giovedì 30 gennaio 2014


io? io ho la responsabilità -perchè, io no? - la bambina è lei -no. la Bambina è in Lei

la consapevolezza e responsabilità degli adulti, la spregiudicatezza degli adolescenti. un mix esplosivo. noi due

martedì 21 gennaio 2014


RELAZIONE UFFICIALE AL CONVEGNO DEL 17 gennaio 2014 presso USL di Pisa Con Renzia D'Incà chair, gli psichiatri Corrado Rossi, Dario Capone, Mauro Mauri e Paolo Marinari ( seguiranno gli altri interventi) GIOCO DEL SINTOMO E CONTAGIO Venne il duemila e tutti pensammo ai miracoli dell’economia globale, all’ebbrezza del benessere: il terzo millennio avrebbe uniformato le idee e le culture promettendo però mondi scintillanti, pieni di attrazioni spensierate. Pochi anni dopo venne la crisi e la paura: sotto il tappeto stava la polvere della nostra indifferenza, gli egoismi di tutti noi, l’adorazione di un dio denaro che ha ridotto i suoi comandamenti a un semplice: "…imbroglia il prossimo tuo e anche te stesso, non c'è nessun dio fuori di te, specula e fai quello che ti pare…" Rispetto a quest’idea di mondo la pazzia e la rappresentazione scenica dei suoi sintomi sono uno sputo, un nulla, una piccola lacrima, una risata, un ghigno che a volte però qua e là risveglia qualche spettatore. La pazzia e il suo teatro a volte incarnano una nuova prospettiva etica. A volte i carcerati, i matti, i barboni, i migranti, i drogati, gli storpi, le puttane non sono categorie d’esclusi ma esseri, che portando in sé disagi e conflitti hanno speciali qualità, essenze misteriose da ascoltare con una particolare attenzione. I matti erano messaggeri degli dei o demoni, mostri d’incarnazioni salvifiche o pericolose. Forse è vero: viviamo una società liquida, non ci sono più ideologie né ideali. Che senso ha dare ascolto agli esclusi? Credo fermamente che in questo atto d’ascolto risieda anche una possibilità di liberazione e di scampo personale e sociale. Non solo e non tanto per giustizia divina o civile, quanto per offrire a se stessi, alla propria cultura, alla politica, all’economia, alla medicina e all’arte un’opportunità nuova, un’alternativa, una via d’uscita: uscire appunto dalle stupidità spettacolari, dall’intrattenimento ipnotico di un’esistenza stereotipata e volgare, dalla prostituzione economica che accomuna tutti noi, da stili di vita che non corrispondono più alla realtà dei nostri bisogni, al futuro che vogliamo consegnare ai figli. Ingurgitiamo inavveritatamente stili di vita e opinioni che ci propinano i poteri, quelli che controllano le tivù private o di stato, quelli che dipendono dal dio denaro delle banche. Pubblicità, vendere a qualunque costo, anche a costo di essere una persona, una comunità, una nazione, una scuola, un teatro, un medico sempre più gretto e ignorante ma capace di vendere e di comprare, di vendersi, di consumare merci e di abitare nel vuoto. L’Italia – e con essa anche la nostra bella Toscana, il nostro Comune, casa nostra, noi stessi – siamo sempre meno culle di buona politica e cultura e sempre più luoghi vuoti in cui i modelli di comportamento e le idee di bellezza si distanziano da una effettiva ricerca di felicità personale e sociale, inseguendo ricchezze che non hanno più niente a che fare con la grazia, e neanche con la serenità, con il diritto di condividere le appartenenze non come prigioni di conformità sociale ma come spazi di libertà e di tutela della propria diversa identità personale. E’ una specie di pazzia collettiva che rende la saggezza idiota e colloca la follia in una prospettiva differente sia dall’approccio sanitario sia dal comune sentire: la follia e la malattia non sono soltanto dolore e malessere ma possono anche essere cura e felicità personale e sociale perché in esse dimorano sostanze vitali. Viviamo