martedì 26 maggio 2015


NOSTOI - Storie di ritorni e di esodi by renzia.dinca Necropoli di San Cerbone- Populonia ( Livorno) PUBBLICATO su RUMOR(s)cena di Roberto Rinaldi Nostoi è uno degli eventi dell’Anno dell’Archeologia della Regione Toscana, un evento di performing arts con diverse collaborazioni fra cui Fabbrica Europa. Un progetto molto originale che intercetta l’archeologia col teatro e con l’antropologia e molto il tema socio-politico così tristemente attuale delle culture che si affacciano ora e da sempre su quel mare Mediterraneo che ci ha concepiti anche solo ed in quanto cittadini nati in Italia. E’ una partnership fra Italia, Tunisia e la Francia, sostenuta dalla Comunità europea. L’appuntamento è in un luogo di straordinaria bellezza (la regia è di Michael Marmarinos), il golfo di Baratti, ma anche di esoterica suggestione. Si tratta della necropoli etrusca di Populonia. Ma non si va ad una semplice visita ad un sito, come altri, etruschi, diffusi e disseminati fra la Toscana ed il Lazio presso la costa tirrenica, perché qui entra una progettualità che mette in campo competenze molteplici soprattutto teatrali e performative ed insieme storico-artistiche. Delle guide ci attendono al cancello della necropoli come abituali spettatori-visitatori di uno spazio ricco di ancestrali storie, quali quelle che abitualmente ci aspetterebbero se fossimo in un sito internazionale archeologico a Petra come a Festo o Atene come a Pompei o Selinunte. In realtà muniti di cuffie come d’abitudine, da dotazione in luoghi archeologici e museali, altro ascoltiamo che una consueta “ lezione” da manuale di storia dell’arte antica. Ci si avvia in gruppo dopo aver presenziato alla conferenza stampa italo-tunisina dove oltre a presentare il progetto, i curatori non potevano non accennare a quanto accaduto poche ore prima al Museo del Bardo a Tunisi. Coincidenze? Chissà. La guida vocale inizia col presentarci il sito verso cui transiteremo e perlustreremo: è Populonia, antica Fufluns, nome del dio dell’ebbrezza. E in effetti la zona è ricca di vigneti e produce ottimi vini anche oggi, area di colline che danno ricchezza ai coltivatori toscani. E Populonia fu città antica della metallurgia. Del resto Colline metallifere cioè dove si estraeva ferro (oggi c’è un recupero delle ex miniere molto interessante anche per il turismo non solo balneare), si chiamano oggi i promontori che delineano quel paesaggio geografico con vista straordinaria che va dal pisano a San Vincenzo nel livornese e giu giu fino al grossetano. Nel passato la città etrusca-porto di Populonia, commerciò con tutti i Paesi del Mediterraneo: greci, romani, punici, sardi, corsi. E di ciò le nostre guide- attori, ci narrano. Ad un tratto infatti si interrompe la voce in cuffia e parte la voce diretta di chi ci porta ad addentrarci nella reale e simbolica realtà del sito, compresa una eventuale visita della tomba. Il vento ed il mare in lontananza segnano l’orizzonte epifenomenico dell’evento. Poi tornano gli echi nelle cuffie. Ci narrano di Aiace, di Patroclo ed Achille, di nuraghi, insomma di echi del nostro mare Mediterraneo (Mare Nostrum?). Di ciò che sono quelle tombe- ipogei e di cosa ci è stato ritrovato. Saccheggi a parte, tra passato e presente. Nostoi è stato anche a Cartagine Byrsa in questi ultimi giorni di maggio con lo stesso gruppo di attori ed un altro noto regista, questa volta tunisino Kais Rostom, a guidarlo. Visto a Baratti (Livorno) il 28 marzo 2015 Direttore artistico del progetto Michael Marmarinos Coordinamento cantiere artistico Marina Bistolfi e Isabella Valoriani Con 30 Artisti italiani e tunisini

martedì 19 maggio 2015


