sabato 31 dicembre 2016


MADE IN CHINA-Postcards from Van Gogh su RUMORSCENA renzia.dinca Pontedera (Pisa). Delicato affresco a tenui /forti tinte e insieme graffianti metafore per parole suoni ed immagini, questo Made in China scritto e diretto da Simone Perinelli (anche in scena, con Claudia Marsicano in lizza per l’UBU come miglior attrice under 35), si confronta con una ideazione tanto originale quanto di impervia tessitura drammaturgica e di regia. Cosa c’entra l’opera ed il pensiero di Vincent Van Gogh ripercorso attraverso le parole di alcune fra le sue numerosissime lettere al fratello Theo, con la mentalità contemporanea del manufatto nell’era della riproducibilità ( e sostituibilità) tecnica e di schegge di vita e pseudo mode cinesi a pochi euro? Così, sulla carta, appaiono come due universi nemmeno paralleli, ma proprio appartenenti a due spazi-tempo incompatibili, categorie dello spirito incomparabili. Eppure è proprio questa contaminazione per magari un po’ contorte vie dell’assurdo di associazioni mentali, che l’autore sceglie con non poco coraggio di percorrere l’incontro paradossale. Del postcard cioè dell’immagine da cartolina illustrata riviviamo fin dalla prima scena calata dentro uno spazio vuoto in bianco e nero il fantasma della (improbabile) donna cinese col suo ombrellino di carta-che fatto vorticare, in assetto minimalistico, accenna al giallo dei girasoli delle tele, trascina la sedia della casa del maestro immortalata da tele fra le più battute a milioni di dollari nelle aste mondiali, con un sorriso stereotipato e una gestualità ipnotica straniante. Poi le cose si complicano ed è sempre più difficile afferrare almeno ad un primo livello logico-semantico, il senso dell’operazione. Ci troviamo a dover partecipare scendendo dentro i diversi quadri che scandiscono il lavoro, via via sempre più a livello emotivo e fantasmatico. Una volta abbandonate le logiche aristoteliche, ci si può incamminare dentro un doppio sistema di segni che coincidono con la performance vocale e fisica dell’attore-autore col suo microfono ad asta da un lato del palcoscenico: è Vincent Van Gogh col suo delirio monologante dal manicomio di Saint Remy in dialogo cartaceo col fratello, le sue allucinazioni visive e sonore, la frenesia dell’acme pittorica degli ultimi lavori ad Arles in Camargue, e con dall’altra la donna cinese che sciorina a sua volta perle di saggezza da rivista o TV di basso target economico discettante di regole per il perfetto selfie e il perfetto ordine della casa fra spazi e colori abbinati secondo il feng shui. Il collante fra i due diversi deliri, i due diversi setting: quello creativo, pulsante del genio solitario occidentale e quello della chiacchiera popolare da tinello, da pseudo cultura del nuovo un po’ Kitsch un po’ fascino dell’esotismo a tutti costi e a bassi prezzi, copia di copie, conduce al tema dell’autoritratto, fil rouge dei diversi piani di contatto fra le due poetiche ( e pratiche) indistricabili sul piano della comparazione razionale. Non è chiaro quanto il testo ed il pretesto confondano le linee guida dello spettacolo: Perinelli ha un’ottima presa sulla scena, il registro stilistico è in continua oscillazione tra i due mondi, l’alto ed il basso: la ricerca spasmodica dentro un sé drammatico che sprofonda nello scavo autoreferenziale, nei fumi dell’auto rappresentazione allo specchio dell’artista e quello di pura superficie, seriale della vulgata dell’essere per comparire, dell’esistere in quanto social in quanto autoscatto dell’hic et nunc. Non è affatto chiaro se la drammaturgia rifletta una critica alla società di produzione seriale cinese (dentro uno dei siparietti un occidentale chiede un orlo ad un vestito a poco prezzo in poco tempo), il tenutario uccide il suo lavorante che non rispetta i tempi : sì, ma quali? Ma davvero Van Gogh si può considerare un operaio-artista o piuttosto un outsider nato dalla unicità della sua stella (vedi gli ultimi capolavori, le ultime pennellate con corvi cui si accenna nella storytelling con Donna Cinese poco prima dell’exitus?). E l’assimilare le riproduzioni – i postcards delle opere del genio olandese alla capacità del mercato di riprodurre serialità a bassissimo costo per un turismo di massa mondiale che espone in salotto o in tinello copie di copie rispetto ad un mercato Sotheby’s che vende gli originali a prezzi che potrebbero salvare per fame bambini di mezzo mondo? c’entra, forse. Tuttavia è altresì vero che il sacro fuoco che domina artisti o scienziati niente ha a che vedere col commercio né la gloria-la loro. Perché ai geni, sani o malati che siano (il fisico Stephen Howking è sano o malato?), che portano avanti anni luce la coscienza e scienza di mondi come il nostro globalizzato, dovremmo solo essere grati. Il finale è aperto. E ciascuno arredi il proprio salotto come vuole. E soprattutto, come può. Drammaturgia Simone Perinelli Con Claudia Marsicano e Simone Perinelli Aiuto regia e consulenza artistica Isabella Rotolo Regia Simone Perinelli Musiche originali Massimiliano Setti Disegno luci Marco Bagnai Produzione Fondazione Teatro della Toscana Visto a Pontedera, Teatro Era, il 18 dicembre 2016

venerdì 23 dicembre 2016


renzia.dinca SPAM! Last but not least Intervista a Roberto Castello-rassegna di danza teatro e musica Porcari (Lucca) RUMORS: La rassegna di danza teatro e musica Last but not least nasce e si compie nelle ultime due settimane del 2016 Castello: Avevamo ipotizzato una stagione diversa ed uno spazio diverso, quello della ex Cavallerizza a Lucca, luogo polivalente in restauro, ma a novembre non avevamo ancora ricevuto i finanziamenti della Regione della programmazione triennale e quindi abbiamo dovuto ripensare uno spazio di recupero ed abbiamo ripiegato sul nostro spazio storico Spam a Porcari. La rassegna Last but not least, (che ha come logo un Dodo-animale estinto, pennuto uccello australiano, una volta scartata l’ipotesi di un Panda), nasce quindi all’insegna di realtà fra il teatro contemporaneo e la danza, meritevoli di uno sguardo più specifico da parte di un pubblico smaliziato, come quello di SPAM. In cartellone ho voluto Simone Perinelli (20 dicembre con Requiem for Pinocchio), un attore regista e drammaturgo di cui apprezzo lo stare il scena, a cui seguiranno serate di danza con poetiche diverse (il 22 e 26). Protagonisti di queste sono Simona Bertozzi con Prometeo: il dono, della Compagnia Simona Bertozzi/NEXUS. Di lei, che è una coreografa pura, apprezzo il dinamismo, il lavoro sull’ aspetto cinetico. A seguire Stefano Questorio con ALBUM (produzione Stefano Questorio/ALDES): ha dimensione teatrale non verbale, reminescenze punk. Entrambi gli artisti provengono dall’ambiente creativo di Bologna. Il 26 è la volta di Francesca Zaccaria e Fabio Ciccalé. Zaccaria con Carnet erotico-studio “cartoline del piacere realizzate come brevi racconti per immagini”, è ai suoi primi lavori come autrice e performer (già al Teatro della Tosse, ora a SPAM in anteprima regionale, è una danzatrice formata in Italia e poi in Germania. Diplomata alle Belle Arti, è pittrice. L’ho incitata a fare questo lavoro. Gli aspetti di danza e pittura sono presenti nella complessità della sua ricerca dove la componente visiva e visionaria sono centrali. Con INDACO-un colore per un danzatore Fabio Ciccalé è artista originale, con una poetica segnata da un grande talento, lavora sul movimento con strutture esatte, è coerente nel suo lungo percorso e anche divertente. Il 28 ci saranno Giovanna Daddi e Dario Marconcini con Minimacbeth. Un lavoro firmato da Andrea Taddei. Si tratta di un recente allestimento nato presso il Teatro di Buti (Pisa-Pontedera), che è un po’ un testamento artistico di due grandi pluripremiate personalità del Teatro nazionale di ricerca. Il 30 Marco Schenevier/TIDA- Theatre danse, valdostano con un lavoro delizioso, visto e premiato al Be festival 2015 di Birmingham. Rumorscena: Ad ogni incontro segue una “coda” musicale, dove si può anche ballare Castello: Sì. La parte musicale è curata da LIVE Dance Club (Organic Groove Deep beat, Emma Morton Quartet e altri), una collaborazione con Barga Jazz. Torno al tema: l’arte contemporanea richiede forme, chiede espressione e si è guadagnata la fama di essere poco piacevole. Bisogna ricreare la fiducia per gli spettatori. Fare arte può essere piacevole, come anche l’andare a teatro. E’ un dovere attuale da parte degli artisti. I musicisti dal vivo che improvvisano fanno scatenare le persone nelle danze, è un loro ruolo artistico. Ad ogni incontro teatrale della rassegna segue un incontro musicale live. Per dare spazio al ballare free, favorendo l’abbandono in una dimensione dichiaratamente analogica. Con poca amplificazione, dentro una dimensione umana di festa. un gesto politico, insomma. Rumors: torniamo alla progettualità di ALDES. Cosa bolle in pentola per i prossimi anni? Castello: Il logo del Dodo in Last but not least, è sinonimo non tanto del Panda ma di considerazioni più generali sugli intenti obiettivi, sulle linee guida di ALDES intese come premesse ideologiche. Intendiamo la nostra programmazione in quanto depositaria di una funzione pubblica, come risorsa economica di qualità. Penso che la pratica e frequentazione dell’arte sia crescita collettiva con funzione di ricaduta sull’economia delle persone. Pensiamo che il mondo ci è stato dato in prestito e che dovremmo restituirlo come l’abbiamo trovato. L’operatore culturale deve essere un veicolo, uno stimolo costante all’apprendimento. Il sapere non è statico, l’arte ne è un esempio, il pensiero è dinamico, implicita conoscenza delle frequentazioni dell’arte. Penso a dati OCSE: nel 2013 il 47% di 24 Paesi esaminati c’è analfabetismo. Ci sono persone che non riescono a comprendere cosa firmano. Anche fra laureati. Ci sono persone che hanno smesso di pensare. Il desiderio di sapere non deve smettere mai di essere alimentato, ché le società devono assumere decisioni appropriate. Perché non è vero che tutto può essere comprato, altrimenti non vale niente. E’ un pensiero questo di classi dirigenti del recente passato. Assistiamo adesso al fenomeno dell’immaterialità del valore finanziario del denaro: ogni 12 euro 11 non valgono niente. Per un artista la curiosità è un valore. Nulla va mai dato per scontato per chi fa questo mestiere. RUMORS: quali sono gli obiettivi di ALDES per il prossimo futuro in sede locale? Castello: Nel 2016 è iniziata la triennalità concertata con Regione Toscana. C’è una apertura con il Comune di Lucca che prevede l’ utilizzo della ex Cavallerizza, uno spazio indirizzo polivalente che allestito come sala teatrale può contenere gradinate per 200-300 persone. Si tratta di uno spazio con destinazione d’uso polivalente a fianco del Teatro del Giglio. La nostra programmazione sarà per il 2017-18 nella ex Cavallerizza. E’ prevista anche una programmazione estiva sulle Mura della città di Lucca. La nostra sede SPAM di Porcari rimarrà come sede amministrativa, spazio di prove ma anche luogo di ospitalità degli artisti internazionali in quanto agibile come foresteria. Rumors: Castello, può parlarci delle linee guida artistiche del progetto triennale ALDES oltre i confini della Toscana? Castello: Sostenere l’opera dei più significativi artisti emergenti in linea con una continuità delle produzioni. Come ALDES abbiamo sempre presentato e promosso artisti di impronta europea ed internazionale. Portare qua eccellenze artistiche per far conoscere e importare estetiche e modalità di lavoro straniero. Un esempio: riuscire a fare un bel lavoro in direzione della cultura africana non in chiave folcloristica. Abbiamo dell’Africa un’idea sbagliata, riduttiva, discriminatoria. Esistono tensioni politiche post coloniali, viviamo in un mondo di complessità. Ultima cosa: come associazione vorremmo creare con altre strutture il recupero di opere monografiche. Un solo esempio: Victor Cavallo di cui ricordo spettacoli memorabili. Non ci sono solo PP Pasolini e Fellini nella memoria storica del Paese. Con la città di Lucca stiamo anche creando un legame con le scuole attraverso Aline Nari e Giacomo Verde.

