Posted Renzia D’Incà
Foto di Paolo Foti
Dario Marconcini non è nuovo a scovare testi inediti e mai rappresentati di
grandi autori contemporanei internazionali e a cimentarsi con micropièces in
controtendenza, magari di non facile
appetibilità per un pubblico teatrale avvezzo a ben altro. Ma questo del resto
è il coraggio che l’ha contraddistinto nella sua lunga permanenza alla direzione artistica del Teatro di Buti.
Così la prima a cui abbiamo assistito si è rivelata al solito, come un omaggio
al Nobel Harold Pinter- autore molto
amato dal regista e attore e da Giovanna Daddi, e una prova magistrale da parte
dei tre monologanti in scena, Ellen ( Giovanna Daddi
in tailleur grigio) , Rumsey , Emanuele Carucci Viterbi in
tenuta da cavallerizzo e Bates, lo
stesso in versione country Dario
Marconcini. Testo
inedito ( del 1969), quindi, questo Silence
e quasi mai rappresentato nella bella traduzione di Alessandra Serra,
definito dallo stesso autore complesso a causa della” sua struttura piuttosto difficile” tanto da richiedergli diverse
stesure, è di una modernità sconvolgente. Tre personaggi in scena con storie
intrecciate, tre solitudini assolute che dell’incomunicabilità cifrano
leproprie monologanti aporie, aggrappati ai loro sgabelli uno di fianco
all’altro, vicini ma ineffabilmente separati, sullo sfondo della campagna
inglese , tre singole finestre , tre ferite-feritoie, forse bovindo su un
paesaggio astratto di rami di bosco d’inverno. La scena ( e le luci)ideate da
Riccardo Gargiulo e Valeria Foti, rimarcano la liquidità dello sfondo a misurare e dilatare il senso della
rarefazione degli spazi, dei gesti e del parlato- quel gradiente che è specchio esistenziale del“ guardar fuori-
guardarsi dentro”.
E’ il
testo qui a fare da padrone, e come
potrebbe non esserlo, in questa mezzora di spettacolo. Poesia allo stato puro
ma adattata ad un trattamento da micropièce come ci ha abituati quel geniaccio
arrabbiato di Pinter. Al centro del discorso di tutti e tre i personaggi vi è
la memoria, una memoria pesante, franta, scheggiata di vissuti che in una
maniera o in un’altra hanno interagito in una vita passata e che provano a
raccontarsi nel presente, un presente disattuale tutto impastato di
reminescenze apodittiche, attraverso microflashback, ripetizioni di luoghi,
azioni, forme, parole irrisuonanti, il tutto dentro una narrazione in forma
circolare ossessiva-che a me ha ricordato anche un certo modo di scrivere per
la scena del grande Thomas Bernhard in certe sue
drammaturgie (specie in Ritter Dene Voss).
La
circolarità della scrittura è dotazione
sicura di questo inglese che non cessa
di stupire a distanza di decenni per la
modernità del suo tratto che incide come un maglio e fa della parola una costruzione classica a scandagliare nei meandri della
psiche, i misteri della circonvoluzione del discorso che non dice non parla (
per dirla alla Lacan) gira a vuoto fino
a raggiungere per sottrazione e per necessario punto d’arrivo, stazione fine
corsa al punto esatto nel centro esatto che solo può essere occupato dallo spartito
della parola “silenzio”.
Del
resto Pinter la questione del “ silenzio” l’ha trattata spesso nei suoi lavori,
per esempio in Ache( testo del 1959).
Stessa ambientazione antiteatrale: una
stanza (topos letterario pinteriano), tre personaggi una donna e due uomini. Il terzo incomodo
sposta fuori il e dal discorso. In questo Silence
sembra essere la donna la vera protagonista
della insana misteriosa relazione a tre.
Si intravede una incestuosità ( nella piece originale la ragazza è
parecchio più giovane dei due)? Forse
una trasfigurazine di una relazione
antica col padre ( sulle ginocchia un bacio sulla guancia destra uno sulla
sinistra).Una relazione sessuale che
appartiene al passato dei tre? Spezzoni di storie si susseguono a rimbalzo: lei
( loro) raccontano a ruota di passeggiate, di paesaggi londinesi
con latrati di cani, di latte ( ecco, qui ho trovato il riferimento a Dylan Thomas col suo Sotto il bosco di latte, ma c’è anche il
moniologo della Molly Bloom di Joyce). Il flusso di coscienza passa ai due uomini, coi loro
vissuti, le loro reminescenze. Lei è la bambina, motore che accende desiderio,
impone ascolto. Che non si dà se non per schegge, ricordi, assiomi, percezioni
della natura di suoni, animali – i cani, appunto, sensorialità specie visiva-
ma anche la discarica, il fetore, la
sporcizia fuori e dentro. Le frasi,
ossessivamente, si ripetono nella scansione ideata da Pinter fino ad
assottigliarsi come echi per approdare
alla smemorizzazione, quasi da malattia, quasi ripetizione ossessiva di chi ha
perso quei neuroni che sono potrebbero essere ancora, autocoscienza.
In
una mezzora, insomma, una densità di storie inenarrabili, perché ciascuno la
stessa storia se la racconta a modo suo, colla sua piccola memoria. Con ciò che
vuole ricordare, veramente coi limiti della propria età che comunque incide
parecchio, nel ricordare. E tutto il resto
oltre la verbosità oltre il troppo, richiede la lezione della pulizia, quella del silenzio.
Visto
a Buti , 5 Maggio 2014
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