venerdì 13 settembre 2019


Le sirene.
            Forse più dei leoni e delle aquile, più degli elefanti e dei serpenti, tutti animali che popolano la nostra cultura con l’inesauribile ricchezza della loro trasfigurata simbologia; più delle balene, che navigano misteriose fra le pagine di libri splendidi come Moby Dick di Mellville; forse più di ogni altro animale reale, sono le fantastiche sirene che più profondamente hanno affascinato nei millenni la mente umana.
Le sirene sono giunte a noi come entità femminili del mare, che seducevano  il navigante col canto e lo  distoglievano  dalla giusta rotta. Fra tutte le raffigurazioni che la nostra immaginazione ha potuto concepire dell’ambiente naturale più vasto e inquietante che ci circonda, questa è certo una delle più potenti e diffuse. Ne è popolato il vasellame di tutto il Mediterraneo, le loro forme appaiono dovunque nei bassorilievi, nelle sculture… Basti pensare che nell’Odissea Omero ne ha lasciato una raffigurazione essenziale  in appena pochi versi, ma che sono rimasti incisi per sempre e  in modo indelebile nella tradizione folclorica, letteraria, artistica. E’ vero che la stessa fortuna non hanno avuto testi letterari in cui le misteriose e terribili figure – magari diversamente  rappresentate - pure compaiono, come le Argonautiche di Apollonio, uno dei più antichi di argomento marino. Ma questo non vuol dire che nell'insieme,  la tradizione non appaia complessa e vasta.[1]  E che  si tratti di un mito dal nucleo inossidabile, in grado di esercitare ancora oggi tutto il suo fascino lo prova perfino  uno dei più fortunati film della produzione Walt Disney, La sirenetta.

 Ibridi.
            Spesso – nella tradizione marinaresca - ci si imbatte nella fiducia che un mito così diffuso debba necessariamente discendere da esperienze vissute, condivise, in certo confermate dall’esperienza concreta… E così non senza compiacimento  si ipotizza che all’origine di questo racconto vi sia stato un vero animale marino, un mammifero ormai scomparso, o quasi, nel Mediterraneo: la foca monaca. I pescatori e i marinai per millenni avrebbero fantasticato sulla presenza di simili miti creature (le cui femmine sono dotate di mammelle) su scogli sperduti nel mare o anche lungo le coste inaccessibili. La loro apparizione non era infatti infrequente prima che i traffici marittimi e gli inquinamenti ne riducessero la popolazione complessiva forse a poche unità. Stefano D’Arrigo in Horcynus Orca (un poderoso romanzo di argomento   marino di qualche lustro fa) vi alludeva direttamente: “ ma ve la figurate a sirena sta iattamammona? Ve la figurate che fa impazzire gli uomini con le sue beltà? E dove le ha ste beltà? Dove se le tiene nascoste? E i galleggianti dove li ha? Dov’è minnuta?  E la capigliatura lunga, riccia e bruna? E il biancore di pelle come di latte eh?.. “
E analogamente all’origine delle stesse credenze in altri mari saranno stati altri mammiferi come i dugonghidi – diffusi un tempo nell’oceano indiano, in Australia, nel golfo Persico, nel mar Rosso… O i lamantini, presenti dalle coste d’Africa all’Amazzonia, dalla Florida ai Carabi. C’è stato nei secoli passati un gran fiorire di studi e osservazioni su questi animali, un ripensare estenuante a certe loro affinità con gli esseri umani, fonte di ogni fantasia e supposizione. Lo stesso Jules Michelet, nel suo libro del 1861 sul mare, con mente razionale ma con gli strumenti scientifici limitati del tempo, aveva cercato di indagare le ragioni evoluzionistiche di tali animali, da sempre oggetto di attenzione da parte dell’uomo, ma soprattutto di crudeltà tali da arrivare di fatto al loro sterminio.
Da tutto questo retroterra culturale, sono scaturite le sirene. Archetipi affascinanti e inquietanti di ibrido, le  sirene sono state a lungo raffigurate per metà donne e  per metà uccelli. Solo in  età tarda saranno per metà pesci. Ma la fede nella loro esistenza non è stata indiscussa… Nel suo fervore di grande razionalista, Lucrezio  negava  che potessero esistere creature (non diversamente dai centauri) formate da  membra fra  lori  discordi, membra che non crescono parimenti né decadono  insieme nella vecchiezza, né possono amare nello stesso modo, e che nemmeno possono cibarsi delle stesse sostanze. Addirittura, Virgilio  nell' Eneide  ne evitava la rappresentazione,  lasciandoci solo intravedere i loro scogli disseminati di resti umani,  forse accogliendo  la tradizione che le voleva morte suicide dopo il passaggio di Ulisse.  Al pio Enea fu risparmiato dunque il confronto immondo con quei mostri.
Forse  proprio la loro enigmatica natura mista le ha  fatte giungere fino  a  noi : portano  con  sé -  nell'ibridismo - l'ambivalenza,  la polarità, la doppiezza, dimensioni a  cui l'arte  e  la  poesia moderna  si  sono aperte  largamente. Alberto Savinio scriveva a Ibsen a proposito di quelle  sue figure umane  dalla  testa  di cavallo :  in  queste  forme apparentemente  ibride  e  fondamentalmente  armoniose, vi è traccia dell’espressione del carattere umano più profondo e sacro. 