un mondo in cui cercare d’essere utili e onesti spesso contrasta con ciò che insegna la cultura ufficiale, il potere costituito, la medicina, l’andazzo amministrativo di quello un tempo si definiva sistema politico culturale. Questo disastro ogni momento è di fronte all’ipocrisia dei nostri occhi. Credo che la nostra inevitabile pazzia psicotica o nevrotica sia sempre più sociale, sempre più connessa a un consumo farmaceutico talvolta necessario talvolta indotto, sempre più segregata in luoghi di cura a basso costo, magari ghettizzati in logiche separatiste. Oggi è di moda l’auto aiuto, una modalità sicuramente utile, quanto parziale e rischiosa. Insomma sta nascendo una sanità pret a porter, quasi col bene placido di tutti. Penso che pratiche di effettiva integrazione tra differenze etiche, sociali, personali, soprattutto se attuate attraverso processi di creazione artistica, cioè di libertà espressiva del proprio sentire, rappresentino dei veri e propri atti di eversione poetica che contrastano con i modelli di massificazione del capitalismo finanziario. Per la loro stessa natura i segni dell’arte e i sintomi della follia si contrappongono a tutto ciò che asseconda il mercato. Da sempre arte e follia sono quella roba che rivoluziona la politica e la cultura, usando sguardi che mutano la realtà. La follia e l’arte sono quella roba che fa le scoperte delle civiltà e della scienza. Recentemente una funzionaria del sistema sanitario mi ha detto che il teatro terapia non rientra tra gli interessi formativi della Regione Toscana. La definizione teatro terapia è vecchia e superata però mi sono domandato perché una delle poche pratiche realmente utili alla formazione delle persone, specie se hanno compiti sociali, è abolita dai mestieri ufficiali. Non mi sono risposto però mi è venuto in mente che il teatro, i teatranti, specie se accostati ai matti, contribuiscono a formare idee di mondo, culture diverse da ciò asseconda la conservazione. Gli artisti sono per la loro stessa natura il contraltare eretico della politica, così come i matti sono l’utopia che si scontra con la realtà. E gli psichiatri, secondo me, come ha testimoniato Basaglia, potrebbero anche tornare ad essere i militanti di un rinnovamento che pone il tema della pazzia, anche fuori dallo stesso sistema sanitario, come fenomeno politico, sociale e culturale, oltre che medico. Da più di vent’anni sperimento la scintilla che nasce accostando arte e follia. E’ una ricerca nata da esigenze personali, molto lontane da qualsiasi presunzione riabilitativa o da qualunque presupposto filantropico o pietista. Mi sono spesso domandato cos’è la malattia e cos’è la cura? Cosa cura? Se il teatro fa bene, o può far male, come alcuni come me sostengono, se intrattiene, se cura, oppure se più semplicemente è solo un’arte che riproduce e crea gli immaginari della mente. Non credo necessario, in questo contesto, approfondire il mio punto di vista sul gioco del sintomo, metodologia ampiamente analizzata da chi ne ha tratto anche pubblicazioni che gli interessati se vogliono potranno consultare. Però vorrei accennare in questa sede alcune piccole scoperte che, grazie al cielo, si presentano ancora durante il mio cammino, soprattutto da quando è nata l’esperienza di questa strana compagnia teatrale che si chiama ANIMALI CELESTI e che sta arricchendo la mia ricerca con giovani professionalità di artisti e educatori. Assieme a loro sto combattendo la scommessa di dare diritto di cittadinanza a un’ipotesi che chiede contesti di ricerca più avanzati, verifica dei dati d’incidenza e anche superamento dei piccoli monopoli che qua e là creano privilegi e blocchi d’accesso al lavoro, specie a quello di persone giovani che vogliono innovare L’ipotesi centrale che