giovedì 28 dicembre 2017
mercoledì 27 dicembre 2017
martedì 26 dicembre 2017
, lo spazio diretto da Roberto Castello nell’immediata periferia della città di Lucca. Castello è coreografo, danzatore e direttore artistico di una delle più importanti rassegne nazionali di un cartellone quest’anno interamente dedicato alla Danza contemporanea internazionale europea. Il titolo era SPAM! Good art is healthy- SGUARDI OLTRE I CONFINI LA DANZA ITALIANA CHE GUARDA L'EUROPA. Il programma andava dal 1° novembre al 13 dicembre per sette doppi appuntamenti con la danza contemporanea. Il critico Graziano Graziani, che da tempo segue SPAM evidenzia come “ i coreografi contemporanei, anche dal punto di vista della formazione, abitano già uno spazio europeo e internazionale che, in altri settori, non esiste ancora, o almeno non in senso compiuto. Per loro è naturale lavorare in Italia come all’estero, entrare in contatto con maestri del Nord Europa e dell’America come con quelli di casa nostra. Lo spazio che abitano, il luogo mentale in cui creano, è già un ambiente europeo e transnazionale.(…)”.
Di qui SGUARDI OLTRE I CONFINI - LA DANZA ITALIANA CHE GUARDA L'EUROPA il titolo della rassegna che per sette settimane, tutti i mercoledì, ha portato nella sede di SPAM! a Porcari alcuni tra i più rilevanti spettacoli italiani di danza contemporanea attualmente in circuitazione in abbinamento con altrettante improvvisazioni di danza e musica dal vivo. L'unica eccezione è stata Silvia Gribaudi con R.OSA_10 esercizi per nuovi virtuosismi con Claudia Marsicano, in uno dei suoi lavori di maggiore successo, e in seconda serata il progetto che una decina di anni fa l'ha rivelata al pubblico e alla critica: A corpo libero (vedi Rumorscena). Ha aperto la rassegna lucchese, THE SPEECH, l'ultimo o spettacolo di Irene Russolillo in collaborazione con la coreografa e danzatrice belga/argentina Lisi Estaras, e a seguire Dance performance & Live Music con i danzatori Stefano Questorio, Elisa D’Amico e il percussionista Daniele Paoletti. (recensito da me su Rumors)
A seguire Francesca Cola, autrice, coreografa e danzatrice che produce in Italia e all'estero con NON ME LO SPIEGAVO, IL MONDO: “Attraverso una grammatica di gesti speculari, richiami, metafore e simboli si lascia allo spettatore la scelta se abbandonarsi all'immediata bellezza visiva del mostrato o seguirne le tracce verso un non-detto e un non-rivelato tanto ricco di suggestioni quanto spaesante nella sua fitta rete di rimandi simbolici”. A seguire Dance performance & Live music con le danzatrici Francesca Zaccaria e Caterina Basso accompagnate dalla tromba di Tony Cattano.
Terzo appuntamento è stato con Silvia Gribaudi che ha presentato R.OSA_esercizi per nuovi virtuosismi, a seguire A CORPO LIBERO, selezionato per Biennale di Venezia 2010, Aerowaves -Dance Across Europe 2010, Edinburgh Fringe Festival 2012, Do Disturb - Palais De Tokyo 2017; un lavoro che ironizza sulla condizione femminile a partire dalla gioiosa fluidità del corpo, una performance che parla di donna, libertà e ironia. (vedi Rumorscena). A seguire una settimana dopo Davide Valrosso, diplomato presso L’English National Ballet, e formatosi in alcuni dei più importanti centri di danza contemporanea quali il London Contemporary e la Ramber School, ha portato a SPAM! WE_POP, protagonisti lo stesso Valrosso e Maurizio Giunti: un duo dalla scrittura coreografica di grande raffinatezza. A seguire Dance performanceE & Live music con le danzatrici Giselda Ranieri e Anna Solinas e con Mirco Capecchi (clarinetto basso)
E poi Gruppo Nanou, attivo tra Italia, Germania e Belgio ha presentato a SPAM XEBECHE [csèbece], con otto danzatori in scena costantemente al limite del migliore degli inciampi. A concludere la serata Dance performance & Live music con la danzatrice Aline Nari, il danzatore Davide Frangioni e il contrabbassista Mirco Capecchi.