La bonaccia.
Qui vorremmo riflettere sugli originari aspetti marini  del mito, un’occasione per riflettere su aspetti profondi e forse poco evidenti, ma centrali del nostro rapporto culturale, contraddittorio e perfino a volte conflittuale, con l’ambiente del mare.
Nel racconto di Apollonio i marinai, spinti da  una  vivace brezza,  incontrano le sirene. Non c'è per loro il  pericolo di restare  fermi  nella bonaccia ad  ascoltarle,  il loro richiamo semmai può indurre ad abbandonare  la  nave  per unirsi a loro. Come fa il giovane Bute, il più sfortunato di tutti,  che  si tuffa in mare, ma che tuttavia è salvato  da Afrodite e fonderà con lei Lilibeo.  In  Omero  invece la brezza non c'è : i marinai di Ulisse devono far  forza  sui  remi  con  grande   volontà per allontanarsi dalla  zona dove le sirene estendono  la  loro pericolosa  influenza.  Quella  zona  di mare  è  infatti caratterizzata  dalla bonaccia. Non c'è un alito  di  vento, l'unico modo per non arrestare la corsa è remare. Questa diversa situazione  raffigurata nell'Odissea, pare essere risultata la  più suggestiva, quella che più ha influenzato la tradizione : le sirene, variante di  demoni   meridiani, compaiono in  una bonaccia nociva e paralizzante,  nel momento della canicola, dei raggi a perpendicolo (si ricordi che  il sole ammorbidisce la cera con cui Ulisse si tura le orecchie).  Nella tradizione letteraria  - dalla Ballata del Vecchio marinaio di Coleridge ai drammi marini di O’ Neill al nostro Mario Tobino (L’angelo del Liponard è fra i più bei racconti italiani di ambiente marino) - la bonaccia, si sa, è  considerata un grande pericolo  per i naviganti, pericolo talvolta anche maggiore della tempesta. In mezzo  al  mare, l'inazione,  la stasi, il ristagno di ogni forza contagiano la   nave :  sopravviene  il torpore,  la pesantezza, lo stordimento. E quindi la perdizione, la  morte. 
Fra i recenti romanzi contemporanei che giocano  proprio su questi temi, vi è La stiva e l’abisso di Michele Mari (Milano Bompiani 1992). In una estenuante bonaccia un galeone spagnolo  è immobile nell’oceano… Lo sfacelo del corpo tiene immobile il capitano. Ma un analogo sfacelo corrompe la nave. Il confine fra la vita umana di bordo e la vita inquietante e misteriosa del mare  si fa labile, la vita del mare comincia ad occupare la stessa stiva con la comparsa inspiegabile di creature sconosciute.
In  greco “bonaccia” si dice galène, e il termine indica il mare calmo, sereno, ma in senso traslato indica anche serenità d'animo. Però bonaccia si dice anche malakìa :  il senso di questa parola è un  po’ diverso,  la sua accezione  è  negativa :  si  estende  a mollezza,   effeminatezza, e  anche  a ignavia,   fino   a malattia. Il Vocabolario marino e militare del Padre Alberto Guglielmotti (Roma 1889), che raccoglie vari modi di dire per bonaccia, spiega il termine malaccia con “ requie spossata e nociva”. Insomma, lo sa chiunque vada per mare, ci  sono due diverse   calme   marine :  una  piacevole  e positiva, l'altra inquietante, corruttrice e pericolosa. Ora la  sirena è collegata indissolubilmente alla malakìa,  alla  calma pericolosa e mortale.

