maggio 2017


Democracy in America renzia.dinca Prato. Saggio complesso e per alcuni versi superato anche data la distanza secolare La democrazia in America scritto dall’enciclopedico studioso francese Alexis de Tocqueville, è ancora oggetto di studio universitario in Europa almeno per quanto riguarda la scienza della Sociologia di cui lo studioso è riconosciuto fra i fondatori. Romeo Castellucci coautore assieme alla sorella Claudia della transcodificazione per la scena del famoso saggio, non è certo nuovo a intraprendere operazioni culturali che sfidano l’impossibile e con questa prova d’autore incassa quindi un ulteriore dimostrazione di coraggio tesa a lasciare il segno inconfondibile della sua ricerca artistica. Ma alcuni temi trattati da Tocqueville, reduce da un viaggio in America nel 1831 da cui ha tratto materiale vivo per stendere il suo fortunato studio, sono ancora in parte attuali: le basi su cui si fonda la Carta Costituzionale degli Stati Uniti d’America, applicate alla storia di quegli Stati- almeno quelli del Nord, che come tutti sappiamo hanno proprio nelle comunità di molte nazioni europee la propria origine fondativa multietnica, sociologica, linguistica e religiosa. Le basi della Democrazia, come la migliore fra le forme possibili di governo (per il momento non ne spuntano all’orizzonte altre a garantire il massimo della libertà di partecipazione alla vita sociale e politica dei singoli cittadini), sono trattate da Tocqueville toccando argomenti scottanti ancora in discussione nei nostri Stati europei come per esempio il principio di uguaglianza (quale uguaglianza? a sinistra si discute ancora e ci si accapiglia col centro e con le destre sul tema di uguaglianza come eguaglianza delle basi di partenza). Altro tema toccato da Tocqueville è quello della Democrazia come dispotismo della maggioranza (idea cara per esempio a gruppi come lo statunitense Living della compianta Judith Malina). Inoltre in Tocqueville con gran lungimiranza, si ventila l’ipotesi della novella Democrazia americana come possibile costruzione di una società conformista e massificata. Ben pochi di questi temi (li abbiamo volutamente ridotti all’osso perché il saggio è ponderoso) ai quali i Castellucci si sono “liberamente ispirati”, sono tratteggiati nella drammaturgia in Democracy in America visto al Metastasio. O meglio: se ne ravvisano tracce qua e là dentro un lavoro teatrale di efficace polemica politica e sociale. Come accade in sperimentazioni drammaturgiche liminari multi-codice non si poteva che puntare all’estratto secco della struttura narrativa rispetto al saggio datato 1835. E di qui partiamo dall’analisi della visione scenica. Ben diciotto le attrici-danzatrici. Abbondante l’uso di musiche e suoni elettronici (a cura del musicista statunitense Scott Gibbson), in sinergia con effetti di luci, proiezioni-video in pieno stile consueto alla pratica scenica della storica Compagnia di Cesena. Il tutto si regge dentro un concentrato di minimalismo in massima distillazione rispetto al soggetto d’ispirazione. Si parte da una scena aperta dove le diciotto danzatrici sfilano come in parata militare in divisa ciascuna con una lettera dell’alfabeto che sventola a forma di bandiera che compone il titolo dell’opera Democracy in America. Soldatesse o femministe amerikane? le lettere si scambiano di posto attraverso i corpi delle donne per creare in forma di anagramma con motti e nomi di alcuni Paesi nel Mondo che sono o sono stati Teatri di guerre. Già dall’incipit c’è molto di concettuale e simbolico. La parte più consistente arriva dopo. In due distinti quadri. Nel primo una coppia di coloni, coltivatori appartenenti a comunità religiose fondamentaliste, quelle che hanno fondato, almeno in parte, l’America: i coloni puritani legati a società contadine autoctone. La lotta per il pane-nella fattispecie le patate, è improba. L’aratro è l’attrezzo che procura cibo e quindi futuro. La povera donna non regge l’affronto del mancato raccolto e si scaglia contro quel Dio su cui si fonda la sua fede e quella della comunità d‘appartenenza mentre il marito si affida comunque alla Bibbia. La donna, con uno dei tre figli portato sulla schiena dà segnali di pazzia mentre esce di scena trascinandosi