venerdì 21 marzo 2014


Presentazione del libro di poesie di Renzia D’Incà, Bambina con draghi Pisa, Biblioteca Comunale SMS, 4 febbraio 2014 Renzia D’Incà ha pubblicato cinque raccolte di poesie prima di questa che oggi presentiamo, Bambina con draghi, edita dalle Edizioni dei Leoni, con densa prefazione di Paolo Ruffilli. Rispetto alle precedenti, la nuova raccolta presenta significativi elementi di novità: nei temi e nello stile. Sebbene non vengano abbandonati il rigore, la raffinatezza formale, la cura, la sapienza della scrittura, caratteristiche formali precipue della poesia di Renzia D’Incà, stavolta le parole sembrano immerse in una mistura urticante, corrosiva, che resta loro addosso e le rende violente, appassionate, taglienti come spade. Il fatto è che stavolta le coordinate della raccolta s’inscrivono nel tragico, e il linguaggio viene (abilmente) lavorato perché sappia restituirlo. Parto dunque dalle parole: del titolo e delle sezioni. Il titolo della raccolta, Bambina con draghi, orienta correttamente su scenari infantili; essi però non hanno niente di idilliaco – ciò che del resto, in età post-freudiana, suonerebbe poco probabile e ingenuo. Della psicanalisi, in questa raccolta come nelle precedenti, c’è molto: il linguaggio (costruito anche col robusto apporto di un idioletto medico-psicanalitico), le situazioni di riferimento, il mantenimento di un binarismo colloquiale cioè di un confronto/scontro fra un Io e un Tu, che è mimetico della condizione analitica (ma con varianti significative). L’infanzia, dunque, non che essere età dell’oro, tempo dell’innocenza e della gioia, nella poesia di Renzia D’Incà si popola di creature orrorifiche, metamorfiche, terrorizzanti; la scrittura che le rappresenta sarà una discesa agli Inferi e restituirà gl’incontri con mostri e draghi affondando nel materiale psichico remoto e forse rimosso, che attraverso le parole poetiche riemerge ribollente. La raccolta è costituita da cinque sezioni; gli Affioramenti sono appunto il venire a galla di situazioni, immagini, personaggi appartenenti al passato, rappresentano insomma quel ritorno del rimosso (per riferirsi ancora a Freud) che è punto di partenza di ogni percorso analitico che aspiri a liberare il futuro: “e adesso per andare avanti / è necessario tornare indietro” (p. 25). Un movimento “a gambero” che avviene nella seconda sezione, Mesmerismi: il fluido magnetico (i mesmerismi appunto) che si libera nei fenomeni incontrollati (quelli ipnotici, quelli onirici) può costituire esso stesso una cura, se non la guarigione; e infatti nella prefazione Paolo Ruffilli parla di “percorso di autoconoscenza”. Tuttavia avrei qualche dubbio che questa strada, almeno il tratto che la raccolta documenta, porti davvero alla salvezza; a prospettive ben poco salvifiche allude, se dobbiamo prestargli fede, il titolo dell’ultima sezione, Dell’incurabile curagione, ironico neologismo, quest’ultimo (è in realtà arcaismo, ma così disusato da poterlo considerare nuovo conio), che non fa ben sperare e al contrario sembra esprimere perplessità su una cura (psicanalitica?) che non viene a capo dei problemi e, insieme, la speranza di una diversa via di fuga, una via di fuga come che sia, per liberarsi da ogni soggiogamento. Le sezioni centrali, Ipossie binarie e Parricidi, sono le più veementi, ulcerate, rivendicative; soprattutto in queste sezioni il lessico si rinnova rispetto alle precedenti raccolte, le immagini si sostanziano di riferimenti mitici, i personaggi acquistano proprietà di simboli, mentre l’Io femminile si carica di valori oppositivi che gridano trionfanti la sottrazione al dominio paterno, fino al feroce augurio di morte: “attendo la tua morte, padre / la tua dipartita perché la tua di morte / sarà soglia e porta alla mia sempiterna vita” (p. 38). E’ vero che anche in questa sezione permane una dimensione “ludica” del linguaggio, direbbe Jakobson, legata al mondo infantile, produttrice d’un comico raffinato che ha tanta parte nella scrittura anche precedente di Renzia D’Incà; qui però il comico è più contenuto perché, soprattutto nelle due sezioni centrali, la nota dominante è tragica. Vi si rappresenta il terribile scontro con il Padre (ovvero Fratello/Padre), con la sua legge, materiale morale sessuale, ed emergono ossessivi i fantasmi dell’incesto. E’ uno scontro all’ultimo sangue, dal quale Io si augura che il Padre esca sconfitto – di più: morto. Una morte di cui è prefigurato l’avvicinarsi in duri versi della sezione precedente, nella degradazione fisica paterna, nel suo rattrappimento e invecchiamento, nella perdita di forza interiore, nella riduzione del Padre Drago alla pura e soccombente bestialità: “fra noi adesso parla il linguaggio corporale / il borborigmo la tosse l’ansimare / tu spirito puro (senza l’anima) sei il più animale” (p. 31). Preciso che questo Drago non s’identifica tanto, o solo, nel padre reale di Io ma assume connotazioni più vaste e include qualunque figura caratterizzata dalle proprietà che all’interno della società patriarcale identificano l’immagine paterna. E qui l’opposizione privata Io/Tu, cioè Figlia/Padre, si allarga a diventare antropologica; è la grande fondativa opposizione fra Natura e Cultura dove il Padre, maschio depositario del potere e della tradizione, viene collocato a sorpresa non sul versante della Cultura, come ci si aspetterebbe, ma su quello della Natura. Perché questo Padre è uno dei draghi, anzi è IL Drago per eccellenza, è (come ho appena letto) “il più animale” e non può aspirare ad altra dimensione che quella della Natura, là dove nascono e crescono i mostri, come sappiamo fin dall’antica caccia che Teseo, forza della Ragione, condusse contro il mostro bestiale chiuso nel Labirinto. E’ l’ennesima metamorfosi, l’ennesimo raddoppiamento che nelle poesie di Renzia D’Incà caratterizzano le figure d’amore, secondo l’orientamento di lettura contenuto nel brano di Platone riportato in esergo, l’insuperata definizione di Eros. “Eros è un gran Demone, o Socrate: infatti tutto ciò che è demonico è intermedio fra Dio e mortale. Ha il potere di interpretare e di portare agli Dei le cose che vengono dagli uomini e agli uomini le cose che vengono dagli Dei: degli uomini le preghiere e i sacrifici, degli Dei, invece, i comandi e le ricompense dei sacrifici. E stando in mezzo fra gli uni e gli altri, opera un completamento, in modo che il tutto sia ben collegato con sé medesimo”. Le figure d’amore sono dunque binarie, possiedono un doppio che le altera, un’ombra maligna che può usurparne il posto. Ciò vale per il Padre/Fratello Amato, la cui terrificante epifania diventa il Drago; e vale per la Madre, assente in queste liriche che tuttavia le sono dedicate. Una Madre con la quale pare saldo il vincolo affettivo ma che non ha ruolo nella tragica lotta qui raccontata; ne esiste invece un doppio, un replicante mostruoso nell’altro personaggio femminile che appare di sguincio nei versi, una parodia di Madre, la mater controfigura, la Gorgone, la megera che sottolinea e rafforza la solitudine drammatica di questa Figlia combattente – questa Figlia che, capace di affrontare, in singolar tenzone e con pari violenza, lo strapotere del Padre/Drago, è, forse, vincente.

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