sabato 10 dicembre 2016


è su RUMORSCENA ALFA - Appunti sulla questione maschile renzia.dinca Vorno(Lucca). Uno spettacolo spiazzante dentro una cornice tradizionale affidata a parola musica canto e danza, una performance complessa che affronta e si interroga su un tema spinoso e quanto mai attuale: il Gender. E lo fa da un punto di vista maschile, quello del cosiddetto maschio Alfa, il dominante, il capobranco secondo la definizione dei primatologi riferito alle scimmie ma che per traslazione è usato anche per nominare una categoria del maschio del genere umano. ALFA è una produzione di Aldes, la Compagnia diretta da Roberto Castello che ha sede presso lo spazio SPAM, vicino a Lucca con il sostegno dell’Associazione dello Scompiglio diretta dalla performer Cecilia Bertoni che sempre nel Comune di Capannori dispone di uno straordinario complesso sede di installazioni concerti laboratori mostre e residenze. Lo Scompiglioin questi mesi ospita Assemblaggi provvisori, una programmazione tutta dedicata appunto alla questione di genere. Districarsi in una materia così densa e doverla trasformare in forme riconoscibili e compiute insomma in una forma artistica, richiede un bilancino di precisione. La questione del Gender appassiona e divide fin dagli anni Novanta sul piano di studi sociologici ma tuttora infiamma i sostenitori dell’una e dell’altra fazione: da un lato coloro che sostengono essere l’identità femminile e quella maschile prodotto della Natura con tutte le implicazioni sociali e culturali che ne conseguono-la Chiesa vede nella Teoria il demonio che distrugge le basi della Sacra Famiglia; dall’altra i sostenitori della differenza di genere che nasce sul terreno della Cultura e dei condizionamenti sociali entro i quali cresciamo e ci formiamo per entrare nel mondo adulto. Castello non prende posizione, si defila anche dalle diatribe attualissime sul tema legate al mondo gay e lgtb-pensiamo al fenomeno delle Sentinelle in piedi, si ritaglia un focus altrettanto incandescente, quello del maschio ALFA appunto e lo fa insieme al suo alter ego in scena Mariano Nieddu e alle coriste attrici performer rumoriste Alessandra Moretti, Ilenia Romano e Francesca Zaccaria. La scena è costellata da monoliti su cui sono tracciati graffiti da periferie urbane o porte interne di toilette di terz’ordine con riferimenti sessuali espliciti, un demi monde che in parte contestualizza e contiene ciò che andremo a vedere. Le azioni sceniche si susseguono a mosaico come siparietti: nello spazio in contemporanea i cinque performer si avvalgono di microfoni e fanno ampio uso di oggetti sonori che accompagnano i monologhi e i gramelot affidati a Castello, al suo alter ego maschio Alfa che di sé fa narrazione e alle tre ragazze che in vesti di groupier attrici amanti mogli vestali fanno da controcanto alla affabulazione del capobranco. Ma non c’è solo parola o suono in questa intricata elaborazione performativa: ci sono i corpi e le voci delle donne e del doppio-Alfa che scandiscono con danze tribali e suoni gutturali privi di contenuti ma ricchi di vibrazioni semantiche che giocano su molteplici piani linguistici. Fra verbale e non verbale in ALFA assistiamo a un buon contemperamento dei codici, operazione molto ardimentosa ancora suscettibile di lima. La parte più propriamente verbale è affidata a considerazioni fra il biografismo del maschio ALFA- l’educazione ricevuta dalle madri zie sorelle e il suo pseudo delirio di Potere sulle femmine. In quanto alle femmine anch’esse riproducono i clichè del femminile più trito: oggetto sessuale in funzione testosteronica del desiderio che si autoalimenta negli occhi dell’Altro, il tutto a sua volta in funzione di riproduzione e trasmissione dei geni (Natura). Tuttavia questo maschio ALFA in versione Roberto Castello trasmette anche un forte segnale di smarrimento e frustrazione come se indossasse la maschera del falso sé, insomma è un maschio in crisi di identità, che simula, che veste i panni di una identità fittizia costruita su paradigmi imposti che non risuonano, maschio vincente sì ma sofferente, imprigionato dai dettami socio culturali della società occidentale che lo vogliono produttivo e riproduttivo (Cultura?). La corda della maschera del personaggio viene tirata fino a trasformarlo in figura grottesca, caricaturale tanto che Castello resta in bilico come sospeso sul filo di lana di questo doppio messaggio: ci faccio o ci sono? non dando risposte, sospendendo il giudizio tuttavia lasciando la netta sensazione che a questo scimmione antropizzato Dominus gli sia un po’ scappata di mano il controllo della situazione scivolando nel paradosso, nella parodia di se stesso e nel ridicolo. E’ questa l’autoironia sottile spiazzante a segnare la cifra stilistica che percorre l’apparente rapsodica non linearietà di ALFA. ALFA- appunti sulla questione maschile- Prima nazionale di e con Roberto Castello con Alessandra Moretti, Mariano Nieddu, Ilenia Romano e Francesca Zaccaria Visto a Vorno (Lucca), Tenuta dello Scompiglio, il 4 dicembre 2016

giovedì 1 dicembre 2016


è su RUMORSCENA Il filo dell’acqua secondo ARCA AZZURRA renzia.dinca Pisa. Cinquant’anni sono tanti per la vita di una persona. Fra i tanti ricordi belli e brutti uno fra i più tragici impresso nella memoria collettiva di chi l’ha vissuta anche se piccolo, c’è stata l’alluvione del 4 novembre 1966 di cui ricorre quest’anno il cinquantenario. Una sorta di micro diluvio universale che ha messo sott’acqua mezza Italia con conseguenze disastrose specie a Venezia e a Firenze, città fra le più colpite. E proprio in questi giorni abbiamo assistito alla triste replica di disastri con esondazione di fiumi e torrenti in una Italia tutta disastrata da innumerevoli abusi nei confronti dell’ambiente. E non si tratta di profezie che si auto avverano ma di tragedie annunciate: una nuova alluvione nel Nord Ovest in Piemonte, Liguria e in Sicilia ha rinnovato lo spettro di un Paese che non è ancora riuscito a salvaguardare il suo territorio e le vite dei cittadini. Pare che la Storia davvero niente abbia da insegnarci, per citare un poeta quale Eugenio Montale che nelle Cinque Terre aveva la sua dimora estiva in una di quelle splendide cittadine affacciate sul mare che cinque anni or sono erano quasi state spazzate via dalla furia delle acque. Per questo triste anniversario del 4 Novembre, sono state numerose le iniziative affidate a spettacoli teatrali in Toscana che ricordano l’alluvione del ’66 in particolar modo con l’esondazione del fiume Arno a Firenze, che ha messo una città intera in ginocchio, che è stata vittima ma insieme protagonista a furor di popolo poiché ha coraggiosamente affrontato in sinergie efficaci la calamità. Una città che ha avuto inoltre dalla sua, una straordinaria solidarietà con la mobilitazione attiva di una estesa comunità internazionale che è confluita da ogni parte del mondo, una comunità giovanile che poi sarà resa famosa con la denominazione di Angeli del fango. Centinaia di giovani accorsi a fronteggiare curare e proteggere l’esorbitante millenaria cultura scientifica e letteraria ospitata a Firenze fra Musei, Biblioteche e istituzioni culturali sorte nei secoli a ridosso dei suoi gloriosi Lungarni offesi dalla fuoriuscita delle acque dell’Arno. Di queste epiche giornate tratta l’allestimento Il filo dell’acqua in prima nazionale al Verdi a Pisa ad opera della storica Compagnia di San Casciano fondata da Ugo Chiti Arca Azzurra. Tre i personaggi in scena a interpretare in forma di coro diverse voci di personaggi quali comuni cittadini di Firenze, testimoni e vittime della tragica esondazione dell’Arno nella notte fra il 3 e il 4 novembre ‘66. Lucia Socci, Dimitri Frosali e Massimo Salvianti si scambiano il testimone del racconto che parte dallo stupore –in un solo giorno cade la pioggia di tre mesi, della fuga sui tetti dei palazzi e della fame del freddo patito senza avere informazioni sulla sorte di loro stessi, delle loro cose, della stessa città. Una città abbandonata a se stessa anche dal potere del governo centrale romano. Una affabulazione a tre tesa ma mai concitata che restituisce una esemplare struttura cara al teatro di narrazione affidata alla penna magistrale di Francesco Niccolini. Un affresco dialogico che insieme attraverso i corpi e le voci dei tre protagonisti in scena, racconta sia le vicende spicciole dei malcapitati sia la storia di un popolo e di una città vittima dell’evento catastrofico. E si parla di numeri, di persone salvate per miracolo, di un milione trecentomila volumi portati in salvo dalla Biblioteca Nazionale, del Vieusseux, dell’Accademia dei Georgofili, del Museo della Scienza, delle opere d’arte: capolavori di Paolo Uccello recuperati in San Marco, mentre l’asticella del livello dell’acqua esondata sale e sale, chissà fino a quando e quanto? Il racconto corale si avvale di proiezioni sul fondale- a scena vuota, dove l’elemento colore prevale a inscenare e commentare stati d’animo come stati del cielo e della tempesta abbattutasi su uomini e cose. Ma dà anche conto di una paura che ha saputo reagire e si compatta con fierezza contro la comune avversità. Testimonianza di fatti e a monito che mai dovrebbero più ripetersi eventi così tragici, anche se a distanza di cinquant’ anni sappiamo per evidenza cronachistica fin troppo quotidiana, di novembre come d’estate, che purtroppo non è così. Il Filo dell’acqua Compagnia ARCA AZZURRA Regia Roberto Aldorasi e Francesco Niccolini Drammaturgia Francesco Niccolini Con Dimitri Frosali, Massimo Salvianti e Lucia Socci Scene e video Antonio Panzuto Musiche originali Paolo Coletta Visto a Pisa, Teatro Verdi, il 6 novembre 2016