dietro l’aratro. E qui parte una video proiezione di macchine con bracci meccanici in sospensione. Da questo triste episodio al femminile parte una proiezione simbolica su quella che è stata la Rivoluzione industriale e ricorda qualche fotogramma di Metropolis. Entrano in scena quindi altre donne che sbattono violentemente le chiome su una specie di altalena con una gestualità secca violenta. Non salgono e mai saliranno a dondolarsi su quell’altalena perchè nessun piacere è dato loro. Una si denuda e si macchia di vernice rossa. Perché a livello simbolico la Francia è la Marianne mentre l’America è la Statua della libertà, Donne-simulacri fortemente allegorico- simboliche in questo lavoro e mai vittoriose. Donne succubi di un Potere politico, militare o civile o religioso subito sulla propria pelle. Nel terzo passaggio e quadro finale si passa dalla passività necessariamente autodistruttiva della contadina colona che non ha né strumenti intellettuali né economici per opporsi al destino, alla rappresentazione di uno dialogo fra indigeni, Indiani d’America. Qui il tema dell’inclusione urla sonnecchiando dentro una conversazione ammaestrata e sorvegliata fra una coppia in cui l’uno prova a insegnare a tradurre all’altro il vocabolario bilingue indio-anglosassone. Mentre sappiamo bene che gli Indiani d’America sono stati sterminati. E si finisce coi due corpi scuoiati mentre un telo cala dall’alto regalando un effetto flou sui corpi delle attrici-danzatrici. Ma è questa la democrazia dell’America? È anche questa, sembrano suggerirci i due autori. Fondata anche sulla violenza e sul corpo delle donne. Il lavoro è in tournée internazionale. PRIMA NAZIONALE Liberamente ispirato a Democracy in America di Alexis de Tocqueville Testi di Claudia e Romeo Castellucci Compagnia Societas Raffaello Sanzio Musica Scott Gibbson Regia, scene, luci e costumi Romeo Castellucci con Olivia Corsini, Giulia Perelli, Gloria Dorliguzzo, Evelin Facchini, Stefania Tansini, Sophia Danae Vorvila Irene Bini, Sara Bolici, Mariagiulia Da Riva, Laura Ghelli, Virginia Gradi, Giuditta Macaluso, Sara Manzan, Sara Nesti, Cristina Poli, Elisa Romagnani, Irene Saccenti, Fabiola Zecovin produzione esecutiva Socìetas in coproduzione con deSingel International Artcampus; Wiener Festwochen; Festival Printemps des Comédiens à Montpellier; National Taichung Theatre in Taichung, Taiwan; Holland Festival Amsterdam; Schaubühne-Berlin; MC93 Maison de la Culture de Seine-Saint-Denis à Bobigny con Festival d’Automne à Paris; Le Manège - Scène nationale de Maubeuge; Teatro Arriaga Antzokia de Bilbao; São Luiz Teatro Municipal, Lisbon; Peak Performances Montclair State University (NJ-USA) con la partecipazione di Théâtre de Vidy-Lausanne e Athens and Epidaurus Festival Visto a Prato, al Teatro Metastasio, il 30 Aprile 2017

martedì 9 maggio 2017


I bei giorni di Aranjuez renzia.dinca Buti (Pisa). Scrittore, sceneggiatore collaboratore di Wim Wenders, poeta e dopo Thomas Bernhard il più importante scrittore austriaco vivente di lingua tedesca Peter Handke ha regalato al teatro testi graffianti e provocatori fra cui Insulti al pubblico (come non ricordare la versione della Compagnia della Fortezza con la regia di Armando Punzo, dentro il carcere di Volterra nel 1999) e numerosi testi narrativi e poetici. Fra questi l’enigmaticità del recente I bei giorni di Aranjuez, scritto in francese, sembra raccogliere atmosfere e personaggi de L’Assenza ma soprattutto i tratti misteriosi femminili de La donna mancina. Coraggioso mettere in scena, anzi in lettura scenica in forma di reading questo lavoro pur se pensato dall’autore austriaco, oggi settantenne, proprio come lavoro per il Teatro. Tuttavia Giovanna Daddi e Dario Marconcini, direttore storico del Teatro di Buti, hanno dimostrato davvero un gran coraggio nel mettere in scena questo testo, perché vincolati dall’Autore a proporre una lettura statica e non una mise en espace del suo lavoro narrativo (da cui è stato anche tratto il film presentato a Venezia nel 2016 diretto da Wim Wenders). Ma data l’avventura teatrale e la coerenza di scelte autorali che ha segnato le vite artistiche e individuali della coppia, in teatro e nella vita, nata nella congerie grotowskiana del CSRT