E ancora Compagnia Adriana Borriello, COL CORPO CAPISCO #2. Adriana Borriello, danzatrice, coreografa e pedagoga, che ha fatto parte del percorso formativo della danza belga, parla così del suo lavoro: COL CORPO CAPISCO non è solo un titolo, ma una dichiarazione, un manifesto, un modo di stare al mondo. Al centro del progetto modulare la trasmissione da corpo a corpo che pone in primo piano il sentire e genera forme di comunicazione empatica. La danza, essenza dell’atto “inutile” che riflette su se stesso, diventa medium di conoscenza della non-conoscenza, sapienza del corpo, dell’esserci. A seguire Dance performance & Live music con la danzatrice Silvia Bennet, accompagnata da Alessandro Rizzardi al sax tenore.
Ultimo appuntamento della rassegna è stato con Marco Chenevier, coreografo, danzatore, regista e attore attivo tra Italia e Francia (Romeo Castellucci e Cindy Van Acker, Cie CFB451 in seno al CCN di Roubaix, Cie Lolita Espin Anadon) e il suo ultimo spettacolo QUESTO LAVORO SULL'ARANCIA in prima regionale. A seguire Dance performance & Live Music con la danzatrice Ilenia Romano e il chitarrista Claudio Riggio.
Questo lavoro sull’arancia esprime un bisogno di ricerca di forte e totale interazione col pubblico. Come se il pubblico fosse pronto e preparato alla bi-direzionalità della performance o comunque sempre partecipante attivo in un feedback con gli artisti. La scommessa in atto è l’improvvisazione, il gioco, sia pur guidato, la reazione soggettiva e anche di gruppo da parte del pubblico, alle provocazioni ripetute degli artisti in scena, che ricorda certe performance dadaiste d’inizio secolo scorso di contaminazioni provocatorie non certo congeniali alla danza ingessata del tempo. Quindi si presenta come un lavoro iconoclasta, coraggioso tanto quanto divertente e leggero perché aperto ad una scommessa mai uguale e che si rinnova ad ogni replica. In scena due danzatori Alessia Pinto e lo stesso regista, coreografo e attore Marco Chenevier vincitore di molti premi internazionali fra cui il Be Festival di Birmingham, oltre che a un tecnico seduto non dietro il pubblico ma di lato sulla scena, munito di computer in grembo- Andrea Sangiorgi, dal cui strumento informatico, essenziale per le dinamiche interattive di tempi e di spazio-azione, lancia stimoli interattivi sia verbali che sonori fra performer in doppio canale verso e col pubblico oltre che in forma di voce meccanica. Un pubblico molto numeroso e divertito quello di Porcari, anche perché si trattava di una prima regionale, sollecitato dalle opportunità di feedback che gli sono state offerte fin dall’inizio del lavoro e cioè fin dalla consegna della “merendina” col biglietto in mano. Allo strappo infatti veniva consegnato dalle maschere un sacchetto di carta con dentro: un’arancia con un fazzolettino (forse per chi si sarebbe anche mangiata l’arancia?), una galatina, cicchetto-biscottino al latte, un cartoncino per fare aeroplanini da scagliare in scena per interrompere lo spettacolo come ci viene più volte ordinato e/o consigliato di fare da seduti al nostro posto (per la verità ci aspettavamo anche dei pop corn data la fiction cine-TV in atto, ispirata dal Cinema d’Autore). Il lavoro parte da una piattaforma tipo set fra teatro e palestra, una sorta di TV performativa non in WEB ma dal vivo dove il pubblico, se