venerdì 11 novembre 2016


è su RUMORSCENA PISA – “Dopo la Tempesta“è un caleidoscopio di personaggi, azioni, citazioni, suggestioni musicali sonore e visive; ad intreccio con andamento meta-letterario e teatrale ad anello, una complessa macchina in cui viene frantumata la struttura classica del corpus shakespeariano per creare o meglio ricreare una forma-spettacolo da e forse, contro Shakespeare, quantomeno secondo il manifesto drammaturgico del regista. A quattrocento anni dalla morte del Bardo, il progetto ambizioso di Armando Punzo, e come non avrebbe potuto dati i precedenti lavori, ormai trentennali, che lo hanno visto ideatore e genius loci della Compagnia della Fortezza, composta da detenuti rinchiusi fra le rinascimentali mura del Maschio, il carcere di Volterra. Ormai riconosciuta a livello europeo come una delle realtà teatrali più interessanti del nostro patrimonio d’arte per la scena, oltre agli allestimenti realizzati all’interno dell’istituto di pena, grazie a permessi speciali, alcuni degli attori – detenuti, si sono esibiti in più occasioni specie negli ultimi anni, anche in teatri tradizionali: dal Persio Flacco di Volterra, il Metastasio di Prato e al Teatro Verdi a Pisa. Proprio in queso Teatro, la Compagnia di detenuti debuttò per la prima volta all’esterno del carcere di Volterra, nel 1993, con il “Marat-Sade” di Peter Weiss. Dopo aver portato “Santo Genet” nel 2014, il direttore artistico della sezione teatro e danza, Silvano Patacca, può oggi cogliere orgogliosamente i frutti di quanto seminato a suo tempo. La messinscena, già vista nell’estate 2015 in forma di studio Shakespeare, “Know well”, nel cortile assolato del carcere volterrano e in forma definitiva l’estate scorsa, non poteva non presentarsi come spettacolo definitivo in prima nazionale (così come lo fu due anni fa con Santo Genet), in quanto gli spazi di un teatro classico all’italiana come quelli splendidi ottocenteschi del Verdi, richiedono arrangiamenti logistici e tecnici e quindi di pensiero di regia peculiari al luogo ospitante. Preceduta da una settimana di incontri in preparazione alla visione del nuovo allestimento, fra cui una lectio magistrale alla Scuola Normale superiore con Armando Punzo a colloquio con Nadia Fusini, docente della prestigiosa istituzione , la stagione di Prosa del Verdi si è inaugurata con le due recite che hanno visto il tutto esaurito per numero di spettatori. Dopo la Tempesta è un rito esplosivo-implosivo in cui il drammaturgo e regista esercita-lui stesso in scena, come da qualche tempo ci ha abituati, in una sorta di funzione auto-taumaturgica di distanziazione necessaria, quasi anticontagio, con alcuni fra i personaggi leggendari che da secoli sono stati portati sulle scene, in tutte le finora possibili istanze interpretative escatologiche a seconda dei tempi e delle correnti filosofiche. Punzo fa deflagrare ogni ipotetica costruzione drammaturgica consueta, proponendo – hic et nunc – in un eterno presente che nicianamente si ripete e riavvolge su se stesso, tanti dei topoi letterari ideati dal Bardo, concertando con questi personaggi in cerca d’autore, una tregua, un dialogo e insieme una schisi. Ascoltandoli ed osservandoli nel loro girare a vuoto in palcoscenico e in platea schiavi quasi manichini dei propri tic, ossessioni, maschere, cliché sempre monologanti e mai in relazione fra di loro, imprigionati nei loro personaggi come ingessati. A cominciare dalla scena iniziale dove un Riccardo III che ruota su se stesso, zoppicando mentre la voce registrata di Punzo, recita versi da Macbeth e la Tempesta rovina sul turbinio di corpi ieratici, vestiti di drappeggi che scivolano sul palcoscenico e in platea come uomini libro dal collo scolpito da gorgiere di pagine di carta. Sul palco a scena aperta si svolgono altre azioni fisiche in contemporanea, tutte sottolineate dalle musiche originali di Andrea Salvadori anche in scena alla tastiera. Ci sono un letto sfatto al centro, un tavolinetto–scrittoio dove siede il regista-protagonista che fa anche da tavolo, e qui si compie un brindisi che si trasforma in una serie di atti mancati continuamente rimandati fra lui e due donne aspiranti attrici. In questo susseguirsi di azioni di comparse di personaggi noti come Oberon, Enrico IV , Calibano, Desdemona col suo fazzoletto tutta ripiegata all’indietro, Othello, Cesare, Lear, Cleopatra, Enrico VI, Armando Punzo accenna ad un potenziale incontro con alcuni di loro ma anche questi tentativi paiono fallire, mentre la sua voce registrata, trasmette in fila alcuni dei versi più noti delle opere del poeta, quasi che la sua mente-corpo voglia immedesimarsi nello spirito di Shakespeare. Osservando però dall’esterno, in un rituale ossessivo nelle ripetizioni da opera totale, in cui tutta la macchina teatrale sonora è volta a questo dispositivo, sembra di scorgere qualche riferimento all’opera di Carmelo Bene. Ogni tentativo di incontro si risolve in un atto mancato, in un lapsus, in un depistamento che condanna personaggi ed autore a non incontrarsi mai o forse mai più. E’ così che iniziano a presentarsi sul palco sollevate dagli attori-comparse, croci di legno e scale mentre in loop arriva la litania femminile ideata per accompagnare tutta la pièce come un mantra che declina la frase l’orrore del mondo. Una rappresentazione laica di un deicidio. Sino alla epifania in cui l’ Autore/Punzo si smarca dai suoi personaggi, dopo aver proiettato uno sguardo altro su di loro; attraverso la lente deformata di a da Shakespeare, per poter rinascere attraverso la metafora dell’azione incrociata, in collusione con un piccolo bambino che entra in scena dal fondo della platea mentre rotola una pietra-Mondo. Il regista lo prende per mano, scende dal palco e se ne va con lui. La Tempesta è passata. Rimangono i sopravissuti o meglio i loro avatar. Si può ancora rinascere perché l’Utopia ci rende liberi e capaci di uscire ancora dai nostri corpi di personaggi mummificati in ruoli che non esistono più, già recitati, già visti, superati dalla forza dell’incarnazione del Puer che è in noi. Perché le tempeste poi finiscono. Sempre e se prima non abbiamo fatto i conti con una nostra parte oscura e segreta: l’Ombra. Visto al Teatro Verdi di Pisa il 29 ottobre 2016 Compagnia della Fortezza Aniello Arena, Gillo Conti Bernini, Elisa Betti, Placido Calogero, Rosario Campana, Eva Cherici, Nicola Esposito, Pasquale Florio, Giulia Guastalegname, Ibrahima Kandji, Carmelo Dino Lentinello , Gregorio Mariottini, Francesco Nappi, Marco Piras, Andrea Taddeus Punzo de Felice, Daniele Tosi, Francesca Tisano, Tommaso Vaja, Alessandro Ventriglia, Giuseppe Venuto, Qin Hai Weng e con Antonino Mammino (sempre con noi!) Regia e drammaturgia Armando Punzo Musiche originali e sound design Andrea Salvadori Scene Alessandro Marzetti Silvia Bertoni Armando Punzo Costumi Emanuela Dall’Aglio Produzione VolterraTeatro/ Carte Blanche Foto di scena di Stefano Vaja