di Pontedera oggi Teatro Nazionale della Toscana, non ci meravigliamo della scelta artistica, perché avvezzi a proposte dove la sfida ideativa e interpretativa è stata l’affrontare anche di recente, micropièce di autori come Beckett e Pinter. Stavolta però la testualità del lavoro di Handke è debordante, finemente letteraria, ricchissima di citazioni e di rimandi sia alla narrativa che al cinema (insomma una forma chiusa) e poneva paletti di non facile sostenibilità per reggere sulla scena anche se da parte di due attori e interpreti di lunga e comprovata esperienza, consoni alle sfide dall’asticella alta. Dunque assistiamo a un’intera ora ad alta intensità emozionale, abbacinati da una luce gialla fissa come sparata, un effetto giallo tahitiano tratto dai quadri sensuali di una femminilità (poliandrica matriarcale polinesiana alla Gauguin), che ben si sposa alle confessioni(?) della Donna-Giovanna Daddi, che accompagnerà tutto il reading. L’Uomo-Dario Marconcini e la Donna sono seduti uno accanto all’altra, di lato. Presto veniamo a intuire che i due personaggi sono l’uno sconosciuto all’altra, che hanno come sottoscritto un patto: porre domande, da parte dell’uomo alla donna- raccontami è il leit motiv che traccia tutta la prima parte del lavoro, che mai può rispondere se non con argomentazioni, tracce mnestiche vere, verosimili o forse fasulle. I due personaggi sono in realtà due monadi monologanti, privi e privati di qualsiasi rapporto reale. Non c’è nessun contatto tra i due: né amanti né amici né conoscenti. Niente di niente. E allora, cos’è che li lega? la narrazione, il gioco dell’abbandonarsi alle memorie. vere? false? chissà. Un flusso psichico che ricorda trame segrete, crittate dal sapore di trascrizioni da doppio taccuino di sedute psicoanalitiche. Ciascuno dei due allegorici personaggi L’Uomo e La Donna (come non ricordare i quattro in fuga de L’Assenza?), narra di sé ricordi, che come ben sappiamo da Freud alle neuroscienze, il Tempo trasfigura, ottunde, mistifica in un continuo aggiustamento di visioni e auto-narrazioni. Il lirismo della Natura che accoglie i due narratori esistenziali-esistenzialisti? forse, visto che anche nel film di Wenders la coppia di sconosciuti si affaccia su un giardino esuberante, una campagna amena con sullo sfondo la città di Parigi ed anche il testo originale è in lingua francese. Un giardino in piena estate, dei girasoli sul tavolino alla maniera di Van Gogh, la Donna in un leggero abito floreale: un’apparente pacificazione umana con la Natura che nello spazio del Teatro butese, a sua volta immerso in una Natura debordante fra olivi e paesaggi toscani mozzafiato, è ben sottolineato dalle casse montate in stereofonico sul primo ordine dei palchi laterali usate come sottofondo in amplificazione sonora dei rumori della vita campestre: grilli, cicale, canti d’uccelli. Spesso, i suoni durante la spettrale narrazione, diventano striduli e stridenti a loro volta nella loro ossessività pervasività-un po’ il tema del Giardino infestato dello Zibaldone di Leopardi quando la Morte e la Vita insieme si appalesano al massimo dello splendore che conosce a sua volta il marciume, a far da controcanto e commento alle parole del flusso di coscienza, lucido anche se non alla Molly Bloom della Donna. Anche qui però al femminile nel resoconto all’Uomo, si tratta di mestruazioni, deflorazione, sesso da parte della Donna-Corpo-ché la Donna risponde alle domande incalzanti del Maschio-Uomo, mentre l’Uomo che fruga-indaga, tratta, in perfetta non sinestesia o almeno non con la Donna, di Mondo esterno e di guerra (del resto lo stesso scrittore è stato in Bosnia e nei Balcani come reporter durante il conflitto dell’ex Jugoslavia anche prendendo posizioni politiche molto nette). E sull’Uomo cala, ancora, il frastuono di elicotteri, mitragliatrici amplificata dalle casse. Il paradosso Natura/Cultura è tutto incentrato sulla scrittura feroce di Handke che non dà spazio e requie alla risoluzione estetica o almeno accomodante, fra le voci che sono urla disarmanti di solitudini estreme, quella femminile e quella maschile in bilico fra giorno e notte, fra sonno-sogno e veglie. Vite che se si sono sfiorate, mai si sono incontrate. Una testualità onirica