Teatro, Teatro recensione — 19/05/2015 08:21 Sono Voci di famiglia alla cupio dissolvi è su RUMOR(S)CENA di Roberto Rinaldi …Posted by renzia.dinca BUTI (Pisa) – Chi sono questi tre personaggi: una madre sola, anziana un po’ despota , un figlio lontano, assente, non si sa dove né perché, il padre morto. Sicuramente l’ambientazione scenica ricorda uno spazio geografico ma solo “interno” molto british a giudicare dagli arredi vittoriani come le pettinature ed abiti di scena. Un padre defunto a cui spesso si fa riferimento nelle mancate conversazioni fra Madre e Figlio (entrambi figure fantasmatiche), che si appalesa in gramaglie-una specie di padre zombi, forse variante edipica di Amleto?, che torna nella sua unica agnizione con micro monologo nel finale. Chi sono, costoro? Harold Pinter è maestro di misteriose microdrammaturgie e Dario Marconcini, direttore storico del Teatro Francesco di Bartolo, ne restituisce, in scena, e da tempo (sua la regia di Silence sempre a firma di Pinter, del 2014), l’immaterialità, il fascino tutto o quasi affidato al flatus voci quanto le nebbie che si respirano fuori e dentro un teatro aggrappato a quel Monte Serra colle sue antenne televisive, di qua e di là dal Monte verso il mare insomma l’hic et nunc, anche location ma “esterna” della messinscena. Voci di famiglia 0014+scritta Questo lavoro di Pinter, uno fra i suoi ultimi, molto complesso (poco drammaturgico in senso stretto), è stato trasmesso come radiodramma in Inghilterra nel 1981. Tradotto in forma quasi da dialogo epistolare, ma solo perché così può essere(anche) tradotto per la scena. I personaggi infatti-la madre, il figlio- raccontano come se scrivessero lettere l’una all’altro ma senza che le missive vengano recapitate dai propri scrittoi, dai propri sofà ai postini dell’altro. I due, madre e figlio, sono in scena in contemporanea mentre lei è riflessa su luce blu, lui rossa, in condensazione che da rarefatta si fa via via fortemente espressionista. E’ come se vivessero dentro salotti analoghi come sfondi ma dentro il dramma di analoghe estraneità. La madre, completamente sola, un po’ livorosa forse per la mancanza del figlio, il figlio che con lei non comunica affatto, dentro una incestuosità originaria- ma non dialettica ove racconta- scrive? alla madre? di coinquilini alquanto ambigui al limite della sordidità. La madre che si relaziona coi fantasmi del marito e del figlio. Voci di famiglia 0002+scritta Un figlio che si confronta con una ambientazione dove la madre è esclusa mentre altre figure sia femminili che maschili rasentano una moralità di finzione mista a dissolutezza. Il figlio è comunque il protagonista (Emanuele Carucci Viterbi, molto convincente nella sua diafana perversità) che sussurra e a volte cerca di comunicare risvolti di storie ad intreccio di cui è connivente e colluso, con figure appena accennate- bambine prostitute figlie, madri/amanti come affittacamere ambigue, uomini di legge con tendenze omosessuali represse. Il finale dissolve su musiche di Purcell , Dido et Aeneas. Insomma alla cupio dissolvi. Vedi Pinter. Regia di Dario Marconcini Traduzione da Harold Pinter di Alessandra Serra Con : Emanuele Carucci Viterbi, Giovanna Daddi e Dario Marconcini Scene e luci di Riccardo Gargiulo e Valeria Foti Costumi Di Giovanna Daddi Visto il 23 aprile Teatro Francesco di Bartolo a Buti ( Pisa)