giovedì 27 ottobre 2016


RUMORSCENA renzia.dinca CASCINA (Pisa) – Le ultime elezioni amministrative dello scorso mese di Giugno 2016, sono state protagoniste di un evento nazionale, che ha visto nel Comune di Cascina (45mila abitantinell’immediato entroterra sulla via Tosco Romagnola, direzione Pontedera e Firenze, sulla linea del corso dell’Arno e quella parallela dei Monti Pisani… “monti che i Pisani veder Lucca non ponno-Dante della Divina”), una vittoria della Lega Nord del lombardo Matteo Salvini. Una vittoria elettorale in grado di espugnare una roccaforte storica dell’ex Partito comunista. I toscani ricordano quel circolo ARCI di San Frediano a Settimo, fino a pochi anni fa zoccolo duro di un partito con storiche radici (ora Partito Democratico), e ora in forte trasformazione. Cittadina nota come del resto in Brianza, per la lavorazione artigianale di pregio del legno-attività (oggi in grave crisi), Cascina è una cittadina satellite di Pisa, da cui molti residenti ogni giorno partono per lavorare nella città della Torre, da tempo citata sulle cronache nazionali per aver eletto un sindaco donna: Susanna Ceccardi, 29enne nelle liste della Lega con la compartecipazione di Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lista Progetto Cascina. La neo sindaca ha assunto dall’agosto scorso le redini del Comune, in virtù della vittoria elettorale (il Sindaco del PD uscente era Alessio Antonelli, forte di un primo mandato), designando come assessore alla cultura Luca Nanniperi, saggista, storico e critico d’arte. Andrea Buscemi, Conferenza stampa presentazione stagione 2016/17 Teatro di Cascina La ricaduta del passaggio di colore politico della nuova Amministrazione sta stravolgendo equilibri storici sulle attività teatrali e culturali del territorio di Cecina. La Città del teatro e dell’immaginario contemporaneo – già ribattezzata “Città della cultura” dall’assessore Nannipieri, è una delle aree di criticità su cui si sta innescando un dibattito locale ma che non poteva e non potrà non avere strascichi nazionali, di natura ideologica programmatica, e forse conseguenze giudiziali. Ma andiamo per ordine perché la materia è complessa: la struttura della Città del Teatro – un opificio ristrutturato che copre un’area di 6500 metri quadrati, dedicati a musica, teatro, danza, cinema audiovideo ed installazioni (vedi Lucio Argano Riflessioni su un modello in La città del teatro e dell’immaginario contemporaneo Titivillus 2009), dopo vari passaggi oggi è divenuta Fondazione, riconosciuta dall’ultimo FUS 2015 come Teatro Stabile di Produzione. Un Consiglio di amministrazione con Michelangelo Betti ex presidente e Fabiano Martinelli vice – dimissionari dal mese di agosto, in scadenza di mandato il prossimo 18 novembre. Nel frattempo il Comune di Cascina (la Provincia pare sia ancora proprietaria dell’immobile al cinquanta per cento), essendo rimasto in carica uno dei tre membri del cda, ha rinominato i due membri del nuovo Consiglio di amministrazione: Andrea Buscemi, (pisano e attore teatrale), e Matteo Arcenni, manager, esponente locale di Forza Italia. Per legge l’intero cda scadrà il 18 novembre. Le nomine dei due dimissionari sono state eseguite ad agosto attraverso un bando di selezione con 16 domande pervenute a Fondazione Sipario Toscana onlus. Susanna Ceccardi, sindaca di Cascina (fonte: facebook) In quell’occasione la Sindaca Ceccardi, dopo la scelta di Buscemi ed Arcenni, dichiarò: “ Ben sedici sono state le domande presentate per il bando di selezione di due membri del Cda della Fondazione Sipario Toscana Onlus. La scelta è ricaduta su Andrea Buscemi e Matteo Arcenni. Il primo, attore di successo e in passato direttore artistico di numerosi teatri toscani, il secondo selezionato per le sue competenze manageriali nella gestione di aziende e personale. Auguro ad entrambi buon lavoro e di riuscire nella sfida di trasformare il Teatro Politeama in un Teatro che interagisca maggiormente col territorio e con i suoi cittadini, risanandone il bilancio e la gestione. Coraggio, Cascina! L’assessore alla cultura Luca Nannipieri, in occasione delle nomine, dichiarò al quotidiano La Nazione: “La direzione artistica continuerà ad essere autonoma, a scegliere spettacoli e manifestazioni in calendario ma dovrà essere sensibile al mandato culturale che i cittadini di Cascina hanno affidato ai loro rappresentanti. Non ci limiteremo dunque a supervisionare i conti, a ripianare gli ingenti debiti, a scrivere le introduzioni di rito nelle brochure di presentazione degli spettacoli. Saremo come amministrazione, e sarò io come studioso d’arte e assessore, protagonisti in prima persona dello sviluppo quotidiano, della programmazione, delle scelte editoriali e contrattuali della Città del Teatro, accanto al Cda della Fondazione Sipario Toscana”. www.gonews.it/nomine-ufficiali-del-cda-della-fondazione-sipario-toscana Venerdì 21 ottobre scorso, il nuovo cda del Teatro ha indetto una conferenza stampa, la prima del suo mandato. Sull’invito ufficiale dell’ufficio stampa della Fondazione Sipario, erano previste le presenze del neo Presidente Andrea Buscemi, dell’assessore alla cultura Luca Nannipieri e della direttrice artistica Donatella Diamanti. Dopo aver fatto salire i presenti sul palcoscenico in Sala grande (uno spazio di settecento posti, peraltro vuoto) e invitati a sedersi in cerchio: una cinquantina di persone fra lavoratori di televisioni e stampa locale, maestranze e lavoratori del Teatro, oltre a rappresentanti della nuova Giunta Comunale. Un certo stupore si è venuto a creare per la l’ assenza (tra l’altro percepita come non giustificata), in assenza di un comunicato ufficiale tanto meno ufficioso, almeno data l’importanza e la delicatezza della convocazione, della Sindaca Susanna Ceccardi nonché della direttrice artistica Donatella Diamanti. Il presidente Andrea Buscemi ha esordito dicendo: “Il Teatro in cui il nuovo cda si è insediato, in una fase di imbarbarimento e crisi di valori morali e intellettuali, è luogo di tutti, destinato alle voci di tutti, pluralista. Le polemiche che ci sono state le ho apprezzate, paradossalmente perché ciò vuol dire che il teatro è vivo. Ho selezionato sia spettacoli che ho scelto personalmente, sia proposti precedentemente da Donatella Diamanti, in programma per l’intera stagione ad una cifra di poco più di 26 mila euro a fronte di un budget precedente di 65/70mila euro. Alcune Compagnie hanno accettato di lavorare per noi a costi più bassi. Questo ha significato un risparmio di ben 40mila euro”. L’assessore alla cultura Nanniperi:“ Ci avevano detto che non eravamo in grado di presentare una programmazione, che questo luogo sarebbe stato destinato a costruzione di villette o addirittura ad una carrozzeria, invece lavoriamo a come dare futuro a questo luogo, cambiare l’estetica,destinarlo al decoro, alla bellezza, un luogo d’arte. Ho deciso di dedicare un ritratto del poeta Piero Bigongiari che in questi luoghi è nato, all’ingresso del Teatro. Il 28 ottobre Magdi Cristiano Allam sarà qui a parlare, avrà la cittadinanza onoraria di Cascina. Apriremo questo spazio di cultura, alle associazioni, ai pittori, ai gruppi, alla letteratura”. Il Programma artistico 2016/2017 La sala grande del Teatro di Cascina Il programma 2016-2017 prevede ben 38 titoli. In realtà un numero superiore a quello previsto dalla direttrice artistica Diamanti che già aveva consegnato il cartellone in Regione Toscana lo scorso luglio. La programmazione Teatro On/ Teatro Off, che nella stagione passata aveva ottenuto molto sold out, è stata modificata dopo l’insediamento del nuovo cda. Ricordiamo alcuni fra i titoli che si presume visibili a breve sul sito della Città del teatro: Il Balletto del Teatro Bolscioi, Enigma di Stefano Massini, Lillo e Greg, quest’ultimo uno spettacolo presentato in prima nazionale. Un lavoro di Andrea Buscemi (come attore sempre stato attento ai classici, da Dante a Moliere e pare anche presente anche con alcune sue regie), preannunciando anche scelte di opere liriche come il Barbiere di Siviglia, e forse, oltre a Fiorella Mannoia, sono stati contattati Mario Biondi e Vinicio Capossela. Personaggi del varietà e televisivi come Marisa Laurito, Gianfranco D’Angelo, Anna Mazzamauro ma anche dive del cinema anni Settanta, quali “Corinne Clery sex symbol di Hystoire d’O – ha voluto ricordare Buscemi – e Barbara Bouchet”. Alessandro Haber, Tiezzi/Lombardi e lo spettacolo “Un cappello di paglia di Firenze” con le musiche di Riz Ortolani e ancora, Massimo Carlotto. Sono previsti anche tre spettacoli di Teatro per i ragazzi, fra cui “La peggiore” cofirmata da Donatella Diamanti, (premio 2015 Eolo). A questo proposito sono state altresì conservate rispetto al preesistente, le Domeniche a teatro, uno dei capisaldi della programmazione e della identità storica trentennale del Politeama, dedicate al Teatro Ragazzi, e sul lavoro nel territorio con le scuole e le famiglie, ha fondato oltre che sul locale, una solidissimo e riconosciuto (anche dal FUS 2015) brand. Inequivocabile, ben tracciabile, difficilmente sconfessabile (vedi Giorgio Testa in La città del Teatro e dell’immaginario contemporaneo- Titivillus 2009). Ad una domanda specifica, non è stato risposto del perché il termine educazione al “Gender”, precedentemente insirito nel programma ufficiale, ora sia stato cancellato. È stato dichiarato anche che la ricca stagione del nuovo corso è garantita con poco oltre 26mila euro a fronte di un budget previsto dalla direttrice artistica di 65/70mila euro e che la diminuzione dei costi sia dovuta anche alla concertazione con alcune Compagnie che hanno accettato di ricevere il meno venti per cento del compenso proposto da Donatella Diamanti. La rendicontazione delle spese sostenute dal nuovo cda per la programmazione del cartellone 2016/17 – è stato spiegato dal Presidente Buscemi – sarà presentata in una successiva conferenza stampa, mentre la decisione di aver nominata la società milanese Bompani, come responsabile supervisore, al fine di verificare i bilanci del nuovo cda. Preannunciata, inoltre, per il nuovo corso, una Compagnia teatrale per il serale. Immaginiamo si tratti di una Compagnia diretta da Buscemi con propri attori, forse in residenza al Teatro di Cascina ed in tournée? L’assessore Nannipieri ad alcune domande di operatori presenti sulla futura modalità di assegnazione di proposte artistiche e culturali e residenze ha affermato: “ La cultura muore se si fa passare dai bandi. Non ne farò sulla Bellezza. Potrei chiamare Massimo Cacciari, per esempio, per un confronto. Non faremo residenze a vita”. A conferma di una affermazione fatta in precedenza da Buscemi: ”Il teatro, quando è sano, è fatto di solidarietà”. Nel frattempo, Donatella Diamanti che non è affatto uscita di scena, pur assente in conferenza stampa, ha dichiarato: “Nello Statuto della Fondazione c’è un punto in cui si dice che la direzione artistica e quella amministrativa decadono al decadere del cda. Il punto dello Statuto è però superato nel fatti – e nel diritto – poiché il mio contratto che, in nome del progetto triennale per il Ministero, dopo la prima scadenza è stato rinnovato appunto per un triennio, scade nel 2018 . Per quanto riguarda poi il FUS, il nuovo sistema ministeriale, ci ha riconosciuti come Centro di Produzione e in nome dei parametri (quantità di recite, spettatori, giornate lavorative), e ci ha concesso una maggiorazione del contributo di quasi il 71 per cento in più. Resta però la stessa specificità che avevamo quando ci chiamavamo Stabile, ovvero la nostra mission si fonda sulla sperimentazione e la ricerca per i ragazzi e i giovani.” Si attendono con preoccupazione gli sviluppi dell’intricata vicenda. Potrebbero esserci complicazioni in vista, dato che la direttrice artistica ha affermato la sua volontà di continuare a ricoprire il suo ruolo. Ti potrebbe interessare anche...

