giovedì 26 aprile 2018


IFIGENIA, liberata

renzia.dinca

Prato

Un personaggio della storia del Mito, figura centrale  del Teatro greco quello di Ifigenia, tragico e complesso. Come molte delle eroine-pensiamo a due per tutte: Antigone e Medea, che nei secoli non hanno mai cessato di intrigare ed  ispirare narratori e poeti (basti pensare a Goethe), studiosi  dei miti come Kérenji e Vernant, ma anche antropologi culturali come René Girard, a cui più di  tutti sembra aver attinto nel suo processo di pensiero ed elaborazione di regia Carmelo Rifici (direttore artistico del LAC di Lugano e direttore della Scuola di Teatro del Piccolo di Milano), insieme alla drammaturga Angela Dematté. Rifici dichiara di aver indagato sul Mito degli Atridi cercando agganci oltre che  in Eraclito della Ifigenia in Aulide, in numerosi altri autori classici da Omero a Eschilo a Sofocle, ma anche dal Nuovo e Antico Testamento, Friedrich Nietzsche, Girard e  il filosofo e grecista Giuseppe Fornari. Ci sono correnti dell'antropologia classica contemporanea come quella diretta da Maurizio Bettini presso l'Università di Siena, che hanno messo in discussione la facile correlazione fra ciò che il Mito rappresentava per gli antichi e ciò che noi contemporanei comprendiamo di esso, magari solo per  assonanze ed analogie con la storia della cultura occidentale dei secoli successivi. Tuttavia in Arte almeno, senza scomodare Jung e i suoi archetipi, le suggestioni che dai mitologemi ci arrivano come frammenti ed echi di storie altre, ancora suggeriscono tracce di ispirazione drammaturgica e poetica di intenso vigore e vitalità. E questa Ifigenia, liberata (da notare la virgola fra il nome proprio e il participio), ne costituisce  un esempio davvero di valore. Tutte queste fonti dichiarate sono entrate nella drammaturgia plurilineare di una testualità che procede su più binari sia per quanto riguarda la costruzione del plot narrativo sia per quanto riguarda la ideazione della scrittura scenica tanto che qui si potrebbe parlare di Teatro nel Teatro. La narrazione testuale che ricostruisce la storia di Ifigenia (Anahi Traversi), figlia di Agamennone  (Edoardo Ribatti) e Clitemnestra (Giorgia Senesi), figlia che deve essere immolata per salvare il suo popolo, infatti, passa a intermittenze in secondo piano, quasi una mise en abime rispetto ad altri piani narrativi semantici, scenici e meta-testuali. Insomma un esercizio assai complesso di elaborazione per una macchina di scena però ben oliata e convincente che tiene il pubblico inchiodato per due ore e mezza di spettacolo senza  intervallo. Il pubblico viene subito a confrontarsi, in assenza di sipario, col palcoscenico occupato da diverse persone alcune in abiti di scena altre no, da un insieme di apparecchiature tecniche posizionate sulla sinistra dove sono anche allineate alcune sedie e dove svetta  un musicista  con uno strumento a corde: siamo entrati direttamente dentro la sala prove di un lavoro in via di allestimento in fase avanzata. Ben presto la “prova” ha luogo. Così scopriamo che è il regista (Tindaro Granata- alter ego di Rifici),  il protagonista di questa Ifigenia (insieme con la drammaturga, Mariangela Granelli, a sua volta alter ego di Angela Dematté), anch'essa in scena seduta e compartecipe  al fitto lavoro di costruzione in diretta dell'allestimento in fieri. Un ottimo Tindaro Granata introducendoci in punta di piedi  nei segreti del back stage in sala prove, dialoga in diretta coi suoi attori chiamati a interpretare i vari ruoli della tragedia euripidea. Intersecando i piani semantici fa agire i propri attori nel loro ruolo per   poi  bloccarli e discutere in punta di fioretto scena per scena ora nei monologhi ora nelle scene corali. Li costringe ad interrogarsi come uomini e come donne sul senso del personaggio che interpretano mettendoli a confronto-specchio fra le parole e le azioni di cui sono protagonisti sulla scena, coi propri vissuti di uomini e donne contemporanei.  Questo gioco di specchi provoca un corto circuito di senso che ruota tutto intorno al tema del Sacrificio ovvero del rapporto inscindibile fra Sacro e Violenza. Come  accade a Ifigenia disposta, dopo una iniziale renitenza, ad immolarsi come capro espiatorio per volere del Padre e del suo Popolo per un Bene superiore, un'istanza di Stato, si direbbe oggi. Quanto di contemporaneo si chiede il regista, chiede ai suoi attori e a noi spettatori, c'è o c'è ancora in questo nodo sacro-violenza, in prospettiva antropologica attuale rispetto ad una rivisitazione del Mito come categoria narrativa della cultura, della vita quotidiana, delle vite individuali? In un gioco di rimandi su rimandi,  lo scavo antropologico del regista coi suoi attori si apre su un retropalco dove compaiono  ominidi,  scene proiettate di violenze perpetrate sempre in nome di un bene superiore che hanno dominato la Storia dell'umanità dalla notte dei tempi- da Caino e Abele, fino alla più recenti atrocità delle guerre in corso nel  nostro Mondo di oggi. La violenza, sembra voler dirci Rifici, pare intrinseca alla natura dell'uomo. Come la sopraffazione del forte sul debole. La religione di Stato chiede sangue, chiede vittime, chiede il Nemico ed in nome di questo perpetra odio e distruzione. Tuttavia c'è speranza per l'umanità. Speranza che Ifigenia-vittima innocente e simbolo di una obbedienza  imposta  si riscatti  e che il suo grido si imponga contro ogni sopraffazione. In attesa di una Ifigenia, appunto, liberata, applausi ad un lavoro corale di sapiente gioco attoriale, di grande afflato ed intelligenza artistica.





Ifigenia, liberata

progetto e drammaturgia Angela Dematté e Carmelo Rifici     

regia Carmelo Rifici

con Caterina Carpio, Giovanni Crippa, Zeno Gabaglio,Vincenzo Giordano, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Igor Horvat, Francesca Porrini, Edoardo Ribatto, Giorgia Senesi, Anahì Traversi

Scene Margherita Palli

Costumi Roberto Mestroni

musiche Zeno Gabaglio

produzione  LuganoScena con LAC Lugano Arte e Cultura



Visto a Prato, Teatro  Fabbricone, il 25 marzo 2018



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