secondo noi suggerisce il teatro si basa sul set, cioè sulle caratteristiche dello scenario in cui si colloca l’intervento espressivo: crediamo che se fai teatro con i matti hai il dovere professionale e morale di integrare le diversità in un contesto aperto. Ciò che i matti e i malati in generale non hanno: un rapporto di relazione sociale ricco di stimoli e di opportunità. Fondamentale per noi è proporre uno scenario non sanitario che realmente includa giovani e vecchi, professionisti e volontari, matti e sani, belli e brutti, bianchi e neri, clinici e artisti, studenti universitari e analfabeti. Le diversità e le polarità oppositive, gli stili di vita, le idee di mondo, perfino il soma di corpi estremamente distanti tra loro, anoressici e bulimici, in teatro possono e devono, secondo noi, relazionarsi riproducendo, per quanto possibile, le stesse caratteristiche che contraddistinguono una dimensione di vita sana. Che non vuol dire idilliaca, ma antagonista rispetto alle logiche razionali di quella cultura di mercato che volutamente separa esistenza e consumi tra sani e malati, tra beauty farm e ghetti ospedalieri, tra giovani e vecchi, tra belli e brutti, tra ricchi e poveri e così via. Se il teatro dei matti – o con i matti o per i matti - non riproduce in qualche modo questo contesto utopico e professionale, secondo noi, rischia di essere un garage di intrattenimento, talvolta addirittura un luogo di cronicizzazione delle psicosi degli utenti e delle nevrosi dei teatranti o degli educatori. Si riduce cioè ad essere un fatto commerciale, mascherato di ipocrisia e perbenismo. Non è vero che il teatro fa bene di per sé, anzi, il teatro, se non è fatto da chi ne ha necessità e competenze, può amplificare o cronicizzare ulteriormente i disturbi. Potrei citare mille aneddoti sull’influenza negativa del palcoscenico: narcisismi, esaltazioni, frustrazioni, aggressioni, circuizioni di capacità più o meno marcate. Caso mai la domanda tipica su teatro e follia va rovesciata: più che domandarsi se il teatro fa bene alla follia bisogna chiedersi se la follia fa bene al teatro. Con quali forme? Perché? E poi domandarsi anche “riabilitare a che?”. A questo mondo? Personalmente sostengo da sempre che non voglio riabilitare né voglio essere riabilitato: caso mai pretendo che sia accolta l’espressione della mia e delle altrui diversità, con tutti i limiti e i pregi che hanno. Magari mettendo in condizione di far ascoltare i pregi oltre che i limiti. Seconda piccola supposizione che sembra emergere dalla nostra esperienza è la crescente convinzione che, in teatro, sia l’espressione della malattia che fa la cura. Attraverso un meccanismo di reciproco contagio che alla lunga si può determinare quando un malato mentale è posto in condizione di frequentare un contesto sociale inclusivo, all’interno del quale benessere e malessere – o meglio le diverse forme dello stare bene e dello stare male – non solo hanno diritto di cittadinanza ma si integrano e si contagiano tra loro. Difficile farlo in una struttura sanitaria, molto più facile realizzarlo in un contesto di per sé utopico, come quello che ipotizza il teatro. Giocare coi sintomi di sé e degli altri è anche assumere ciò che non ti appartiene: nascono in te, o accanto, figure simboliche che per contaminazione controbilanciano le rigidità dell’esistenza reale. Talvolta si manifesta una sorta di reciproco innamoramento, o contagio, così autenticamente appassionato da generare infinite possibilità espressive e relazionali. Fragili, provvisorie ma radicate in quell’immaginario che appartiene a tutti noi e che comunica attraverso l’espressione del piacere e del dolore. Da stato delirante, in teatro, progressivamente questa dimensione può divenire struttura onirica da