agisce, guadagna ( o perde) da 5 a 50 euro a seconda della prestazione e della disponibilità ad accettare il contratto-spedito in voce da computer del tecnico e attori performer. E fin qui il gioco è anche buffo, da scuola media, spiazzante. Che tutto parte da un pretesto, una rilettura del geniale film di Kubrick L’Arancia meccanica, ed è qui usato a spunto di una performance che assomiglia a un quiz (la stessa sera era in TV RAI 2, la ripresa de Indietro tutta di Renzo Arbore, parecchi milioni di audience in Italia). Se andare a teatro, se frequentare luoghi dove la presenza fisica, l’esserci del pubblico e degli attori comporta il coinvolgimento a tutto tondo a cominciare dal tirare aeroplanini di carta fra pubblico e scena (un mix un po’ video games un po’ avanspettacolo-scuole medie), il gioco si fa più duro quando la tensione monta per l’escalation delle situazioni a cui il pubblico è sottoposto nell’interazione comandata: azioni di crudeltà sadomaso però in climax cinico-scherzoso nei confronti della ragazza ( Alessia Pinto) da parte dello spietato quanto infantile uomo in fase di svezzamento visto che si dichiara intollerante al latte( Marco Chenevier), ispirate dalle scene di violenza di Arancia meccanica con il finale liberatorio per la donna, che in una sequenza di apparente sottomissione viene bloccata ai polsi per gettarle addosso dall’aguzzino secchiate di latte e arance spremute, lei nuda in una vasca finta piscina, dove anche qualche ospite-spettatore coinvolto nella fiction ma sempre e per finta, si spoglia. Ecco qui a questo punto, in una scena interattiva che svolta e risolve gli interrogativi e i dubbi di chi osserva, irrompe una sorta di sbigottito horror vacui. Questo continuo spostamento di ruoli funzioni e finzioni crea in uno spettatore non più di tanto coinvolto o forse renitente anche per un etica di giusta distanza che sola forse, può facilitare un tentativo di comprensione di ciò che accade, un corto circuito di senso. Il richiamo di memorie associative al lavoro del Living è quasi automatico. Però in distanza abissale rispetto all’eterogenesi dei fini delle creazioni artistiche. Senza evocare il fantasma di Aristotele e la catarsi-non è questo Teatro, ma ricerca della giovane Danza contemporanea internazionale, anche se i generi le categorie pare siano esplose nei loro paletti meta, l’impressione è che questo lavoro dovrebbe evolvere verso qualcosa di davvero nuovo, senza per questo necessariamente proporsi di educare e/o comunque orientare il proprio pubblico della danza o delle arti performative in genere. Forse sarebbe necessario escogitare una chiusura meno confusionale che non sia quella- semplicistica e parecchio rozza dell’immagine del pubblico che lancia ceste di arance sul carnefice della povera vittima, peraltro sorridente. Ma poi, lanciare arance intere addosso al crudele Chenevier gli farà davvero male fisicamente? e il latte versato sulla vittima sarà stato un bagnoschiuma? È catartico? È terapeutico? È irriverente verso il regista cult? segnali ambigui che spesso la danza contemporanea ci ha magistralmente restituito in forma di suggestione simbolica, e in questo lavoro che rivisita un classico della cine-letteratura psichiatrica sado-maso invece vogliono essere trattati secondo il manifesto poetico programmatico del regista: navigare, a vista(?).