            Quanto alla parola che usiamo per indicare le sirene, seppure l’etimologia appaia incerta, le varie tracce paiono suggerire un significato omogeneo. Forse il termine viene dal greco seirà, che vuol dire legaccio, corda, laccio? C’è un verbo seirazein che vuol dire legare: ma un altro seirazein vuole per altro dire prosciugare, provocare siccità,  con riferimento ai pascoli. E si sa che il sole allo zenit pareva avesse l’identico potere del malocchio, di arrestare la corsa della nave quasi la legasse (ligatio navis). E’ anche possibile infatti che sirena venga da seirios, ardente, bruciante. Potrebbe esserci dietro il sanscrito surya, sole o anche bruciante e insopportabile siccità, con riferimento in tal caso al sole zenitale, cioè proprio a quell’ora meridiana in cui le sirene si manifestavano. Ma, come qualcuno ha proposto, sirena può forse venire semplicemente dalla stella Sirio, costellazione della canicola. Ma di nuovo siamo rimandati allo stesso campo semantico, si rimane insomma nello stesso ambito di significazione, di caratterizzazione: Sirio - ricordava Roger Caillois nei suoi studi giovanili sui demoni meridiani[2] - portava con sé un’atmosfera perniciosa capace di corrompere la carne ancora attaccata alle ossa, facendo marcire i corpi nella terra. Sirio è l’astro più brillante di tutti, che rende le donne lascive, spossa le energie degli uomini. Per contro la siriasi - infiammazione per troppo caldo - equivale all’assideramento dovuto alle basse temperature nel senso che presenta gli stessi sintomi psicofisici caratteristici della canicola : spossatezza, sonnolenza, apatia. Che sono poi di nuovo gli stessi effetti ipnotici e fatali che la tradizione mitica attribuisce al canto delle sirene. E’ stato infatti anche notato che sia nelle nebbie che nella bonaccia marine si hanno gli stessi fenomeni psichici dello smarrimento sulla neve e sui ghiacci, quali perdita di sicurezza, di orientamento, di riferimenti e di stimoli. Uno dei drammi marini di O’ Neill La pesca è ambientato tra i ghiacci dei mari nordici, e la vicenda che si svolge a bordo del peschereccio avrebbe senz’altro potuto avere come sfondo la bonaccia dei mari caldi...

Le conferme letterarie non mancano. Già Claudiano  (IV sec. d.c.) ha scritto : "Sulle carene  delle  navi (le sirene) fermavano l'aria avvolgente mentre dalla  poppa  una voce colpiva  l'imbarcazione.  Né piaceva più  al navigante orientarsi  nel  sicuro cammino del ritorno.  Ma  non  c'era dolore, la stessa gioia dava la morte."  E Marziale "Sirene, pena ilare dei naviganti, morte soave, godimento crudele." Pavese  in uno  dei dialoghi con Leucò, fa  dire  a  Saffo parole perfette sull'angoscia e il desiderio dell'annullarsi  nel mare :  "Ma  tu lo senti  questo tedio,  quest’inquietudine marina ?  qui tutto macera a ribolle senza posa..."

Ma le sirene sono per più aspetti legati alla morte : esseri meridiani, rappresentano anche i defunti. Alcuni  commentatori (Georg Weicker) insistevano sul fatto che  nell'episodio omerico, il nucleo  portante  fosse  il vampirismo  animistico, secondo una  tradizione  che   si sarebbe  smarrita.  Ebbene, in Coleridge (e anche  in altri moderni) proprio questa tradizione è ripresa : l'antico marinaio assetato per la bonaccia, beve il suo stesso sangue per  rinfrescarsi la bocca. In una leggenda tedesca tutti a bordo  stanno morendo, per una bonaccia terribile, di sete  e fame.  E il pilota propone che si uccida il mozzo per  berne il sangue... (sangue e acqua di mare, si sa, si equivalgono, perfino biologicamente, e nella bonaccia  il  mare  diviene sangue).  Per non  dire della  tradizione   di racconti  di naufraghi alla deriva, che si nutrono  di carne umana,  coma  la vicenda famosa della Medusa,  o quella  della baleniera Essex.
Le acque  in cui le sirene esercitano il  loro  pericoloso richiamo,  sono dunque con certezza la acqua  calme,  molli,  corrotte e corruttrici,  quelle della bonaccia : della malakìa. Chi  cede, chi non fa forza sui remi, chi si lascia andare al torpore, all'inazione,  allo  stordimento, finisce sugli  scogli. E il suo corpo vampirizzato è destinato a corrompersi, a marcire, ad andare in putrefazione. Benché si possa affacciarne  solo l'ipotesi   suggestiva,  tali  connotazioni  propongono   un argomento dei meno studiati, quello dei morti  annegati,  i cui corpi  marciscono sulle rive. In certe  tradizioni,  i corpi degli annegati  vengono trafitti  al  cuore  con  un paletto  di legno, e  sepolti  in  terra  non  consacrata : trattati cioè proprio come vampiri.
Che anche attraverso l'accenno al vampirismo riaffiori  nel mito un aspetto  di mortale  attrazione   sessuale,   non sorprende. Le sirene hanno forma femminile, seducono l'uomo e lo portano alla rovina, eccitandone un lussuria che non soddisfano, per  alcuni commentatori  perché non avrebbero nemmeno l'apparato  sessuale idoneo (viene in mente la ricca tradizione che vuole identificare nelle sirene le foche monache o altri mammiferi marini). Le conferme nella cultura moderna sono infinite.
Nel bellissimo racconto Lighea, Giuseppe Tomasi di Lampedusa racconta di un govane che isolatosi su una sperduta spiaggia siciliana per studiare, entra dopo molti giorni di vita solo a contatto col sole, col mare e col silenzio, in relazione con una bellissima sirena, che gli consente di assaporare l‘amore che solo i divini possono sperimentare. Da Lighea il giovane riceverà anche la conoscenza della lingua classica tanto da diventare il più grande studioso di antichità. Ma per tutta la sua vita egli non potrà più avvicinare altra donna mortale, avendo conosciuto qualcosa che non è paragonabile a nient’altro. Se Lighea nei giorni assolati del loro amore giovanile gli aveva offerto di raggiungerla negli abissi e godere con lei delle gioie infinite dell’immortalità, il professore ha preferito invece svolgere tutta la sua vita umana sulla terra, anche privo di quell’unico grande privilegio che è l’amore di una divinità. Ma arrivato alla vecchiezza, dopo aver confidato a un giovane interlocutore la sua vicenda, decide di dare infine addio alla banale e dolorosa, insoddisfacente vita umana per tuffarsi dal parapetto della nave e raggiungere fra i flutti l’amore giovanile nella sua intatta eterna perfezione acquatica.