atemporale eppure vigilissima sulle contraddizioni misteriche delle vite, spesso incompatibili, di creature umane sì, ma profondamente diverse per genetica sessuale e soprattutto per incompatibilità strutturali create da millenarie pseudo culture anche e molto sessiste. La scrittura di Peter Handke ha una marcia in più, e almeno fin da La donna mancina, sul vissuto femminile contemporaneo per sensibilità, capacità empatiche di controproiezione. La corporeità-pensiero intelligenza e forte pervadenza empatica di Giovanna Daddi ne restituisce in toto, con la complice ma severa supervisione registica di Dario Marconcini, tutto il fascino misterioso e anche un po’ misterico della complessità di questo personaggio sensual-demonico per cui l’unica azione concessa all’Uomo in scena (concessa dallo stesso Autore) è: girare intorno al cerchio delle streghe- quella Strega, quella Donna. quella? ed in quale spazio-tempo che rimanda su rimandi, forse di Spagna? chissà PRIMA NAZIONALE di Peter Handke Con Giovanna Daddi e Dario Marconcini Scene Riccardo Gargiulo e Maria Cristina Fresia Luci Riccardo Gargiulo Impianto sonoro Flavio Innocenti Produzione Associazione Teatro Buti Visto a Buti ( Pisa) Teatro Francesco di Bartolo, il 29 Aprile 2017

giovedì 4 maggio 2017


L’ombra che ride”: appunti per un manifesto sulle diversità del teatro redazione.rumorscena RUMORSCENA – Nell’ambito del Festival Metamorfosi  – scena mentale in trasformazione di Brescia che si è svolto dal 14 al 26 marzo 2017, un progetto ideato e realizzato da Teatro19 con l’Unità Operativa di Psichiatria n.23 degli Spedali Civili di Brescia, il sostegno del Comune di Brescia, fondazione ASM, BCC, ANIMALI CELESTI teatro d’arte civile (Pisa) di cui Alessandro Garzella  è il direttore artistico , insieme ad Antonio Viganò direttore artistico del Teatro La Ribalta – Accademia Arte della Diversità di Bolzano, unendo le loro esperienze artistiche, accomunate dallo stesso intento, hanno redatto un manifesto dedicato alle diversità del teatro.   L’ombra che ride c’apparve in scena tanti anni fa. All’inizio pareva una persecuzione. Indecifrabile e anche un po’ maldestra. Che c’entra l’handicap col teatro? Che ci sta a fare un matto accanto a un attore vero? Noi, senza dare risposte, subito rifiutammo la prospettiva caritatevole, quella rassicurante e altruista, avvalorata da gran parte dei compagni di cammino che si sperticavano a dire: “Il teatro, comunque sia, fa bene! Il linguaggio del corpo si può usare per riabilitare, integrare, includere, inculcare qualcosa in testa a qualcuno che, poverino, capisce poco, si muove male, soffre di qualche prigionia e non ha nessuna abilità tranne la sfiga (o il talento?) di vivere in un’altra prospettiva”. La parte sana della malattia (quando il teatro riesce a farla esprimere) colpisce: fora lo schermo rassicurante dell’innocuità, è una sostanza esplosiva che, in scena, proietta le diversità che sono in tutti noi, amplificandole. E anche si presta alle strumentalizzazioni più banali o volgari. Ciascuno, ovviamente, a quel riflesso di sé, reagisce in base alla propria sensibilità e cultura. C’è un aspetto metafisico nella diversità, specie quando rompe i confini della sofferenza e pretende di esprimere benessere, bellezza, felicità, intesi come percorsi di trasformazione della conoscenza collettiva. La sincerità del sintomo, in questo processo, talvolta è insopportabile. Specie per lo spettatore che si ritiene sano. Il sintomo esprime la parte più spietata del nostro essere e, sconosciuto a noi stessi, rappresenta tuttavia un aspetto inconsapevole e sostanziale della nostra esistenza. Ci sono spettatori, critici di teatro, operatori, artisti che non reggono il confronto se vengono messi di fronte a certi comportamenti che possono riflettere parti indicibili o inaccettabili di sé. Oppure piangono, o si esaltano, spesso impropriamente. Probabilmente queste reazioni di fastidio o commozione derivano dalla rappresentazione del mostruoso che vive in ciascuno di noi. Ma come mai, ci siamo chiesti, le disabilità, in teatro, scatenano adesioni o fastidi così sproporzionati, ipocrisie sconsiderate e talvolta perfino forme di sadismo? Pian piano ha preso luce in noi l’ipotesi che, forse, la visione