mercoledì 9 maggio 2018



BELVE- una farsa

renzia.dinca

Prato. Ci sono alcune discrepanze fra ciò che Massimiliano Civica scrive nelle note di regia individuate come obiettivi del suo nuovo lavoro Belve andato in scena in prima assoluta al Metastasio di Prato (dove da poco è diventato anche consulente artistico) e ciò che ci sembra di aver recepito nel corpo a corpo della visione della farsa- che così recita il sottotitolo dello spettacolo, qui dando già una primissima dritta sul contenuto che andremo a vedere. Civica ci ha abituato a messinscene rigorosissime dove le competenze attoriali sono messe in primo piano sotto una direzione severa, con un mandato che rispetta le finalità del genere che vuole rappresentare. Così il genere comico in Dialoghi degli dei coi Sacchi di Sabbia, così nel più recente Quaderno per l'inverno (premiato con ben due prestigiosi UBU nel 2017). In questo lavoro il regista è di nuovo affiancato dal drammaturgo napoletano con cui aveva conquistato la critica dell'UBU e anche tanto pubblico: Armando Pirozzi a cui ha commissionato Belve- una farsa. Farsa: un genere poco praticato sulle scene del nostro Paese dove si è per consuetudine preferito proporre al pubblico commedie o drammi. Ci sono esempi in De Filippo e comunque dentro un filone dialettale ma la tradizione è soprattutto d'oltralpe con copioni fra i più noti, in Moliere e Feydeau. Quella che si era posto Civica sulla carta era una sfida di non facile realizzazione: commissionare al proprio Autore di riferimento la scrittura ex novo di una farsa moderna sul tema dei soldi e del potere, che di questo si tratta in Belve. Tema di grande attualità qui pensato da Pirozzi come una guerriglia in forma di lotta di classe che della lotta di classe ha ben poco ed infatti non si vuol dare nessun segnale che possa far intendere l'ascesa o il tentativo di presa del potere di subordinati rispetto ai padroni. Nella guerriglia fra le due coppie: quella formata da Giocondo e Giorgetta, ricchi imprenditori e quella formata da Betta e Pippo coppia giovane a rischio povertà a causa della famelicità dei vincenti vicini, non si vuole mettere in scena niente di politico ma solo caratteri e non da commedia dell'arte ma statica constatazione - fotografia impietosa della rigidità che contrassegna le differenze fra classi sociali, divise dalla nascita e dal censo e non miscibili. In fondo al plot drammaturgico infatti, l'agnizione risolve il conflitto che si fa a tratti grottesco, a tratti surreale rivelando che solo in una soluzione fantastica quanto inverosimile nella realtà si possa modificare qualcosa del già dato (in questo caso le differenze sociali) e questo finale è nella logica del mutatis mutandis.
La solida struttura pensata e drammatizzata da Pirozzi rispecchia i canoni scolastici del genere farsesco, contaminato però da altre forme di teatro: è in scena una cena a base di cozze organizzata dalla coppia più giovane intenzionata e far fuori per la seconda volta con veleno per topi i due anziani: lui commendatore calvo e segaligno già sopravissuto miracolosamente al primo tentativo malriuscito, lei buffissima arpia over size dalla risata oscena ed agghiacciante. Durante la cena Betta e il marito sono visitati da un caleidoscopico vortice in ingresso ed in uscita di improbabili personaggi fra il circense e la gag da sit com, un vescovo con prete, un killer dj che ha venduto 30 copie di dischi suoi di cui 29 ai famigliari, due poliziotti cow boy sgarruppati. Il finale riserva sorprese e tutto finisce in happy end. Tornando al mandato che si era imposto Civica nell'esperimento della messa in scena della farsa Belve alcune annotazioni: il testo rispetta la struttura canonica di genere e così anche l'attualizzazione tematica. Il cast attoriale scelto da Civica è di alto livello, sono rispettati i ritmi, le pause, la conduzione della fisicità per strappi sulla scena fissa, c'è il rigore e tempi tecnici misurati. Tuttavia qualcosa non ha funzionato. La macchina si è imbrigliata dove l'ostacolo maggiore è stato proprio quel moto alla risata che nel pubblico del Metastasio è stato piuttosto scarso. Si ride sì ma sporadicamente e a denti stretti. La sensazione è che la densità della scrittura drammaturgica di Pirozzi, ricchissima di riferimenti metatestuali messi in bocca ai diversi personaggi- fra cui riferimenti alla funzione della critica, il suo lavorio trasversale a quello della rifacitura attualizzata farsesca con inserzioni dalla pochade al vaudeville senza grossolanità, insomma una responsabilità da esercizio di stile, abbia ingabbiato un po' la scrittura. Questo forse, insieme all'eccessivo strizzare l'occhio a macchiette televisive un po' scontate, non abbia fatto presa su un pubblico smagato o forse abituato ad altre tipologie di scritture per la scena, magari più versatili, se questo era il mandato, al muovere al riso.