sabato 22 ottobre 2016


VOLTERRA – (Pisa) Una processione laica, visionaria, un mix testuale ed extratestuale fra installazione e acrobazia fisica per le strade e spazi simbolici della città etrusca. Performativa anche per il pubblico: due ore e trenta di impegno fisico e mentale in un pomeriggio afoso, una matrice sonora sensuale e mistica dal fortissimo tellurico imprinting letterario – cosa che già sulla carta spaventa un po’, per la gigantesca messa in cantiere di territori così promiscui ma anche distanti rispetto alcuni codici di rigida teatralità più perspicui forse ad un certo teatro di narrazione. Questa la scommessa portata da Archivio Zeta dentro il festival VolterraTeatro 2016. La compagnia formata da Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni (allievi e non a caso di Luca Ronconi e Marisa Fabbri), con all’attivo di lavori di forte impatto epico ed etico-visionario al passo della Futa (al Cimitero germanico sull’Appennino tra Bologna e Firenze), hanno portato al festival una ricchezza di contenuti e di forme sorprendente dopo le due precedenti creazioni collettive, quali La Ferita e Pilade alle Saline di Volterra. L’antefatto era già in nuce, nell’inverno passato, dove si era creata e rafforzata una sinergia di idee a fucina; di ideazioni programmatiche ed artistiche fra il gruppo bolognese e la Compagnia della Fortezza – che ha sostenuto l’evento, con la realizzazione del laboratorio permanente Logos. L’insolita partitura, che vede due spazi e due diversi, anche se contigui modi di sentire e pensare un Teatro contemporaneo (quello bolognese dove opera Archivio Zeta e quello toscano di Carte Blanche a Volterra), ha elaborato nella ideazione una messa in scena in cui confluiscono due capolavori quali il Macbeth shakespeariano (allestito in quasi contemporanea alla Futa) e quello dello statunitense Faulkner (Nobel per la letteratura nel 1949), per frammenti da Big Woods su ispirazione di testi dai due capolavori L’Urlo e Furore. Yoknapatawpha è il titolo della creazione scelto che deriva dalle parole degli indiani d’America Chickasaw: Yacona e Petopha, stante a significare terra divisa. Il nome con cui Faulkner individua una località immaginaria di molti dei suoi romanzi e racconti. Ma designa anche il nome del grande fiume americano Mississippi che attraversa gli stati del Sud, e quindi una dimensione legata all’acqua-tema, spesso ricorrente come rituale fantasmatico nella partitura drammaturgica, in una scena ad alto tasso di poeticità, dentro lo spazio del Museo. così come quello della foresta che si muove-il fiume umano che percorre le vie della cittadina, composto da due gruppi di due diverse provenienze, il bolognese ed il volterrano, confondendo corpi e volti della marea dei cittadini-attori con quelli dei turisti e passanti. La trama anche se di non facile iniziale comprensione, per i continui rinvii alla duplice letterarietà, e i continui cambi di registro stilistico – dal narrativo al performativo (il dittico costituito da Sound and Fury e Big Woods), ovvero il paese che non c’è. Un posto utopico, un testo drammaturgico intertestuale che parla di sofferenza, odio interrazziale, sradicamento, perdita di identità, storia dei vinti come gli indiani nativi (come i neri delle piantagioni del sud degli Stati Uniti d’America), ad un certo punto passa in secondo piano, la lettura logica viene spiazzata dall’agito, dalla visione, dal perdersi nella fantasmagoria delle emozioni e delle immagini ma soprattutto dal fascino dell’azione corale. Questa processione laica prende il via dalla rampa del cortile del Maschio della Fortezza di Volterra, fra possenti mura svettanti: da un lato – la chiusura, la reclusione e dall’altra un paesaggio mozzafiato, uno spazio aperto sull’infinito su colline senza tempo. Qui avviene una azione performativa breve che dà l’avvio alla lunga marcia a stazioni, quasi via crucis ma con finale di speranza condivisa che si concluderà dentro il Teatro Persio Flacco. Muniti di cuffie forse per non far disperdere il pubblico, si segue la carovana, un flusso migratorio che conduce per le vie della città mescolati ai tanti turisti. Il popolo viaggiante è costituito da attori non attori, giovani, bambini ed anziani delle due diverse provenienze: quella del laboratorio invernale Logos di Volterra e quella l’emiliana. Canti, danze, musiche suonate e soprattutto parole dense di significati si autoraccontano. Una piccola comunità simbolica che sulle spalle si carica la narrazione di un popolo combattente, fedele alle origini, che con riti arcaici antropologici si assiste alla cerimonia dell’acqua; e quella dell’uovo di luce che scende dall’alto del Persio Flacco (va ricordato in particolare) permette di riconciliarsi con le origini della Terra, della famiglia, del gruppo autoctono che non cede al prepotente di turno. Alle logiche del Potere del più forte che vorrebbe piegarli o spazzarli via per preservare valori e poterli trasmettere ai figli. L’opera corale è imponente come il progetto artistico. Regia e drammaturgia di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni. Dittico da Shakespeare/Faulkner. Con Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni e i cittadini-attori del gruppo Logos di Volterra e del laboratorio di Bologna. Partitura sonora Patrizio Barontini Visto a Volterra il 29 luglio 2016 VolterraTeatro Festival Rampa della Fortezza Medicea-vie centro storico- Teatro Persio Flacco © Copyright 2016 — Rumor(s)cena – Teatro, spettacoli, cinema e film in Italia, backstage, foto, interviste e curiosità – istruzioni per una visione consapevole . 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giovedì 15 settembre 2016


Corriere della Sera / CRONACHE L’INTERVISTA «Prometteva libertà ma il web oscuro rovina milioni di vite» Il filosofo Žižek: è lo Stato che deve controllare la Rete di Luca Mastrantonio shadow 0 12 0 domani terrà una lectio magistralis al festival di Pordenone, dove presenterà Il contraccolpo assoluto (Ponte alle Grazie), che continua la sua rilettura creativa di Hegel e Lacan. La notizia del suicidio di Tiziana Cantone lo colpisce in quanto padre e gli ricorda un caso molto simile in Slovenia. «A Maribor, due anni fa, in una piccola scuola, degli studenti avevano filmato un preside che faceva del sesso orale con una professoressa; quel video è finito sul web e il preside si è ucciso. Non ha retto, la sua vita era rovinata. Noi ce ne accorgiamo solo quando ci sono finali tragici o scandali, ma tante vite vengono distrutte in modo più discreto. Milioni di persone perdono la loro onestà, la loro decenza, soffrono». Prima del web era diverso? «Il web riproduce e diffonde più del passaparola. E può mostrare orrori da scenario di guerra, o morbosità atroci. Non può essere lasciato a se stesso. Se dai solo libertà poi si arriva a una esplosione di violenza, brutalità, razzismo. Lo so perché mio figlio, di 17 anni, ha fatto un giro sul web profondo e ha trovato di tutto, video di torture, scene di sesso estremo e persino uno di quei film in cui si vedono morire delle persone, uno snuff movie». Lei come ha reagito? «Malissimo. Sto male solo all’idea che si possa vedere realmente qualcuno torturato e ucciso. Per cosa poi? Un conto è vedere, come fanno gli inviati di guerra, le prove di un massacro di civili, altro discorso è farlo per gioco. Lo stesso discorso vale per il sesso». Cosa pensa del sesso digitale? L’ha mai fatto? «No! Io lo faccio in modo analogico. E amo le passioni. Infatti ho avuto più mogli, e sono un monogamo; ma la monogamia per la cultura di oggi è vista come una patologia, come l’alcolismo o la tossicodipendenza, perché non va bene fissarsi con una sola persona. In questo senso non mi piace molto il nuovo corso di certi movimenti di genere sessuale che sono passati dalla giusta richiesta di diritti alla prescrizione normativa di doveri, e di piaceri, quasi una ideologia, perfetta per il nuovo capitalismo social, che predica consumi e ostentazione. Gli psicanalisti dicono che spesso le persone chiedono come poter gestire meglio il proprio piacere, averne di più. E invece i terapisti devono liberare i propri pazienti da questa ossessione di voler godere sempre e comunque». Quant’è ambiguo l’appeal del sesso digitale? «Da un lato, per i giovani soprattutto, sembra un gioco di evasione, di fuga in un universo virtuale che spesso fa ritardare le esperienze reali. Dall’altro lato questa fuga fa venire fame di realtà, e di interagire in maniera anche brutale e, possibilmente, riconnettere virtualità e realtà. Anche in maniera dolorosa. Ricordo i cutters, quelli che si tagliavano con il coltello, anche su parti intime, o lì vicino, per sentirsi reali, vivi». Lei ha mai controllato il cellulare o il pc di suo figlio? «Mai, è da idioti pensare di farlo: lui è tecnologicamente più avanzato di me. È lo Stato che deve trovare il modo di controllare il web, almeno per gli aspetti penalmente rilevanti, socialmente pericolosi. Non credo come Assange che la libertà totale del web ci salverà: certo, non mi fido neanche delle agenzie di sicurezza attuali; servono apparati trasparenti che senza indirizzo politico salvaguardino quella che è una deriva generale». Lo Stato dovrebbe controllare la nostra privacy? «No. Il problema non è difendere la nostra privacy, ma difendere gli spazi pubblici dalla nostra invadenza, dalla tendenza a privatizzarli che li rende indecenti e indecorosi. I social media creano sì nuovi spazi di auto organizzazione, per dirla con Marx, ma grazie a loro il discorso politico si è abbassato: uno come Trump può parlare oggi in pubblico come fino a ieri avrebbe potuto parlare solo in privato. Questo abbassamento è accettato». Che cosa bisogna fare? «Invertire la tendenza. Un tempo sesso e linguaggio volgare erano armi rivoluzionarie contro il potere. Oggi che il potere è sessualizzato ed è volgare dobbiamo riscoprire le passioni nel sesso e in politica». © RIPRODUZIONE RISERVATAI LOCALI CORRIERETV ARCHIVIO TROVOCASA TROVOLAVORO SERVIZI CERCA LOGIN SCOPRISOTTOSCRIVI Corriere della Sera / CRONACHE L’INTERVISTA «Prometteva libertà ma il web oscuro rovina milioni di vite» Il filosofo Žižek: è lo Stato che deve controllare la Rete di Luca Mastrantonio shadow 0 12 0 domani terrà una lectio magistralis al festival di Pordenone, dove presenterà Il contraccolpo assoluto (Ponte alle Grazie), che continua la sua rilettura creativa di Hegel e Lacan. La notizia del suicidio di Tiziana Cantone lo colpisce in quanto padre e gli ricorda un caso molto simile in Slovenia. «A Maribor, due anni fa, in una piccola scuola, degli studenti avevano filmato un preside che faceva del sesso orale con una professoressa; quel video è finito sul web e il preside si è ucciso. Non ha retto, la sua vita era rovinata. Noi ce ne accorgiamo solo quando ci sono finali tragici o scandali, ma tante vite vengono distrutte in modo più discreto. Milioni di persone perdono la loro onestà, la loro decenza, soffrono». Prima del web era diverso? «Il web riproduce e diffonde più del passaparola. E può mostrare orrori da scenario di guerra, o morbosità atroci. Non può essere lasciato a se stesso. Se dai solo libertà poi si arriva a una esplosione di violenza, brutalità, razzismo. Lo so perché mio figlio, di 17 anni, ha fatto un giro sul web profondo e ha trovato di tutto, video di torture, scene di sesso estremo e persino uno di quei film in cui si vedono morire delle persone, uno snuff movie». Lei come ha reagito? «Malissimo. Sto male solo all’idea che si possa vedere realmente qualcuno torturato e ucciso. Per cosa poi? Un conto è vedere, come fanno gli inviati di guerra, le prove di un massacro di civili, altro discorso è farlo per gioco. Lo stesso discorso vale per il sesso». Cosa pensa del sesso digitale? L’ha mai fatto? «No! Io lo faccio in modo analogico. E amo le passioni. Infatti ho avuto più mogli, e sono un monogamo; ma la monogamia per la cultura di oggi è vista come una patologia, come l’alcolismo o la tossicodipendenza, perché non va bene fissarsi con una sola persona. In questo senso non mi piace molto il nuovo corso di certi movimenti di genere sessuale che sono passati dalla giusta richiesta di diritti alla prescrizione normativa di doveri, e di piaceri, quasi una ideologia, perfetta per il nuovo capitalismo social, che predica consumi e ostentazione. Gli psicanalisti dicono che spesso le persone chiedono come poter gestire meglio il proprio piacere, averne di più. E invece i terapisti devono liberare i propri pazienti da questa ossessione di voler godere sempre e comunque». Quant’è ambiguo l’appeal del sesso digitale? «Da un lato, per i giovani soprattutto, sembra un gioco di evasione, di fuga in un universo virtuale che spesso fa ritardare le esperienze reali. Dall’altro lato questa fuga fa venire fame di realtà, e di interagire in maniera anche brutale e, possibilmente, riconnettere virtualità e realtà. Anche in maniera dolorosa. Ricordo i cutters, quelli che si tagliavano con il coltello, anche su parti intime, o lì vicino, per sentirsi reali, vivi». Lei ha mai controllato il cellulare o il pc di suo figlio? «Mai, è da idioti pensare di farlo: lui è tecnologicamente più avanzato di me. È lo Stato che deve trovare il modo di controllare il web, almeno per gli aspetti penalmente rilevanti, socialmente pericolosi. Non credo come Assange che la libertà totale del web ci salverà: certo, non mi fido neanche delle agenzie di sicurezza attuali; servono apparati trasparenti che senza indirizzo politico salvaguardino quella che è una deriva generale». Lo Stato dovrebbe controllare la nostra privacy? «No. Il problema non è difendere la nostra privacy, ma difendere gli spazi pubblici dalla nostra invadenza, dalla tendenza a privatizzarli che li rende indecenti e indecorosi. I social media creano sì nuovi spazi di auto organizzazione, per dirla con Marx, ma grazie a loro il discorso politico si è abbassato: uno come Trump può parlare oggi in pubblico come fino a ieri avrebbe potuto parlare solo in privato. Questo abbassamento è accettato». Che cosa bisogna fare? «Invertire la tendenza. Un tempo sesso e linguaggio volgare erano armi rivoluzionarie contro il potere. Oggi che il potere è sessualizzato ed è volgare dobbiamo riscoprire le passioni nel sesso e in politica». © RIPRODUZIONE RISERVATA