Teatro, Teatro recensione — 19/05/2015 08:26 L’Inferno dentro secondo Gabriele Paoli è su RUMOR(S)cena di Roberto Rinaldi Posted by renzia.dinca BUTI (Pisa) – Un giovanissimo regista italiano Gabriele Paoli, formatosi al DAMS di Bologna, che vive e lavora a Londra alle prese con una testualità L’Inferno dentro (tradotta dall’inglese) tutta di suo pugno a immaginare e dirigere anche via skype- e questo è un fatto degno di per sé di grande novità per il teatro di tradizione-sei donne sei attrici italiane di età diverse. Tutte accomunate in scena, dalla stessa tragedia psico-sociale: sono state internate in manicomio senza essere pazze ma “solo” violentate nel corpo e|o nella psiche da eventi procurati da altri, quasi sempre maschi. Come maschio è lo psichiatra che in un Istituto di cura nel nord dell’Inghilterra le manipola, finge d’ascoltarle, finge di portare loro aiuto per garantire solamente la sua propria sicumera, il proprio status, la propria cerimonia del the delle cinque (ma una voce femminile guasta la follia- che, denuncia, è tutta del medico: è quella di una giornalista a sconfessarlo attraverso la voce di Giovanna Daddi seduta fra il pubblico che con risata sarcastica accende i motori del dramma che andrà a incominciare. Poi inizia la serialità delle storie cliniche. Sei sedie, sei donne sedute, scolpite in mortificanti grembiuli incolori, addosso evidenti lividi, forse anche auto procurati. Una sirena che sembra un allarme di guerra scandisce i tempi di entrata ed uscita dall’ambulatorio psichiatrico. La gestualità ossessiva delle internate, che si sfregano incessantemente mani gambe e ventri, è punteggiata da suoni rumori micro deliri vocali – No! Fuoco! Silenzio! Dolore! per cui tutte assumono il ruolo di coro greco a centellinare a commento collettivo la narrazione delle altre, ciascuna in coda, ciascuna in attesa di raccontare o meglio ripetere la propria tragedia che ha nomi e cognomi accanto e sopra il lettino del carceriere-Dottore. Sono storie circostanziate che se ci fosse scappato il morto sarebbero finite alla tragicomica farsa di trasmissione Tv italiana di prima fascia pre TG. Nel frattempo la mente di chi scrive, corre a ricordare quello straordinario personaggio femminile di Stella, narrato sapientemente nel romanzo Follia di MacGrath. E invece le sei donne sono là a raccontare e raccontarsi una dopo l’altra, in successione le vicende della propria via crucis molto terrena perché tutto il registro femminile è spostato sul tragico. In scena sono sedute come se fossero in sala d’aspetto in attesa di ripetere il proprio segreto dolore che è storia clinica da camice bianco ma è soprattutto memoria pesante di abusi quali l’aborto, la violenza in famiglia, la perdita, l’acquistare compulsivo, il tradimento coniugale e la prostituzione. Storie di ordinaria follia verrebbe da commentare, ma non certo da circoscrivere socialmente dentro un sadico rituale medico dove l’auto-narrazione è affidata e circoscritta alle gelide mura di una istituzione totale quale un manicomio. Quello di Gabriele Paoli è un testo di denuncia sociale tutto virato nella sua dimensione registica sul lato del tragico. E’molto interessante il trattamento del testo sul corpo delle brave attrici che raggiungono un bel risultato corale e davvero è impressionante il fatto che sia riuscito a dirigerle così puntualmente attraverso il virtuale, almeno in una prima fase di lavoro, per poi ricompattarle de visu sul palco del Teatro Francesco di Bartolo a Buti, cittadina ai piedi del Monte Serra – i monti Pisani cari a Dante, dove fra l’altro Gabriele è nato, per poi approdare ad altre nebbie ma con sicuri meriti di prova d’artista. Con un cast di attrici efficaci e un Tazio Torrini psichiatra proprio algido come la perfida Albione. Scritto e diretto da Gabriele Paoli Con Gilda Bani, Monica Bauco, Rosanna Gentili, Cristina Lazzari, Debora Mattiello, Giusi Merli, Tazio Torrini e con la partecipazione di Giovanna Daddi Luci Valeria Foti Foto Alessio Mazzantini e Filippo Parducci Visto al Teatro Francesco di Bartolo (Buti- Pisa), l’8 maggio 2015