sabato 2 dicembre 2017


Giuseppe Genna 1 h · Ho incontrato una webstar. L'andatura saccente almeno quanto lo sguardo, pieno di sé e vuoto dell'altro, l'aspetto inelegante di questa freakness contemporanea, dove il tarro è un elemento dello hipstering, la psicologia brasata, la sicumera di chi è garantito dall'andamento non lento del mondo di cui è imbibito, la fenomenologia d'accatto che domina il presente e, concludendolo, ritiene di aprirlo come una scatoletta di sardine a un futuro pressoché simile alla peggiore delle fantasie fantascientifiche, tra "Minority report" e "Addio Fottuti Musi Verdi" (il classico di The Jackal, una pellicola in digitale, storica e imperdibile, già in catalogo e nel canone e nella dimenticanza di tutto ciò, nonostante sia in sala, ovvero il luogo che hanno distrutto gli spiriti semplicistici dell'era post 2012), e incedeva, la webstar, adusa a complimenti e ad autoriferimenti, strapieni di vocativi ai suoi follower, post del cazzo infittiti di irrealismo tipico di una società del benessere in marcescenza, questo recente con il pelo facciale da negozio di barberia ad Amsterdam, questa spocchia esistenziale psicologica morale, un satanismo della normalità, un satanismo privo di qualunque Satana, che è al centro di un economato fatto di views e di condivisioni della sua prosa laceroconfusa, sputtanante gli altri sempre, la battuta non pronta, mentre mi stringe la mano non ascolta nemmeno il mio nome e continua a incedere sulle piastre marmoree del luogo in cui lo incrocio, il suo pseudonimo è sulle labbra di chiunque abbia a che fare coi lucori di Rete attuale, un luogo geometricamente espanso verso il nullapiù, la sua parlata emiterrona, il suo gomorrismo tattile e visivo, l'olocausto dell'umanismo su due gambe con il culo a baricentro basso, il lombrosianesimo mi aiuti, come sempre e più di prima, spalancate al suo sembiante e alla sua assenza di dialettica le porte di ciò che fu spettacolo e ora è nebbiolina cimiteriale ubiquitaria, fuoco fatuo, lubrificante per crisi apoplettiche del corpo emotivo, la sua attitudine spannometrica a tanta roba con il prefisso super ("superbello", "superimportante", etc.) e con l'avverbio onnipresente "tipo" ("tipo che stavo andando", anziché "stavo andando"), un coagulo emorragico di memi in svanimento istantaneo, una figura olografica di una Pixar sotto cattiva lisergìa: vi dico: l'orrore. Quanta pena deve dare a un umanista l'umano? Quanta speranza ripongo nelle parole, ultime sorelle, a cui dare perenne addio? Quante immagini irradia un corpo umano tozzo e pronto all'esperienza del bardo thodol? Quale storia estraggo da questa grezza fibra d'uomo? E quanti calci nei denti voglio dargli? Moltissimi.

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