delle diversità in scena – che poi vuol dire espressione delle infinite sproporzioni, deformità, asimmetrie fisiche, mentali e comportamentali presenti in questo mondo – per un verso suscita gli stereotipi del pietismo e della meraviglia e per l’altro evoca i segreti e i misteri originari che il teatro da sempre custodisce in sè: in quell’atto, semplice e crudo, c’è comunque sia la pretesa di un crogiolo magico, la celebrazione di un rito laico in cui i consueti santuari di dolenza si ribaltano, rovesciando i canoni di intelligenza e bellezza sanciti dal vivere sociale. Alcuni cittadini, spettatori o artisti, di fronte a quell’atto, scoprono di avere bisogno di quell’ombra, scoprono che il teatro ha bisogno di quell’ombra, per rinnovarsi e interrogarsi sul suo agire e sulla sua funzione sociale. Negli anni novanta il teatro coi matti, dopo alcune esperienze mitiche, ai più parve un piccolo sotto mercato, un buon rifugio, una scappatoia tutto sommato comoda per sbarcare un pezzettino di lunario, o ricavarsi un porto franco, candidandosi al medagliere d’assistito. Si contano sulle dita di una mano i nomi che, in vari modi, avevano già allora messo in luce qualcosa di profondamente diverso da tutto ciò. Sono quelli che nelle carceri, nei manicomi, nelle periferie più estreme dell’emarginazione sociale hanno, più o meno segretamente, cominciato a capire che l’alterità, in sé, non ha alcun bisogno di teatro. Hanno compreso che è il teatro ad avere bisogno della sua differenza, spesso dimenticata nei botteghini, nei minimalismi culturali o negli artifici estetizzanti della post modernità. Questo ribaltamento Antonio ed io l’abbiamo appreso sulla pelle, con sensibilità, storie di vita e poetiche molto diverse tra noi ma con la stessa ostinazione, con uguale perseveranza e immotivata follia. L’ombra che ride, da ossessione, è diventata per noi un’amica inseparabile che ha trasformato la nostra visione di teatranti e, in gran parte, la nostra vita.     Alessandro Garzella Nel dif/forme c’è un balzo misterioso, uno scarto magico, una deformazione estetica davvero inseparabile dall’etica civile. E’ una scintilla che immediatamente pone il teatro fuori dalle convenzioni della borghesia. C’è una fessura, un paradosso tragico e farsesco che mette il teatro nella condizione d’essere arte o merda. E spesso è merda, magari imbellettata da un’apparente utilità sociale. Se in scena appare un’anomalia reale le potenzialità poetiche e i rischi si moltiplicano. Il ricalco o l’espulsione dell’ovvietà televisiva si fa evidente: nasce un atto simbolico che di per sé sovverte o subisce le logiche usuali dello svago. E’ come se il teatro si riappropriasse della sua unicità, trasformandosi in quel luogo mitico dove mostruosità e meraviglie s’accoppiano, attraverso opere che divengono veri e propri atti politici di eversione poetica: lontanissimi da qualsiasi celebrazione del diverso o delle diversità, noi cerchiamo di svelare, non confermare, vogliamo rompere il paradigma, mostrare un altro possibile. Trasfigurare il soggetto per passare da una sola “condizione” a una capacità di “comunicazione” risonante. Che ci fa un attore professionista accanto a un matto se non proporre la necessità di un reciproco contagio tra le tecniche e le ossessioni della vita? Da questa straordinaria potenzialità – e dai mille fallimenti che ne derivano per tutti noi – nasce l’indignazione radicale verso lo sfruttamento falsamente pietistico del dolore che a volte traspare in qualche scena, magari scimmiottando l’ipocrisia televisiva, il voyerismo culturale o il ricatto di una falsa pietà. Antonio Viganò   Insomma: se ci fosse uno statuto del teatro sociale d’arte dovrebbe essere scritto un primo articolo in cui si vieta la spettacolarizzazione della sfiga. Antonio ed io ci impuntiamo sull’indignazione perché molte volte abbiamo visto in teatro cronicizzare una malattia, magari col contrabbando terapeutico o pedagogico di qualche artista in paranoia. La presunzione e la scorrettezza, in ogni percorso artistico, sono dietro l’angolo. Sono rischi che corriamo tutti noi, quotidianamente, a partire ovviamente da chi parla. Gli unici deterrenti oggettivi sono le regole, il contesto e il motivo: quale motivazione spinge