venerdì 26 agosto 2016


Notte di attesa-50 anni di Teatro Povero renzia.dinca Monticchiello (Siena) Autodramma così lo definì Giorgio Strehler in anni in cui questa fenomenologia teatrale nata tra le crette senesi si presentava per la prima volta e come unica in Italia per l’audacia e la creatività legata a menti aperte sul nazionale ma anche capaci di legare a sé la laboriosità e intelligenza delle anime che vivevano e tuttora vivono sulla propria pelle quel territorio. Un’esperienza questa del Teatro Povero (definizione data da Grotowski) che con Notte di attesa, è arrivata al suo cinquantesimo anno. Iniziò cosi: un intero paese (composto da circa duecento anime) incominciò a riunirsi per raccontare e raccontarsi vicende e problemi sia personali che famigliari sia legati al lavoro ma soprattutto al territorio costruendo sotto la guida attenta di alcuni intellettuali che a Monticchiello avevano casa, delle drammaturgie che poi avrebbero messo in scena loro stessi in qualità di abitanti-attori. La rappresentazione dopo alcuni mesi di lavoro, sarebbe poi andata in scena nella piazza del borgo medievale in un suggestivo spazio all’aperto accanto alla svettante Chiesa fra un micro dedalo delizioso di vicoletti composto ad anello. I temi scelti e discussi avrebbero così portato in scena e alla luce di un pubblico sempre più affezionato proveniente non solo dalle vicinanze (la rinascimentale Pienza, città di Mario Luzi è a soli sette chilometri), ma anche da altri luoghi più lontani raccogliendo via via consensi della critica nazionale. Il tema della mezzadria che negli anni Sessanta andava scomparendo modificando antropologicamente il territorio e le sue genti, quello conseguente dello spopolamento delle campagne, la fuga dei giovani alla ricerca di un futuro nelle città vicine (Firenze, Roma e chissà dove), l’ecomostro purtroppo non bloccato nella costruzione che avvicinò un intellettuale come Alberto Asor Rosa al progetto del Teatro Povero, sono storia che andrà a breve in stampa attraverso la pubblicazione di un volume per il cinquantenario e che sarà presentato nel corso di un Convegno internazionale nel mese di ottobre. In questo volume sarà narrata l’evoluzione del progetto che nel corso degli anni ha prodotto un sistema di organizzazione all’interno del piccolo borgo (che nel frattempo è rientrato insieme al territorio della Val d’Orcia sotto il patronato UNESCO) davvero peculiare. L’esperienza teatrale infatti ha avuto uno sviluppo politico-sociale quasi di sapore vetero-comunista: il Borgo, lontano dalle rotte turistiche maggiori, sostanzialmente contadino (oggi sono spuntati numerosi agriturismi e bed and breakfast ma è cosa recente) si è inventato uno spazio fra l’altro di pregevole ristrutturazione in cui in cooperativa convergono: edicola dei giornali, posto dove arrivano i medicinali per gli anziani che non possono spostarsi, punto internet. Insomma una storia esemplare di capacità di resilienza da parte di una popolazione abituata alla durezza e alla fatica della coltivazione delle crette, fiera delle proprie origini e attenta alle mutazioni intergenerazionali, temi questi tutti presenti anche nell’autodramma che celebra il solidissimo cinquantenario. E ancora come da molti anni regista e direttore artistico dell’impresa teatrale è Andrea Cresti, pittore e scenografo che fin dall’adolescenza ha partecipato come attore e abitante alle messe in scena del Teatro Povero. Per la celebrazione è stato scelto un canovaccio piuttosto affascinante dal punto di vista letterario ossia la vicenda emozionale ed umanissima di un gruppo di persone uomini donne e ragazzi di diverse età da bambini ai bisnonni insomma una comunità che potrebbe essere anche una famiglia allargata ( fra cui un giovane africano del Gambia oggi ospite della comunità del borgo della provincia senese), in preda ad una forse irrazionale forse no paura di un Nemico prima invisibile e poi forse solo immaginario frutto di allucinazione virtuale collettiva. E così, per difesa istintiva naturale è necessario innalzare muri e sollevare ponti levatoi quasi castello medievale in cui una parte sta per combattere-forse, contro un’altra. Peccato che la proiezione più o meno immaginaria crea come sempre mostri che la ragione è e deve essere in grado di contenere demistificare per poi allontanare. Così nella affabulazione a più voci fra un innalzare e far cadere le tessere mosaico di barriere di fantasie o reali ci si chiede fra bimbi che si affacciano dalle finestre sul mondo, anziani il cui volto guarda ai tempi della mezzadria, ragazze che non trovano da quel borgo- come spesso tutti-il campo telefonico per avere notizie su un curriculo per posto di lavoro fuori tempo massimo, un bel vento di tramontana spazza via timori e incertezze mentre dopo un’ora di spettacolo anche gli spettatori un po’ freddolosi, si tolgono le copertine dalle ginocchia per accedere insieme agli attori-abitanti ad una riflessione comune sul senso dei tempi da un microcosmo che li riflette a specchio allo specchio che tutti ci riguarda. Quello di un Paese, l’Italia, dove spesso la metafora dell’ologramma utilizzato in Notte d’attesa-che è un po’ riflesso dejà vu ma comprensibile ai più di un universo virtuale da video game, fa riscontro un sano rapporto coi corpi le voci e le storie di chi tutti i giorni combatte anche e se ammesso che fosse, con nuovo Nemico, ma per guardargli il volto e dialogare, anche con lui. Notte di attesa- 50 anni di Teatro Povero Regia Andrea Cresti con Abitanti-Attori del Teatro Povero di Monticchiello visto a Monticchiello, il 12 agosto 2016

martedì 23 agosto 2016


La Città del Teatro da Teatro Stabile di Innovazione a Teatro di Produzione - intervista a Donatella Diamanti
C<b>Cascina ( Pisa) Intervista a Donatella Diamanti luglio 2015 di Renzia D'Incà Quanta acqua è passata sotto i ponti in questi pochi mesi da quando la Riforma ministeriale firmata Franceschini ha mutato l’assetto della situazione pregressa di decenni di storie di spazi teatrali pubblici e privati della nostra Penisola. Appena sorto Il Teatro della Toscana quale prima realtà regionale con le sole altre sei a livello nazionale, ecco che in Regione si prefigurano realtà riconosciute dalla Commissione FUS come Teatro di produzione. Una fra queste è La Città del Teatro di Cascina. Abbiamo incontrato Donatella Diamanti, drammaturga e sceneggiatrice televisiva di rango che ne è la direttrice ( riconfermata) da tre anni, per fare un bilancio del suo mandato e commentare l’evoluzione dello spazio che da trent’anni opera sul territorio fra Pisa e Firenze a soli dieci chilometri dal Teatro Era di Pontedera, attuale partnership con La Pergola del Teatro della Toscana. Lei è da tre anni direttrice della Città del Teatro. Vuole raccontare quale è stato il progetto artistico- suo e del suo staff-che ha trasformato di fatto un Teatro Stabile di innovazione nel nuovo Teatro di produzione? Diamanti: Il nostro Teatro è un teatro aperto. Abbiamo scelto, all’inizio del mio incarico (N.d.R che nasce da una investitura per pubblico concorso) di dare massimo ascolto a tutte le forze in campo sul territorio nazionale e anche locale sia nuove sia che già gravitavano sul nostro progetto culturale e artistico. Il risultato, a distanza di tre anni dalla mia nomina a direttrice artistica, è stato quello di un piccolo miracolo di pubblico. Sulle prime del serale, una rassegna difficile, nella passata stagione abbiamo avuto ben dieci aperture col tutto esaurito. Può indicarci quali sono secondo lei i fattori che hanno reso possibile questo bel risultato? Diamanti: Credo sia stato l’aver pensato che fosse necessario adattare l’evento al luogo. Mi spiego meglio: abbiamo molto lavorato in programmazione con le scuole. Insomma un epilogo in linea col nostro progetto. Ci parli del rapporto con le residenze, gli artisti dato che siete divenuti Teatro di produzione. DIamanti Il rapporto stretto con gli artisti è sempre stato un fattore determinante essenziale del nostro progetto artistico. Lo spazio teatrale di cui disponiamo, lo consente. Abbiamo una foresteria e l’artista è per noi un abitante del luogo. La Formazione è un altro dei vostri punti di forza. Come vi muovete? Diamanti: Chiediamo a coloro che si iscrivono ai nostri corsi anche di assistere ai nostri spettacoli. Abbiamo creato questa formula, che funziona. I corsi di drammaturgia , per esempio , che io stessa curo in prima persona, sono gratuiti. L’unica richiesta ai partecipanti è la presenza come pubblico ai nostri spettacoli in cartellone ed un feed back nel nostro dopo-spettacolo. Inoltre chiediamo trasversalità di pubblico rispetto agli spettacoli dell’infanzia con le proprie famiglie. Abbiamo il domenicale con due repliche, sempre con tutto esaurito pomeridiano e dispensiamo le merende gratuite. Inoltre siamo noi come staff che andiamo nelle scuole del territorio- elementari e medie, ad incontrare bambini ragazzi ed insegnanti. Per quanto riguarda l’educazione degli spettatori, abbiamo istituito il corso Veder Vedere curato da Ivana Monti. Non solo: coinvolgiamo gli spettatori nelle prove aperte degli spettacoli. Teniamo alla varietà del nostro pubblico. Il nostro obiettivo è sempre stata la qualità. Anche le nostre residente artistiche per i giovani sono gratuite. Ho puntato molto sul ricambio generazionale. I debutti ( con scambi) avvengono proprio qui nel nostro spazio, dove i giovani hanno avuto ospitalità. E’ questa una delle ragioni per cui siamo stati individuati come Centro di produzione. Da noi gli under 35 partecipano al processo produttivo e formativo e sono retribuiti per il loro lavoro.