di Marco Chenevier
con Marco Chenevier e Alessia Pinto
scene e disegno luci Andrea Sangiorgi
produzione TiDA Theatre Danse
residenza ALDES
progetto curato da ALDES realizzato con il sostegno di Regione Toscana, Provincia di Lucca, Comune di Lucca, Comune di Porcari, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e Fondazione Cavanis di Porcari in collaborazione con Barga Jazz
Visto a Porcari (Lucca) , SPAM! rete per le arti contemporanee, il 13 dicembre 2017
prima regionale
giovedì 21 dicembre 2017
mercoledì 6 dicembre 2017
Leonardo da Vinci e le verità nascoste
Pontedera (Pisa). Da un testo di sottile maestria drammaturgica, ricco di invenzioni immaginifiche, surreali a tratti oniriche, nasce questo nuovo lavoro per le scene di Michele Santeramo: Leonardo da Vinci- L’Opera nascosta. Davvero sorprende piacevolmente e ci trascina con una affabulazione pacata e tuttavia funambolica per la fantasia straripante, le dinamiche ricchissime di metafore, di rimandi su rimandi, di associazioni mentali ardite e spiazzanti come sa ideare solo chi ha un autentico talento letterario oltre che un solido e consistente bagaglio culturale che scandaglia diverse discipline che contemplano letture che vanno dalla filosofia alla fisica. Il pre-testo è quello in filigrana della interpretazione e spunto di quadri e di elementi biografici essenziali del genio di Leonardo da Vinci. E fin qui la prima micro-traccia affabulatoria, apparirebbe quasi banale. L’invenzione drammaturgica passa poi da un altro topos letterario: un dialogo immaginario fra l’Autore Santeramo – Leonardo, e la sua alter ego, un doppio in chiave femminile, col suo sorriso immanente e metafisico: La Gioconda. E anche qui il rischio della vertigine invischiante e debordante che avviluppa figure storiche reali e allegoriche: Leonardo e la sua tutta ipotetica relazione inventata con donna Gioconda (che qui risuona gli stilemi di una Monna Lisa-con petrarchesca Madonna Laura e con richiami a Vermeer e la “sua” Ragazza con l’orecchino di perla), poteva scontrarsi con un solenne tonfo nella temperie del confronto con icone consegnate alla letteratura mondiale di tutti i tempi e di interdisciplinarietà saccheggianti con quelli che Jung definirebbe archetipi universali. Non si può raccontare cosa accade in scena in questo nuovo lavoro di Santeramo, dove tutto a lui è ascritto-testo, regia e interpretazione, perché apparentemente nulla accade, tranne la felice collaborazione con la disegnatrice e video maker, l’ottima Cristina Gardumi, che interagisce in scrittura visuale. Ciò che possiamo
dire è che questo lavoro non è inscrivibile nella categoria teatrale del: Teatro di Parola né del Teatro di Narrazione. C’è sì un flusso di parole, che però vivono di piena autonomia, perfettamente organizzate, pensate ab ovo dentro e per uno spazio scenico ben restituite e che non ricordano affatto scrittori e/o giornalisti che in questi ultimi anni calcano piazze teatrali a raccontar se stessi. Perché in questo testo di Santeramo, dietro, c’è una testualità pienamente consapevole, che è scritta per consegnare ad uno spazio teatrale e non di nicchia, uno spazio per e di molti spettatori di teatro. Il gioco metaforico su Verità/menzogna, Arte/scienza, Arte/vita, è da Santeramo tutto giocato dentro una drammaturgia che risolve e rilancia temi di contemporaneità diffusa dove la filosofia, la religione (quella buddista, che è il pensiero più in corda col testo), l’arte, si stanno interrogando e forse, riconfigurando sul proprio meta-discorso interno ed esterno, in un momento di crisi della Cultura e del ruolo del pensiero contemporaneo rispetto emergenze che si sono fatte globali: una fra queste le nuove guerre, quella che Papa Francesco chiama la Nuova terza guerra mondiale, la guerra difffusa del Terzo Millennio. Ma che già lo erano fin dal Secolo breve e fin dai tempi di Leonardo, evidentemente, che per campare era stato costretto a forgiare armi da guerra per il suo committente, come si narra in questa drammaturgia autorale. Interrogativi questi, che sono sempre ferite aperte per una umanità affacciata a continue sfide di sopravvivenza, anche etiche sì, ma a volte solo e semplicemente tentativi di organizzazione dell’esistenza. Leonardo- Santeramo - solo in scena, seduto davanti uno scrittoio, con dietro a sé i quadri-immagini in amplificazione multimediale come era già stato con La prossima stagione con la regia di Roberto Bacci( in collaborazione video di Cristina Gardumi) e dopo Il Nullafacente commissionato dallo stesso Bacci a Santeramo e andato inscena lo scorso anno, parte proprio dall’interrogarsi sulla morte, sulla vita e sulla guerra: La morte fa schifo- è un tormentone testuale che ci accompagna nella narrazione dell’Io-Santeramo in affabulazione con l’altro da sé-Leonardo in affermazione della Vita, dell’Eros. E qui si rintracciano letture fresche sul tema del Tempo, il Tempo pensato da Carlo Rovelli fisico, autore di La realtà non è come appare e Sette brevi lezioni di fisica, teorico del concetto di Tempo termico: la vita è Calore. Ai confini fra Scienza quantistica e buddismo. Un lavoro che Santeramo sta ripetendo in collaborazione con Roberto Bacci dopo La prossima stagione e Alla luce.