Belve- una farsa

di Armando Pirozzi

uno spettacolo di Massimiliano Civica

costumi Daniela Salernitano

luci Roberto Innocenti

con Alberto Astorri, Salvatore Caruso, Alessandra de Santis, Monica Demuru, Vincenzo Nemolato, Aldo Ottobrino


produzione Teatro Metastasio di Prato

con il sostegno di Armunia Centro di residenze artistiche- Castiglioncello


PRIMA NAZIONALE

Visto a Prato, Teatro Metastasio, il 22 Aprile 2018




mercoledì 2 maggio 2018


renzia.dinca





Pontedera ( Pisa)

Questa è una storia di vite intrecciate in labirintiche alchimie. Che hanno fatto un pezzo importante di Storia del Teatro italiano ed internazionale. Vite vissute, intense, di passione estro determinazione e un po' di sagace follia. E' la storia di una coppia, nella vita e in scena: Giovanna Daddi e Dario Marconcini, figure storiche del Teatro toscano e nazionale. Ma è anche un affresco collettivo di un territorio e di un'epoca: il territorio è quello di Pisa e della sua provincia che confina ad est con quella empolese e prima ancora nel tempo, fiorentina. E di una stagione quella post Sessantotto, che nella città della Torre pendente ha avuto esiti di forte segno culturale politico e sociale tanto quanto il Sessantotto a Parigi, a Roma, quello tedesco e quello californiano. Ispirati dal Living Theatre di Julien Beck e Judith Malina per poi passare al sodalizio con l'Odin Teatret di Eugenio Barba e la residenza internazionale di Jerzi Grotowski (che ha partorito l'esperienza attuale di Mario Biagini e Thomas Richards), Daddi e Marconcini sono stati coppia del gruppo fondatore del Teatro di Pontedera poi CSRT (Centro di sperimentazione e ricerca teatrale) e ad oggi confluito nel Teatro Nazionale della Toscana con il Teatro della Pergola di Firenze. Con loro altri giovani fra cui Roberto Bacci e Carla Pollastrelli. La coppia si è poi staccata dal gruppo pontederese per dirigere il Teatro di Buti, un teatro all’italiana scrigno di stucchi e velluti sulle colline fra Pisa e Lucca dove hanno creato uno dei centri di produzione e ricerca teatrali fra più interessanti del nostro Paese. A Buti hanno accolto e prodotto una lunga stagione di spettacoli da Pinter a Beckett a Peter Handke e ospitato un artista come Jean Marie Straub.
Nel nuovo lavoro di Roberto Bacci, da sempre direttore artistico della esperienza pontederese che qui si relaziona in multipli ruoli: regia, co-drammaturgia, scenografia e costumistica nonché ideazione del progetto (in Prima nazionale all'interno delle produzioni del Teatro della Toscana), molteplici sono i segni sia nella tradizione che nel tentativo di nuovo. In scena la coppia, con quattro attori, si cimenta in un non facile filo narrativo in cui entrano pezzi di vissuto della scena e della vita, sessant’anni di storie intime e pubbliche: un caleidoscopio di parole immagini suoni emozioni azioni, uno zoom fra il privatissimo delicato rapporto a due dentro le mura domestiche fatto di memorie, carezze, viaggi, cartoline, progetti, oggetti feticcio e il fuori che è quello della scena praticata per un’intera vita, quella del palco. In Quasi una vita, però, non c’è traccia di facile biografismo ma una quintessenza di sapori umori schegge di autentica poesia. Al centro della scena c’è una porta con doppia apertura. Se si apre da una parte si chiude dall’altra. A scena aperta Giovanna è seduta su una panchina accanto a Dario mentre l’incipit del discorso drammaturgico si apre con una frase che sembra una didascalia: c'era una volta una ragazza… Ma niente è di troppo in questo lavoro che dà attribuzione di segno e significato ad una coppia che ha letteralmente cambiato e rinnovato il senso e l’obiettivo dell’attuale Teatro toscano e nazionale