mercoledì 10 agosto 2016


La Città del Teatro-Quale futuro Renzia D’Incà Cascina (Pisa) Nel corso della conferenza stampa in cui il nuovo cda della Città del Teatro di Cascina a seguito degli esiti delle elezioni amministrative che hanno visto la vittoria della Lega e l’insediamento della nuova Giunta con a capo la Sindaca Ceccardi con Luca Nannipieri assessore alla Cultura, sono emerse alcune questioni con l’attuale direzione artistica riguardo sia fattori gestionali che di contenuti di programmazione dei futuri cartelloni. Ne abbiamo parlato con la direttrice Donatella Diamanti che da cinque anni guida una realtà territoriale che è presidio culturale di livello nazionale riconosciuta a livello ministeriale in quanto Teatro di Produzione Nazionale Qui riporto la nostra conversazione: Dottoressa Donatella Diamanti: il neo assessore Nannipieri dice che la giunta non è per niente soddisfatta della produzione artistica e delle scelte culturali fatte in tutti questi anni, sostenendo che la proposta culturale è magra e che sono state fatte finora proposte monodirezionali. A lui fa eco il neo Presidente Buscemi, che dichiara che i cartelloni passati erano poco inclini a far incassi, con un teatro che al di là dei confini locali nessuno conosce. Che cosa può dirci?” "Nel corso della stessa conferenza è stato anche dichiarato che il problema è quello di un teatro avulso dal territorio, con la cittadinanza cascinese che non lo vive: siamo troppo localistici o troppo poco, allora? Non è mia abitudine cercar polemiche e mi limito ai fatti, evitando dunque ogni possibile strumentalizzazione. Durante le passate stagioni – io posso ovviamente parlare solo per ciò che attiene alla mia direzione, vale a dire dalla metà del 2012 a oggi – la Città del teatro ha visto tornare a riempirsi i suoi spazi. Nell’ultimo anno, ad esempio, abbiamo avuto il tutto esaurito innumerevoli volte, in ogni tipo di offerta: quella rivolta ai bambini e agli adolescenti (attività per la quale siamo riconosciuti come Centro di produzione dal Ministero e abbiamo ottenuto l’accreditamento regionale, ricevendo un cospicuo finanziamento), così come in quella serale disegnata nel progetto triennale in base al quale riceviamo i finanziamenti di cui sopra. Se davvero questo accade con spettacoli di per sé poco inclini a fare incassi beh, allora mi rallegra constatare di essere riusciti col tempo a creare un’attesa tanto alta intorno alle nostre offerte da avere – numeri alla mano – scongiurato il pericolo". Dottoressa, potrebbe fare dei nomi? si parla di scelte monodirezionali "Ho visto che, in genere, specie sui social network, a questa accusa seguono quasi sempre i nomi Travaglio e Guzzanti, come se fossero stati l’unica nostra proposta. Negli ultimi anni Marco Travaglio è venuto due volte è vero ed una Sabina Guzzanti, ma sul nostro palcoscenico si sono succeduti anche attori come Luca Zingaretti, Antonio Albanese, Lillo & Greg, Alessandro Benvenuti o Lucia Vasini, Antonio Cornacchione, Paolo Calabresi, Lella Costa, Katia Beni, Anna Meacci. Prodotti popolari e al tempo stesso di qualità, accanto a spettacoli come l’ultimo di Emma Dante o di Marco Paolini o a importanti esempi di drammaturgia contemporanea, dallo splendido testo di Christian Ceresoli, La merda, a cui abbiamo portato fortuna, perché dopo che lo abbiamo messo in cartellone ha vinto il prestigiosissimo Festival di Edimburgo, a L’origine del mondo di Lucia Calamaro… fatico adesso a ricordarli tutti". Si dice che manca il teatro classico, però: Shakespeare, Moliere, Goldoni, Pirandello… "La Città del Teatro vive in una realtà geograficamente ben segnata. Da un lato, infatti, c’è il Teatro Verdi di Pisa, che ha in quel tipo di offerta la propria cifra principale. Dall’altro c’è Pontedera, che alla storica vocazione di sperimentazione ha affiancato adesso, con la fusione con La Pergola, una proposta più indirizzata alla tradizione. Nel prossimo anno ospiteranno un Lear, Edipo, L’uomo dal fiore in bocca o Una bisbetica domata, tanto per fare un esempio. A mio avviso diventa dunque necessario individuare altri spazi, proprio per ribadire un’identità che possa essere davvero inclusiva su larga scala (e andare ad attirare, come i biglietti venduti ci dimostrano, un ampio pubblico), anziché rimanere schiacciata tra due colossi, come loro piccola controfigura". E per quanto riguarda il resto? In conferenza stampa si è parlato di terrorismo e Islam come temi da trattare "Viviamo ben calati nella realtà e credo che questo sia stato il punto di forza degli ultimi anni. Abbiamo trattato a fondo temi come quello alla criminalità organizzata o quello del femminicidio quando gli eventi e la sensibilità comune erano pronti a farlo. L’assalto al Bataclan - e, da lì in poi, l’escalation di attentati e di timore – è del 13 novembre scorso, non di tanti anni fa, non dimentichiamolo. E dunque non credo che si possa intendere che non ne abbiamo parlato, quanto piuttosto che non ne abbiamo “ancora” parlato. Personalmente ritengo giusto e doveroso farlo e cercare, da buoni narratori di storie, di sviscerare al meglio ciò che sta accadendo attraverso ogni punto di vista. Non credo affatto che la paura per gli attentati o le difficoltà di fronte a scenari mondiali inimmaginabili fino a poco tempo addietro appartengano alla destra o alla sinistra. Poi, certo, io ho le mie idee, ma è proprio dal confronto che nascono i migliori passi avanti. In ogni campo e, a maggior ragione, in luoghi come il nostro dove si mettono in scena i pensieri".