Leonardo da Vinci- L’opera nascosta
di Michele Santeramo
con Michele Santeramo
immagini Cristina Gardumi
luci Fabio Giommarelli
regia Michele Santeramo
produzione Teatro della Toscana- Teatro Nazionale
PRIMA NAZIONALE
Visto a Pontedera, Teatro Era, il 1 dicembre 2017
martedì 5 dicembre 2017
domenica 3 dicembre 2017
venerdì 1 dicembre 2017
domenica 26 novembre 2017
sabato 18 novembre 2017
martedì 7 novembre 2017
venerdì 3 novembre 2017
lunedì 30 ottobre 2017
lunedì 23 ottobre 2017
La Diversità fa paura? La Diversità è anche normalità?
Nel quotidiano della nostra vita esiste una condizione in comune che ci coinvolge sempre: la diversità. Ognuno di noi è diverso dall’altro e, anche se siamo sempre in contatto con chi vive vicino a noi, spesso lo definiamo con il termine di diverso. Non siamo in grado di includere e accettare quello che per la nostra soggettività riteniamo differente, rispetto al concetto di norma cui ci sentiamo di appartenere. Ci spaventa, ci fa paura e tutto questo produce atteggiamenti e comportamenti di discriminazione. La paura della diversità: l’etimologia della parola significa che siamo in presenza di caratteristiche, tratti, identità, tali da non essere conformi e quindi diversi da un soggetto all’altro se pur identificabili nella medesima tipologia. Parliamo, ad esempio, dell’orientamento sessuale, di condizione di disabilità psicofisica, di un credo religioso, fino a toccare l’etnia degli esseri umani. Ma perché proviamo cosi tanta paura per chi consideriamo diverso da noi? Ci spaventa quello che non conosciamo e mettiamo in atto strategie difensive per evitare di entrare in contatto con la diversità. Ci manca la capacità di comprensione e tendiamo a cercare ciò che è più simile ai nostri canoni estetici, esistenziali, alle nostre credenze, come unico modello possibile di vita. Ogni altra caratteristica, anche identitaria, di genere, che fuoriesce dalla norma in cui ci riconosciamo, viene etichettata, stigmatizzata e definita “anormale”.
Claudia Provvedini, giornalista del Corriere della Sera e critico teatrale per Rumor(s)cena, mi scrive a tal proposito: “Chi ha paura del ‘diverso’? Io, ad esempio. Da chi o da ciò che è estraneo alle categorie tranquillizzanti di salute, bellezza, capacità, ebbene sono turbata. Eppure, in tanti anni di frequentazione del teatro, ad affascinarmi in certi spettacoli è stata proprio la loro ‘diversità’: l’immersione nella difficoltà, nella malattia, nel brutto… Del resto, per far sì che una comunità si confronti, si stupisca, si turbi, il teatro deve essere ancora – come quando è nato -, un luogo di differenze, di distanze dal quotidiano per intravvederne il doppio profondo. Quel che invece in una performance mi dis-turba è l’addomesticamento, lo sfruttamento comico e indulgente (talora con esiti di improvvisazione amatoriale) della ‘diversità’ per farla apparire come realtà normale anziché come forza diversiva”.