 Solitudine del comandante.

L'episodio omerico di Ulisse mantiene un grande fascino per la solitudine  del comandante,  legato  per  suo   volere all'albero. La sua diversità dai marinai è anche in quel suo voler sperimentare  la voce delle sirene, tuttavia impedendosi a priori di restarne  vittima.  Sia  nei drammi marini  di O’ Neill che nell’ Angelo  del  Liponard di Tobino, come  in tanti analoghi testi  straordinari di Conrad, ma anche nel passi ovidiani di Bacco e i pirati, il capitano è l’essere solitario e superiore, figura sacra investita di potere religioso : la sua importanza  a bordo, il suo ruolo insostituibile lo rendono colui che più drammaticamente deve contrastare, con   la  sua  volontà  ferrea, le tentazioni. E’ evidente che la  tematica  si è sviluppata nella cultura cristiana con caratteri propri. In genere, tuttavia, egli deve essere casto,  non cedere  al richiamo   della   sirena dell'amore. Paura della sirena sarà allora anche  paura di perdersi, di tradire   e di  abbandonare, di  trasformarsi.  Per questo nell'episodio di Bacco nelle Metamorfosi ovidiane i marinai si  trasformano in delfini. Interessante anche la metamorfosi descritta  da Ovidio della ninfa Ciane, talora ritenuta una sirena. Ovidio descrive  il disfarsi del corpo di Ciane : la sua  membra  si fanno molli, le ossa diventano pieghevoli, le unghie perdono durezza, al  posto del sangue entra l'acqua, tutti si  sfa,  diviene inafferrabile. Ogni sostanza si trasforma  in  acqua  passando  per la corruzione a il disfacimento del corpo.
Ma  a  differenza della ninfe, delle nereidi  o  di  altre figure femminili dell'acqua e del mare, le sirene sono  donne-uccello, appollaiate su scogli marini.  la coda  di  pesce verrà più  tardi,  Da  Omero ai cristiani  le  sirene sono donne-uccello come le  sfingi.  E come queste hanno relazione con la  sapienza. La sfinge  che propone a Edipo il suo enigma, saggia il potere conoscitivo dei  passanti. E infatti Edipo è “colui che sa”.  La sfinge rende succubi coloro che non hanno intelligenza sufficiente, dà  loro la morte, addirittura vi è collegato anche (come  si vede nelle raffigurazioni) un dominio sessuale. La  stessa  cosa avviene per le sirene da Omero in poi.  In particolare per gli antichi greci (così scriveva Ateneo  nel II-III  sec.) la vera sapienza era connessa alla  musica. Il canto straordinario  seducente e ammaliatore delle sirene,  la situazione di pericolo che si determina nelle loro acque,  è un enigma, e solo chi è intelligente come Ulisse, l'astuto per eccellenza,  si salva. Ma quale  fosse l'enigma  delle “dotte” sirene (proprio così  le chiama  anche  Ovidio),  in  cosa consistesse davvero il  loro straordinario canto, è rimasto  un mistero :  quesito ritornante nella tradizione, rimasto senza risposta.

           
                                               Lorenzo Greco




[1] Ne fornisce un ampio quadro il lavoro di Meri Lao Le sirene (da Omero ai pompieri), Rotundo editore, Roma 1985.


[2] Roger Caillois I demoni meridiani, edizione italiana (che è anche la prima edizione in volume) a cura di Carlo Ossola, Bollati Boringhieri, Torino 1988.




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