giocare socialmente in una sorta di epidemia collettiva di figure e ruoli. E’ come se in un tale laboratorio teatrale una sorta di eros pubblico e sociale alla lunga potesse armonizzare tra loro le diversità, dinamizzando in qualche modo le polarità io/altro - dolore/piacere - malattia/cura. E’ un po’ come se io e l’altro, il malessere e il benessere, ciò che si manifesta fuori e dentro me, in teatro potessero trovare un luogo, uno spazio, e un tempo per incontrarsi con un nuovo interesse e con curiosità. Noi occidentali abbiamo col dolore un pessimo rapporto: conosco ragazzi che alla minima sofferenza crollano, li abbiamo protetti, custoditi, preservati, difesi, posti al riparo da ogni burrasca, soccorsi oltre misura. Fuggono in mondi immaginari, consumano la vita a morsi che non hanno sapore, placano le inquietudini con la chimica, soccombono al più piccolo dispiacere. Oppure fanno gli incappucciati in piazze senza bandiere, distruggono la civiltà di se stessi, fanno i black bloc magari pagati dalle mafie o nemmeno capaci di comprendere che stanno assecondando i poteri deviati dello Stato. Più che contestatori di questo mondo sono coglioni senza padri e senza madri, oppure controfigure di fascisti di seconda mano, consumatori del tutto e niente, viaggiatori del vuoto, hacker di ciò che, senza fatica, hanno trovato, ribelli senza sogni, parodie di se stessi, giochi di ruolo. Eppoi ci sono giovani, invece, che sono straordinarie fonti di vita, di poesia di energia, di futuri e di domani nuovi. Magari nei loro sorrisi persi cercano maestri che non trovano, sognano testimoni, non opinioni ma fatti, atti che li convincono, buone cause da condividere. Cercano amore Io credo che sui giovani e sui vecchi si stanno dicendo un mucchio di stupidaggini che aggraveranno ancora di più lo sgomento di quest’epoca sfortunata, violentemente privata dai padri e dalle madri di quel legame che cura la crescita, insegnando ai bambini le sponde della gioia e del dolore. Madri e padri e nonne e nonni incapaci di insegnare e di imparare dai propri figli, apprendendo reciprocamente come prosegue e si rinnova la propria vita. Sono cresciuti soli, quei figli, lasciati davanti alle vetrine dei supermercati, alle sfilate di moda, alle ruberie dei potenti, alla pornografia. Sono cresciuti soli mangiando diffidenza e scetticismo. Inascoltati. Non hanno mai visto i padri in mutande, le madri fare l’amore, i polli nei pollai, le strade di montagna, spesso hanno sovrapposto un film alla vita e ora sono merce sanitaria, domanda farmaceutica, mercato del narcotraffico o dell’idiozia commerciale. Come si fa? Hanno bisogno di pudore, di silenzio, di lealtà, di grazia. C’è un patto d’ascolto, di reciproco rispetto, di autonomia e di lavoro d’arte da stringere tra le generazioni. Noi lo chiamiamo contagio amoroso. Presuppone un patto di reciproco bisogno tra malattia e cura: la saggezza necessita di follia e la follia ha bisogno di saggezza. Queste sensazioni risuonano abbastanza spesso nei nostri laboratori, talvolta le vediamo scolpite nel soma degli utenti, ci cadono accanto quando si manifesta l’espressione del dolore e lo si ascolta fino al punto in cui si frantuma, diventa altro e qualcosa di risveglia: diventa sogno, gioco, attimo in cui si rinnova il proprio e l’altrui mondo. Spero che queste considerazioni possono aprire un confronto e anche uno scontro tra noi. Concludo cercando di lasciare spazio al programma e anche alle obiezioni. Chiudo con tre considerazioni sintetiche sul rapporto tra teatro e follia: nella malattia di tutti noi c’è anche la nostra cura, l’espressione di un’azione deviante contagia e reintegra, l’arte è la parte sana della nostra malattia e della nostra natura. Alessandro Garzella Pisa, gennaio 2014