Oltre a farci paura, pensiamo la diversità anche come portatrice di pericolosità sociale. Per questo abbiamo paura del diverso, perché non siamo noi. Così è accaduto con uno spettacolo teatrale che ha suscitato reazioni di intolleranza fino a pretenderne la censura preventiva e impedirne la visione. Perché fa paura? In molti si sono posti la domanda a proposito di “Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro”, testo scritto e diretto da Giuliano Scarpinato (prodotto dal CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia – Udine e dal Teatro Biondo Stabile di Palermo) e interpretato dall’attore Michele Degirolamo.
Fa’afafine
La paura era alimentata dalla convinzione che lo spettacolo potesse creare divisione tra genitori e figli, ritenendone la visione pericolosa per la loro crescita educativa e fonte di turbamento tale da creare confusione nell’identità dei minori, e perfino induzione alla omosessualità. La paura di qualcosa che non si conosce contribuisce a mistificare la realtà. Nessuno tra i “censori” aveva visto in precedenza lo spettacolo, basandosi solo sulle note di regia o improvvisati studi senza nessun riferimento scientifico che giustificassero la famigerata “teoria del gender”.
Cosa si intende per genere? Le differenze tra mascolinità e femminilità sono naturali, universali e immodificabili oppure si tratta di una costruzione sociale?
“Identità di genere questa sconosciuta”: Saveria Capecchi docente di Comunicazioni di massa e Sociologia all’Università di Bologna, citando il saggio “Le identità di genere” (Carocci editore) di Elisabetta Ruspini, titolare della cattedra di Sociologia e Ricerca Sociale (Università di Milano – Bicocca) , spiega che «l’identità di genere è un processo che comincia con la consapevolezza di appartenere all’uno o all’altro sesso e che lungo l’arco della vita subisce continui aggiustamenti e ridefinizioni. Il ‘genere’ è una costruzione sociale e non un dato biologico immutabile».
Sono argomenti che si possono affrontare con la dovuta serietà scientifica evitando stereotipi, discriminazioni e i tanti pregiudizi ricavati dalla non conoscenza dell’argomento. La diversità è tutto ciò che non siamo noi. Perché giudicare ‘diverso’ chi è semplicemente normale, se conformato al resto dell’umanità? Commettiamo un errore nell’attribuire alla parola “diverso” un significato negativo. Una paura che subiamo per il semplice fatto che sono gli altri a farcela provare. Il diverso fa paura perché non lo “conosciamo” e non vogliamo conoscerlo. Così è accaduto con “Fa’afafine” (Premio Scenario 2014)
E’ la storia di Alex definito gender, come vengono chiamati quei bambini che già dalla prima infanzia manifestano un’identità di genere fluida, quindi non si riconoscono a pieno né in un genere maschile, né in quello femminile. Sono molte le testimonianze reali di famiglie che vivono con figli di questo genere. E questo genera paura. Fa’afafine in lingua samoana (isola di Samoa) indica proprio le persone che appartengono al terzo sesso. Uomini che assumono comportamento e abbigliamento femminile, pur non essendo transessuali, ma uomini a tutti gli effetti. La società li riconosce e li include, dimostrando rispetto, senza imporre loro una scelta».
Ferracchiati-Peter-Pan-©Lucia-Menegazzo
Sul tema della diversità fa discutere anche la “Trilogia sull’identità transgender” di Liv Ferrachiati: “Stabat Mater” descrive il viaggio di transizione fisica e mentale da femmina a uomo e sulla riappropriazione dell’identità maschile, mettendo a nudo rapporti e relazioni. “Peter Pan guarda sotto le gonne” e “Un eschimese in Amazzonia” sono gli altri due titoli.