l’artista verso il sociale? quali sono i principi che condivide con la sua committenza? quali tempi e condizioni di lavoro caratterizzano il progetto? quale apertura al mondo si persegue: la sghettizzazione dalla clausura comunitaria o la difesa di una separatezza? Si condivide o no con la committenza la necessità di favorire processi di autoselezione dei partecipanti al percorso creativo? E’ chiara la finalizzazione artistica della ricerca? In che modo il progetto coinvolge il territorio? C’è un reale bisogno di confrontarsi con gli spettatori, portando a pubblici anche generalisti le forme e le domande delle nostre opere? Non vogliamo certo proporre metodologie o scuole ma vogliamo affermare con forza la necessità di condividere regole capaci di garantire potenziali di qualità avanzata: la nostra è una pratica esclusivamente artistica, solo ed esclusivamente una necessità poetica, che vuole riscattare il teatro e non il sociale. Non siamo il teatro dei diversi: apparteniamo ad una storia importante, quella dei teatri della diversità. Non cerchiamo di omologare tutto e tutti per rendere tutti uguali: vogliamo moltiplicare le differenze non addizionarle. La borghesia ha identificato il teatro come mestiere ed esibizione, sottraendo il senso del sacro, del magico e della ritualità collettiva che il teatro sociale d’arte pratica in sé. Ci sono ancora due riflessioni da fare e una proposta. La prima riflessione è sulla regia: in questo contesto la regia costituisce in maniera abbastanza oggettiva il perno dell’atto teatrale. Nel teatro sociale d’arte la funzione del regista ci pare si ponga anche in relazione ad un piano culturale ormai abbandonato dai più. La regia, infatti, quando prevede la presenza di un’ombra che le ride accanto, non determina soltanto le forme attraverso le quali l’opera comunica o non comunica uno sguardo poetico e un’idea di mondo: il regista di un teatro sociale d’arte si fa concretamente carico dei cerchi concentrici che questo processo riverbera, oltre che a livello artistico, anche sul piano politico, sociale e culturale. Essi si proiettano all’interno della compagnia che produce, della comunità che organizza e perfino della collettività territoriale che ne fruisce. Quel regista, lo voglia o no, si fa carico di un compito brechtiano: straniare, a modo suo, anche nella maniera più appassionata, i misteri delle forme, misurare delicatezza e crudeltà, riappropriandosi del gesto antico di celare o svelare un dramma al cospetto di una collettività sociale di spettatori. Mi pare che il regista di teatro sociale d’arte, in maniera più o meno visionaria, si ponga giocoforza nella prospettiva paradossale ma concreta di voler/dover ricomporre una società frantumata, ponendo al centro della scena l’attore, come atto sacrificale del dramma. In questo contesto la funzione del regista si pone in una prospettiva così antica da rischiare di pagarne tutte le conseguenze: esso è una sorta di “medico”, non nel senso sanitario o sciamanico, ma in quello purtroppo obsoleto di colui che si prende cura politica, sociale e culturale della collettività in cui vive, cercando di restituire un’opera d’utopia concreta, un atto artistico che prefiguri un mondo più sano rispetto a quello che ha trovato.     La riflessione che ne consegue è sugli spettatori. Una funzionaria dello Stato anni fa mi disse “E che vanno a fare gli spettatori del teatro in un carcere o in un manicomio o in una qualunque comunità?” Che ci vanno a fare? Quella domanda ne sottaceva un’altra più spietata: che ci va a fare il teatro sociale nei teatri veri? Accettiamo la frammentazione della società così com’è, produciamo dei bei format inclusivi, uniformiamo tutto alla merce e tanti saluti all’unicità del teatro. Però quella funzionaria dello Stato non teneva conto, secondo noi, che le necessità dell’innovazione implicano anche un pensiero sul pubblico, sia per quanto concerne il pubblico del teatro contemporaneo che per gli abbonati alle stagioni tradizionali. La realtà della natura è stupefacente, laicamente magica: è un bazar di differenze sterminate. La vertigine ci lascia spesso così sbalorditi da non credere ai segni di bellezza che spesso ci riserva il teatro. Abbiamo uno sguardo limitato da