La scena passa direttamente alle parole di Pinter, uelle di una micropiece- Night (di recente rivisitata anche da Binasco in Night bar), un autore amatissimo da Giovanna e Dario, proposto proprio nelle sue drammaturgie più scarne e proprio per questo graffianti al Teatro di Buti, in cui una coppia rimemora il loro primo incontro erotico. La narrazione della donna e dell’uomo, non combaciano. Perché così è la memoria. Così l’eros. Così è la differenza fra il femminile ed il maschile nel corpo e nella psiche. Non per caso si parte da Pinter, questo Pinter in particolare, per poi trapassare ad un altro cavallo di battaglia della storia delle scelte artistiche che hanno fatto la macrostoria delle stagioni butesi, questa volta caro a Dario, il Faust di e da Goethe. I quattro attori- fra cui Silvia Pasello in abiti cechoviani (Silvia in conferenza stampa ha dichiarato: per me Giovanna e Dario sono il mio modo di pensare il Teatro), come gli altri, eleganti da messinscena di Giardino dei ciliegi tuttavia diafani quasi fantasmi, hanno funzione di appoggio rispetto alle azioni della coppia. E’ come se sostenessero i due attori e sposi ad affrontare i diversi temi in ballo: l’amore, la malattia, il viaggio, i ricordi, il senso dell’esistenza nella vita quotidiana e nel lavoro del palcoscenico nelle domande dai sapori shakespeariani: cos’è la vita?, cos’è l’attore? fino al tema heideggeriano per eccellenza: il senso della vita come specchio dell’unica possibilità per cui tutte le altre sono rese possibili, il tema della Morte, che sottende il focus dominante dell’intera pièce, che non a caso ha per sottotitolo Scene dal Chissàdove. Si perché per tutto il lavoro l’impressione è quella di assistere ad un pensiero che sta come sospeso fra il sonno e la veglia, in uno spazio ipnagogico fluttuante come ben illustra quella porta che si apre e si chiude su se stessa imprigionando corpi e pensieri dentro universi paralleli, dentro leggi fisiche dove vita e coscienza si sfiorano in luoghi tra l’onirico ed il metafisico. Via via che si snoda il plot narrativo il focus si allarga in una scena dove Dario è disegnato sul volto da un ragazzo (Tazio Torrini, prima diavoletto nella scena del Faust) con la biacca: e lo trasforma in una maschera da triste clown o forse in un malato terminale faccia a faccia col trapasso. Il finale si chiude ad anello. I diversi passaggi dove i temi sono il timbro che segna questo bel lavoro che è messinscena teatrale ed anche doveroso omaggio alla coppia, sono ben collegati fra loro come pensati da cesello dentro un flusso di coscienza individuale e relazionale.
Niente è di troppo in questo lavoro per la scena che dà attribuzione di segno e significato ad una coppia che ha letteralmente cambiato e rinnovato il senso e gli obiettivi artistici di un pezzo importante di storia del teatro di un territorio che molto ha dato al Teatro di ricerca nazionale e internazionale fino al contributo più recente, quello all’attuale Teatro toscano e nazionale.

QUASI UNA VITA- Scene dal Chissàdove

drammaturgia Stefano Geraci e Roberto Bacci

regia scene e costumi Roberto Bacci

con Giovanna Daddi, Dario Marconcini, Elisa Cuppini, Silvia Pasello, Francesco Puleo, Tazio Torrini

interventi sonori a cura di Ares Tavolazzi

luci Valeria Foti

Produzione Teatro della Toscana Teatro Nazionale

PRIMA NAZIONALE

visto a Pontedera il 16 Aprile 2018