La parola diverso fa paura a tutti. Nonostante gli sforzi mentali e culturali che si possono fare, il diverso fa paura perché non lo conosciamo. Il nostro cervello tende a categorizzare tutto quello che ha intorno e che non conosce, è un meccanismo naturale, fa parte del nostro modo di percepire le cose.
Tendiamo a chiamare “diversamente abile” chi è in una condizione di disabilità (un handicap fisico o psicofisico) per cercare di avvicinarlo nella sua condizione di invalido (non muove le gambe) a noi, a chi è autonomo e cammina senza nessuna difficoltà. Così possiamo dire siamo uguali, non siamo così diversi e la discriminazione non ha più senso. Una soluzione che in realtà non lo è. Non è così che si arriva ad una vera inclusione e accettazione. Chi opera in campo teatrale come l’Accademia Arte della Diversità (Teatro La Ribalta) di Bolzano rappresenta la prima compagnia teatrale professionale in Italia costituita da attori in situazione di handicap che opera con l’intento di un’effettiva inclusione sociale. Allontanandosi dal concetto dei laboratori protetti, “recinti di protezione” che tengono i disabili separati dalla vita della comunità. In questo contesto il teatro non rimuove la diversità delle persone in situazione di handicap e nemmeno la esibisce, quello che il regista della Compagnia Antonio Viganò definisce la “consacrazione della diversità”, ma trasfigura la loro realtà in qualcosa di molto più potente: il teatro emancipa queste persone promuovendone la dignità in quanto portatrici di una propria autenticità. Sfuggendo alla logica consolatoria che vede il teatro come socializzazione, attività ricreativa, passatempo, l’Accademia Arte della Diversità offre alle persone in situazione di handicap una reale occasione di lavoro e una concreta opportunità di riscatto sociale. Il teatro sociale favorisce le esperienze teatrali nei luoghi in cui si pratica un servizio alla persona e la formazione espressiva tra operatori che lavorano nei contesti sociali. Promuove una cultura che combatta il pregiudizio sul tema dell’emarginazione e della diversità, al fine di favorire una cultura dell’integrazione.
La Diversità è anche normalità?
“Assistere ad una nascita, ma in questo caso è più corretto dire rinascita, è sempre emozionante ed io quella di A. (iniziale del nome di fantasia) l’ho vissuta come fosse stato mio figlio. L’ho conosciuto nel 2013 tramite un inserimento in stage. A. era stato preso in cura dal Servizio di neuropsichiatria infantile in trattamento farmacologico. La sua condizione psicosociale si aggravava sempre di più per la sua abulia sociale, depressione e sintomi che lo conducevano verso una chiusura verso ogni forma di relazione e interazione. Manifestava evidenti segni di difficoltà nel linguaggio e nell’ideazione. Un giovane adolescente in evidente stato di sofferenza.
foto di Luca Da Pia
Paola Guerra (responsabile artistica della Compagnia Teatro della Ribalta) ha scritto questa testimonianza.
A. se ne stava seduto non gli vedevo neanche la faccia da tanto era chinato sul quel suo corpo robusto ma spento. Che cosa avesse esattamente non lo sapevo…una serie di DIS ( dislessico, disgrafico, discalculico…) insomma DIS-graziato, con un percorso scolastico fallimentare ed un ruolo nel mondo ancora più accidentato. Per me fu amore a prima vista. Solo che anche noi del Teatro la Ribalta eravamo da poco tempo operativi e lui sarebbe stato il primo stagista ad inserirsi in un gruppo di attori disabili e non. Tutto era nuovo sia per lui che per noi. A. accettò di buon grado. Il primo impatto con il teatro fu durante il montaggio di uno spettacolo al Teatro Puccini di Merano e mi ricordo bene come A. assisteva già un po’ stupito al lavoro dove tutti facevano tutto, sia gli attori che i macchinisti, per non parlare dei temi trattati in scena (da Pirandello all’Eugenetica nazista..) Poi cominciarono i laboratori veri e propri con gli attori. Lo lasciai in pace seduto sulla sedia a guardare quello che accadeva . Il suo sguardo diventava sempre più attento, la schiena si alzava . Dopo una settimana cominciò ad entrare nello spazio e a muoversi. Da lì tutto cominciò a salire. Anche il suo corpo. In poco tempo A. diventò loquace e con quella sua intelligenza acuta ci faceva mille domande. Iniziò a muoversi nello spazio sia fisico sia relazionale e in poco tempo è diventato un punto di riferimento per gli altri attori. Il suo rapporto con me è diventato sempre più intenso, spiritoso, collaborativo.