circuiti neuronali uniformati alla spettacolarizzazione della noia. Ma in realtà noi siamo dei che, purtroppo, scontano le scomodità politiche e sociali di una condizione dell’esistenza che relega tutto all’indifferenza o alla magnificenza del consumo. Invece il pubblico ha bisogno di visioni, coincidenze, innamoramenti, premonizioni: i pubblici del teatro hanno bisogno di riempire la propria vita di invisibilità che si manifestano, di stupori, sorprese, capovolgimenti di una realtà così stretta e ripetitiva da diventare sempre più insopportabile. Abbiamo bisogno di difformità e di luoghi laicamente sacri. Il teatro sociale d’arte sta maturando, nelle esperienze più avanzate che si sono consolidate nel nostro Paese, idee di pubblico completamente nuove, rispetto alle consuete tipologie di spettatori che seguono il teatro contemporaneo. Bisognerebbe analizzare a fondo le analogie e le differenze che, nel teatro sociale, caratterizzano le visioni di spettatori più o meno partecipi e spettatori distanti dalle tematiche rappresentate in scena. Il ponte che talvolta sembra unire (o separare) i teatri dalle città trova, nelle esperienze di teatro sociale, forme di radicamento molto marcate: gruppi d’appartenenza, strutture comunitarie, nuclei d’interesse che si aggregano attorno a processi di formazione artistica più o meno strutturati. Queste aggregazioni ampliano la platea degli spettatori di teatro, coinvolgendo ambiti sociali normalmente esclusi dalla fruizione del teatro contemporaneo. Quando questo situazionismo teatrale è portatore di segni artistici qualitativamente significativi si rompono i confini spesso emarginanti dell’handicap, del carcere, del centro d’accoglienza e l’esperienza del teatro torna ad aggregare pubblici più indifferenziati attorno ad un nucleo sociale capace di esprimere desideri e bisogni universali. Si realizza in questi casi una forma di teatro politico contemporaneo, capace di trovare, nelle forme artistiche che produce, una propria idea di mondo. La comunità, l’handicap, l’alterità di cui è potatore, da barriera separante e pericolosa, diviene metafora evocativa di simbologie e valori che ricompongono strati sociali e fasce di pubblico nuove. Infine una proposta: noi pensiamo che questa ricchezza non debba andare dispersa. Né possa restare sotterranea. Noi vogliamo proporre al Ministro un progetto speciale che incroci i ministeri della cultura e del sociale. Vorremmo avere gli strumenti per organizzare un vero Festival Internazionale sulla diversità del teatro. Vorremmo proporre progetti di formazione professionale e lavoro per persone svantaggiate, vorremmo chiedere un tavolo di progettazione permanente tra gli artisti e le istituzioni dove discutere sulle forme della produzione e della distribuzione. Non vogliamo sindacalizzare il teatro dell’handicap ma pretendiamo che le istituzioni, i festival, i teatri nazionali, la critica, la smettano di ignorare un fenomeno che loro stessi hanno chiamato sociale per poi quasi estrometterlo dal sistema. La semi clandestinità della nostra ricerca ci ha insegnato che per molti versi noi stiamo abitando luoghi in cui si rinnovano i mestieri del teatro, gli spazi e i pubblici della scena contemporanea, le forme organizzative, le modalità e il senso del produrre drammaturgia nel contesto d’oggi. Nella situazione in cui versa l’intero sistema del teatro noi abbiamo la presunzione di essere detentori di qualche qualità. Sicuramente conosciamo il mutamento negli aspetti teorici e concreti. Lo pratichiamo quotidianamente, combattendo l’ingiustizia della marginalizzazione assieme a pubblici ed artisti che condividono la nostra stessa necessità di non dimenticare che il teatro è una moltitudine di ombre sbeffeggianti. Al tavolo ministeriale che proponiamo vorremmo condividere una prospettiva di politica culturale piena di domande antiche e di atti contemporanei, di contenuti e di forme che siano al tempo stesso motivo di ricchezza e di conflitto. Sicuri che il teatro ha la capacità e la forza di porre al centro del suo rinnovamento non tanto il mito degli algoritmi quanto la cultura delle diversità. Tematica principale di questo nuovo millennio.   Alessandro Garzella e Antonio Viganò Festival Metamorfosi – Brescia