sabato 18 gennaio 2014


mi ha chiamato il mio maestro Giani Luporini, steineriano che ha messo in musica i principali lavori di Carmelo Bene. si è complimentato per la mia Bambina. un testo maturo. a breve ci vedremo. grazie Gaetano: verrò nella tua Lucca

giovedì 9 gennaio 2014


La sua poesia è fortemente drammatica, con, al centro,il grandioso e appassionato epicedio del padre, forse il più significativo che abbia letto negli ultimi quarant'anni. ma molto originali sono anche le straordinarie invenzioni dei giochi di parole, apparizioni fantastiche, evocazioni smagate Giorgio Barberi Squarotti Torino 21 dicembre 2013

sabato 4 gennaio 2014


D'INCÀ RENZIA BAMBINA CON DRAGHI Mar, 31/12/2013 - 15:13 — Sandra Evangelisti La poesia di Renzia D’Incà mi ha colpito, in questo suo recente lavoro, per la forza e la capacità di incidere e scolpire come uno scalpello nella pietra. Il ritmo del verso è incalzante ed efficace, e così anche le rime e lo studio attento nell’uso della parola. Renzia riesce così a dare forma e a fare vivere per immagini e visioni le sue emozioni. Sono emozioni e vissuti catartici e purificatori: la bambina affronta i draghi della figura materna e di quella paterna e li supera. Interiorizzando e fagocitando il padre e la madre, l’autrice ritorna padre e madre di se stessa, si riappropria in modo quasi alchemico(mesmerismi) della sua identità e quindi della parte femminile e di quella maschile del proprio ego. Importante l’incipit tratto dal Simposio di Platone: “Eros è un gran Demone, o Socrate: infatti tutto ciò che è demonico è intermedio fra Dio e mortale./… E stando in mezzo fra gli uni e gli altri, opera un completamento, in modo che tutto sia ben collegato con sé medesimo”. È il “demone” la forza sovrannaturale che consente all’autrice di uscire da se stessa e di superare i confini imposti dagli archetipi materni e paterni, per ritornare quasi magicamente padrona della propria esistenza. "* adesso sei ancora tu che aspetto mio amore infiorato solitario, polpastrello sfiorato mio demone notturno alato?... * il passato che non tornerà più, quel passato là il presente che lo ripete senza far finta di niente Tu mia ombra da decrittare, quel tempo corpo im|paziente...” E ancora: “* forse in te non è la cura che cercavo ma la scrittura l’inconsapevole cura il corpo a corpo con la mia (e tua) paura non eri tu quel corpo/verso ma controfigura...” Il volume è diviso in cinque sezioni: “Affioramenti”; “Mesmerismi”; “Ipossie binarie”; “Parricidi” e “Dell’incurabile curagione”. Dai titoli dati alle singole parti possiamo già notare una acuta ricerca della forma e del suono della parola. Ricerca che diventa anche metrica nei singoli componimenti. Le strofe sono quasi tutte composte da tre versi con rima a volte alternata o baciata, ma comunque libera. E il verso breve proseguendo lungo il cammino alchemico di questa guarigione interiore e magica si distende, e a poco a poco si allunga quasi nel parlato verso la fine. È una poesia di ricerca, secca, musicale ed evocativa. Sicuramente ci regala un’armonia nuova ed unica. E ascoltandola magicamente può evocare anche il nostro personale “demone” e portarci a ritrovare la nostra identità più nascosta e autentica. Edizione esaminata e brevi note Renzia D’Incà, Bambina con draghi, Biblioteca dei Leoni, 2013 Renzia D’Incà è nata nel 1966 a Belluno. Si è formata presso l’Università di Pisa, città dove risiede. Giornalista dal 1985, ha collaborato con Hystrio, Rocca, Il Grandevetro, Il Tirreno e La Nazione. Lavora come consulente per enti pubblici e privati in teatro e comunicazione. Ha pubblicato in poesia: Anabasi (Shakespeare& Company, 1995), L'altro sguardo (Baroni, 1998), Camera ottica (Baroni, 2002), Il Basilisco (Edizioni del Leone, 2006, con postfazione di Luigi Blasucci), L'Assenza (Manni, 2010, con prefazione di Concetta D'Angeli). Come saggista teatrale: il volume Il teatro del cielo (Premio Fabbri 1997), Il gioco del sintomo (Pacini-Fazzi, 2002) su un’esperienza di teatro e disagio mentale, La città del teatro e dell'immaginario contemporaneo (Titivillus, 2009), Il Teatro del dolore (Titivillus, 2012), saggio voluto dalla Regione Toscana, su una esperienza ventennale di teatro e disagio mentale. Come autrice di teatro sono stati rappresentati in diverse città Ars amandi-ingannate chi vi inganna e uno studio per Passio Mariae. Collabora come performer con musicisti che hanno composto brani inediti sui suoi testi ispirati al Il Basilisco e L'Assenza. Sito ufficiale http://renziadinca.com Sito dell'editore Biblioteca dei leoni La pagina del libro dicembre 2013, Sandra Evangelisti Biblioteca dei Leoni case editrici D'Incà Renzia Letteratura letteratura italiana Paolo Ruffilli poesia Login o registrati per inviare commenti Commenti Gio, 02/01/2014 - 21:20 — andrea brancolini [D'Incà - Bambina con draghi] [D'Incà - Bambina con draghi] Sandra ci presenta l'ultimo lavoro di Renzia D'Incà, Bambina con draghi, edito da Biblioteca dei Leoni. Pezzo che segna la prima volta su queste pagine dell'autrice e della casa editrice, sotto la direzione editoriale di Paolo Ruffilli, nome invece ben noto su Lankelot, come si nota qua: http://www.lankelot.eu/Paolo-Ruffilli Login o registrati per inviare commenti Nascondi colonna Stampa Top Writers franchiLéonmonnalisaLuca-MenichettiAndrea Consonnimarina monegoMovidaGordianoAngelaMigliorerapacemartelloalfredo roncithomasPaolo CastronovoFrancesco83solkrossGrattarolatroisioPaolo Pappatàmichele lupo © Ass. Cult. Lankenauta - Via dei Sette Santi, 19. 50131, Firenze