Segue tutti i laboratori formativi sia con me sia con Antonio Viganò (del quale ha un rispetto totale) ma ha incontrato altre competenze artistiche come Vasco Mirandola (teatro), Alessandro Serra (teatro), Julie Stanzak (danza), Annalisa Legato (clown), Alessandra Limetti (voce), Sandra Passarello (canto). Rimane li, comunque, il suo profondo disagio nell’uso della parola in scena , ripetere anche la più piccola frase lo mette immediatamente in una condizione di agitazione e inferiorità. L’impegno è grande ma la sua condizione preme mettendolo in uno stato di ansietà ben nascosto dietro battute sagaci. Nel 2016 Antonio Viganò decide di inserirlo nella nuova produzione IL BALLO, spettacolo in cui è presente la compagnia quasi al completo. Per A. è un ulteriore salto.
Il Ballo
L’allenamento coreografico con Julie Stanzak lo aiuta la memoria del corpo, un corpo che ancora non gli appartiene pienamente ma che cerca in tutti modi di recuperare. Va in scena per la prima volta al teatro Cucina di Milano (Olinda) nel settembre 2016 tra ansie mascherate ma serio ed efficace. Nel gennaio del 2017 decidiamo di mandarlo a Cardiff in Inghilterra, con un altro dei nostri attori, per partecipare ad uno stage internazionale con Scott Grahm , coreografo di successo, con il quale abbiamo intenzione di mettere in scena uno spettacolo coprodotto (Italia-Inghiterra, Spagna) che debutterà nel 2018-19. Nell’aprile 2017 viene assunto nella Compagnia. Da ultimo pochi giorni fa A. ci sorprende durante lo stage con Antonella Bertoni recitando un monologo di Jago ( Otello) a memoria. Forse ancora qualcosa è volato via, forse un altro pezzetto si è ricongiunto nel disordine dell’anima di M. Siamo grati a lui per i suoi sforzi e i suoi traguardi perché ci dà la misura del lavoro che quotidianamente facciamo e che a volte persi o inquieti ci perdiamo. Matteo, per ora, non è più DIS ma …. GRAZIATO.
Paola Guerra
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Tags: featuredroberto.rinaldi
Autore: roberto.rinaldi
Laureato in Discipline delle Arti Musica e Spettacolo facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Bologna, Psicologia Clinica Istituto di Psicologia Clinica, Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università degli Studi di Bologna . Diploma di perfezionamento Scuola di specializzazione in Metodologie Autobiografiche e Analisi dei Processi Cognitivi Istituto di Pedagogia per adulti. Università degli Studi Statale di Milano 1998. Scrittore e giornalista pubblicista, critico teatrale è direttore responsabile di rumor(s)cena.com Coautore insieme a Carlo Simoni, primo attore del Teatro Stabile di Bolzano "Cronaca di una tragedia. Beatrice Cenci il mito". E' stato consulente del direttore artistico Marco Bernardi del Teatro Stabile di Bolzano, nell'ambito della stagione Altri Percorsi del 2011. Al Teatro Astra di Vicenza nella stagione in corso Niente Storie del 2011/12 ha moderato i dibattiti con le compagnie Babilonia Teatri, Punta Corsara, Fondazione Teatro Pontedera.
mercoledì 11 ottobre 2017
sabato 7 ottobre 2017
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