lunedì 1 agosto 2016


In viaggio con Gli Omini da Pistoia a Castagno renzia.dinca FacebookTumblrPinterestCondividi STAZIONE DI CASTAGNO (Pistoia) – Quelle Ferrovie dello Stato quando i treni erano sempre puntuali, quando c’era lui, e che adesso dismettono le tratte. Quella fra Pistoia e Porretta Terme, aveva rischiato di chiudere solo due anni fa, ma così non è stato. La Compagnia Gli Omini ( Premio Enriquez e premio Rete Critica 2015) con il vento in poppa dopo il successo- meritato, di Ci scusiamo per il disagio con debutto estivo a fianco della stazione pistoiese al deposito dei Rotabili Storici nazionale, in presenza di due treni da collezionismo che ricordavano dei modelli Rivarossi, tuttavia autentici se fossero stati in scala per bambini-adulti, mentre un tecnico nel caldo assordante della scorsa estate ci diceva che sì forse potrebbero ancora viaggiare ( sic!). Eccolo il mito Otto- Novecentesco della Ferrovia! Stavolta finalmente si viaggia per davvero dopo l’esperienza dell’anno scorso, “La corsa speciale” è il nuovo titolo. Il treno ha una livrea colorata, di ultima generazione porta il nome di Jazz, è moderno e pulito. Sembra di viaggiare in aereo, magari in classe turistica ma con video che indica destinazione stazione di Castagno. Siamo circa un centinaio a partire dalla stazione di Pistoia ( città che si è aggiudicata per il 2017 il primato italiano di Città Europea della Cultura), saliamo a bordo ma prima vidimiamo il biglietto (che termine assurdo e comunque sempre meglio che obliterare). treno Ci avvisano con un volantino che a causa della tragedia ferroviaria di Andria in quel budello infernale che risponde al nome di binario unico, diventato da pochi giorni, e qualche manciata di ore, luogo sinistro di vittime pendolari, Trenitalia ha deciso di cancellare il prologo dello spettacolo, dove una registrazione sonora e non solo, doveva essere diffusa a bordo avanti e indietro da Pistoia. ATT00007 Giunti a Castagno dopo circa venti minuti di viaggio a velocità media da crociera di 50 kilometri orari, come da schermo visibile in ogni carrozza, ci troviamo in uno spazio inedito teatrale, tra un praticello con alber e luci in notturna – ipotetica stazioncina pedemontana – di fatto chiusa come altrove sui territori liminari omologhi delle tratte secondarie, dove si svolge l’azione scenica; e un buco-galleria tipica appenninica, dove il nostro trenino jazz sparisce per poi ricomparire un’ora dopo a fine spettacolo fra semafori verdi e rossi di via libera e stop. Anche le storie che vengono narrate da Gli Omini, perseguono nel loro spazio-tempo la dinamica corrente già percorsa nell’immaginario visto lo scorso anno a Pistoia e stazione- di passaggio; sì di provincia ma per città come anche Prato e Firenze. Solo che le storie stavolta sono meno borghesi e anche meno pulp ma molto più terragne, più pop insomma. Del resto questo è il concept della poetica del gruppo che proprio da interviste in chiave prettamente sociologica, attinge e con fortuna sia di critica che di pubblico, il proprio materiale drammaturgico-narrativo. ATT00010 Si parte da una presenza inquietante che si rivela trasformazione grottesca del povero piccione – testimone scomodo ma silente, perché sporco abitante delle vicende di sbandati ma anche di belle signore annoiate in viaggio per la stazione pistoiese. L’essere si presenta con becco da uccello e gran parlantina da filosofo fra il berciante e il sermoneggiante e si appalesa da dietro due alberi fronzuti a cui sono appese due altalene. In questo ricreato spazio – stazioncina si riverberano le voci-dialoghi registrati in primo abbozzo in intervista di persone reali, poi in riscrittura drammaturgica in forma di personaggi impersonati a ruota, a mosaico, da Luca Zacchini, Francesco Rotelli e Francesca Sarteani. Chi sono questi anonimi viaggiatori a cui danno vita voce e corpo i tre Omini? Una colf dell’est con relativo anziano rinco, un poeta napoletano forse incompreso, un navigatore solitario degli spazi second life, una volontaria emiliana del terremoto che va a trovare un amore a Lucca, un fissato dell’oroscopo da balera e altri. Al di là dei contenuti è il trattamento che ne è stato fatto a rendere questo lavoro gustoso e leggero, nella sua pesante restituzione d’umanità coi suoi tic, fissazioni, stati d’animo, un affresco sociale in punta di penna asciutto e scattoso. Storie tenere e insieme miserabili spesso vere spesso fasulle che tutti da viaggiatori della vita abbiamo ascoltato e magari raccontato sui treni delle nostre esistenze. Perché tutti in fondo siamo un po’ viaggiatori spersi nel tranello delle ragnatele delle nostre vite e un po’ uccellacci biechi, bravi a raccontarcela. Il progetto T ( T come treno T come Teatro T come transappenninica), ideato da Gli Omini, Compagnia in residenza dell’Associazione Teatrale Pistoiese presieduta da Rodolfo Sacchettini è di durata triennale e ci proporrà una nuova avventura, un nuovo viaggio per nuove storie per il 2017. Anno di Pistoia capitale della Cultura. ATT00013 Progetto T anno II-2016 Produzione Associazione Teatrale Pistoiese in collaborazione con Trenitalia e Rete Ferroviaria Italiana Compagnia Gli Omini Con Francesco Rotelli, Francesca Sarteani e Luca Zacchini Dramaturg Giulia Zacchini Visto a Castagno (Pistoia) il 22 luglio 2016 Ti potrebbe interessare anche: “Corsa speciale”: in treno con gli Omini sulla Porrettana 14/06/2016 Dal Binario 10 parte la XXX edizione del Festival Volterra Teatro 18/07/2016 Trattato di economia al Funaro 13/06/2016 Amleto + Die Fortinbrasmaschine. Roberto Latini a Volterra Teatro 28/07/2016 I “Dialoghi degli Dei” dei Sacchi di Sabbia 10/07/2016 Miti che rivivono nei “corpi nuovi” di Roberto Latini 18/07/2016 FacebookTumblrPinterestCondividi Tags: featuredrenzia.dinca Autore: renzia.dinca Si è laureata all’Università di Pisa. Giornalista dal 1985, ha collaborato con Hystrio, Sipario, Rocca, Il Grandevetro, Il Gazzettino di Venezia, Il Tirreno, La Nazione, Il Giorno, Sant’Anna News. Lavora come consulente in teatro e comunicazione. Ha condotto ricerche universitarie per le riviste Ariel e Drammaturgia e svolto tutoraggio di master universitario di Teatro e comunicazione teatrale per l’Università di Pisa. Ha pubblicato in poesia Anabasi (Shakespeare & Company, Bologna 1995), L'altro sguardo (Baroni, Viareggio 1998), Camera ottica (ivi, 2002), Il Basilisco (Edizioni del Leone, Venezia 2006) con postfazione di Luigi Blasucci, L'Assenza (Manni-Lecce 2010) con prefazione di Concetta D'Angeli, Bambina con draghi ( Edizioni del leone, Venezia 2013) con prefazione di Paolo Ruffilli. È inserita nella rivista Italian Poetry della Columbia University.Come saggista teatrale il volume Il teatro del cielo (Premio Fabbri 1997), Il gioco del sintomo (Pacini-Fazzi, Lucca 2002) su un’esperienza di teatro e disagio mentale, La città del teatro e dell'immaginario contemporaneo (Titivillus, Corrazzano 2009), Il Teatro del dolore (Titivillus 2012), su una esperienza ventennale di teatro e disagio mentale presso La Città del teatro. Per Garzanti uscirà un saggio sul Metodo mimico di Orazio Costa. Come autrice di teatro sono stati rappresentati Ars amandi-ingannate chi vi inganna ed uno studio per Passio Mariae con video di Giacomo Verde. Collabora come performer con musicisti, tra i quali il maestro Claudio Valenti, che hanno composto brani inediti sui suoi testi ispirati al Il Basilisco e L'Assenza.

mercoledì 20 luglio 2016

< (Z)ZeroCalcare 21 ore fa · [IL PUNTO SULLA VICENDA DI GENOVA, POI PURE STICAZZI DELLA CENSURA DI FACEBOOK] Allora. Siccome mi hanno sospeso la pagina fan per il post sull’iniziativa di Genova nell’anniversario del G8 del 2001 di domani, e la riapertura passava per la sua rimozione,e ora è uscito pure un articolo di wired sulla vicenda (http://www.wired.it/…/perche-pagina-facebook-zerocalcare-s…/) vale la pena spendere due righe, anche perché dopo che avevo fatto la lagna in un fumetto un paio di settimane fa, stavolta un sacco di gente ha scritto cose molto carine e supportanti ed è utile chiarire questa roba. Allora, nella giornata di ieri ho postato la locandina dell’iniziativa che si terrà a Genova il 20 luglio, che non contiene oltre che nessun’offesa neanche nessun riferimento a presunti eroismi, giudizi, attacchi, una cosa proprio low profile. Questo post ha scatenato una serie di commenti immondi, che andavano dalla gioia per il buco in testa a Carlo Giuliani a invettive varie e promesse di non comprare mai più i fumetti miei e roba del genere. Un sacco di gente giustamente ha commentato “vabbé, ma che la roba di zerocalcare non l’avete mai letta? Che lo scoprite ora come la pensa?”, qualcun altro s’è lamentato del fatto che i lettori pretendono di decidere i temi su cui un autore può o non può esprimersi.... Ecco, è tutto molto giusto, ma sti ragionamenti non colgono quello che è successo. Chi ha cacato il cazzo ieri non sono lettori miei, punto. Eccetto una minima parte, che ha espresso peraltro in maniera piuttosto pacata il proprio dissenso ma senza alcuna sorpresa, tutto quel macello e quei toni (comprese le segnalazioni che hanno portato alla chiusura della pagina e alla rimozione del post) l’hanno fatto altri, venuti su quella pagina apposta, che di sicuro non sono le mie categorie principali di lettori: nazisti e/o poliziotti (ex o attuali o simpatizzanti o sindacatini o associazioni). Stop. Quindi tutti i ragionamenti tipo “chissà quanti di quelli che fanno la fila per il disegno poi in realtà pensano ste cose” sono sbajati regà. Ma no perché tutti quelli che mi leggono la pensano come me eh, ci stanno pure persone molto lontane come orientamento politico e si, ci stanno pure guardie, ma so’ comunque persone tendenzialmente capaci di gestire quella contraddizione ed accettare un punto di vista diverso, cioé non so' quelli che scrivono ERA UN PORCO ED SI E’ MERITATO LA FINE CHE HA FATTO, per intenderci. Ero indeciso se scrivere queste due righe perché fino a stamattina pensavo vabbé, Genova è una partita chiusa. Sclerotizzata, immutabile, ormai esiste un blocco sociale in questo paese che pensa che era giusto sparare in faccia a Carlo Giuliani, e quella roba ormai è inscalfibile. Non vale la pena dibatterne ancora. Teniamoci la nostra memoria, coltiviamola, problematizziamola, e amen. Schieriamoci sulle cose dell’oggi checcazzo, sulle cose che ancora sono vive e ci attraversano e su cui possiamo ancora orientare il dibattito pubblico e l’opinione, quelle su cui non abbiamo ancora perso. Non sui match finiti. E invece evidentemente Genova non è finita (c’è chi lo dice da tempo, lo dico pure io ma ammetto di averlo usato più come uno slogan che altro), non solo –ma basterebbe quello- perché ci sta ancora una persona in galera a 15 anni di distanza dai fatti (e altre sottoposte a misure e restrizioni) mentre altri venivano promossi e facevano carriera, ma perché è la controparte e pezzi dei suoi apparati che continuano a fare una guerra accanita e che sulla narrazione di quelle giornate non vogliono mollare di un centimetro. Quindi boh, è dal 21 luglio 2001 che litighiamo su quanto è successo a Genova. In tanti di noi si so pure rotti il cazzo, di litigare e raccontare. Però forse vale la pena continuare a farlo, anche per rispetto al nostro dolore, al nostro sangue e alle nostre lacrime, pure se ci sembrano così lontane oggi.

martedì 19 luglio 2016


Miti che rivivono nei “corpi nuovi” di Roberto Latini renzia.dinca RUMORSCENA CASTIGLIONCELLO (Livorno) – L’anfiteatro, cornice storica di tanti spettacoli all’aperto nelle ben diciannove edizioni del festival Inequilibrio, sito nel parco di Castello Pasquini, ha ospitato il progetto in evoluzione Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi) di Roberto Latini, tratto da Ovidio. Il regista con la sua compagnia Fortebraccio Teatro – complice Armunia diretta da Angela Fumarola e Fabio Masi, attenti alle nouvelles vagues delle produzioni dei giovani gruppi teatrali, ha fissato da qualche anno una residenza artistica a Castiglioncello dove lo stesso progetto ha potuto crescere, rendersi visibile e farsi apprezzare. Già impostosi nella edizione del 2015 in forma di site specific e dopo allestimenti in modalità di maratona al Teatro Vascello a Roma e in altri spazi teatrali, si ripresenta con una struttura narrativa in dittici: Il Sonno-Tiresia, Aracne-Ecuba, Sirene-Sibilla Cumana, Filemone e Bauci-Sisifo Ilaria Drago foto di Lucia Baldini Ilaria Drago foto di Lucia Baldini Nel magmatico corpus letterario da cui Latini ha scelto di attingere il materiale drammaturgico del suo nuovo lavoro- operazione già di per sè coraggiosa al limite dell’impossibile ma di cui il regista stesso afferma di essersene proprio per questo innamorato, egli sfida la complessità dell’adattamento (da lui stesso curato) non solo e non tanto nel difficile trasferimento in forma drammaturgica del testo letterario, ma soprattutto, nel distillare forme convincenti e autonome per lo statuto teatrale; una materia vorticante e allusiva ricchissima di personaggi, storie, metonimie, allegorie, giochi semantici, quale quella creata da Ovidio nel suo capolavoro sui miti. Se di “progetto incompiuto” si tratta, come da esplicito manifesto di regia, la trasposizione a cui abbiamo assistito, quella di Sirene più Sibilla Cumana, appartiene in pieno alla poetica già percorsa nell’edizione dello scorso anno di Inequilibrio, in cui in diversi spazi ed orari erano stati presentati cinque miti in cinque diverse giornate, dei quali il più suggestivo e memorabile è stato probabilmente Orfeo ed Euridice. In questa sorta di immersione in uno stato onirico pre conscio una sorta di immaginario archetipico- se tutta una scuola di antropologia classica italiana, invece non fosse nata a sconfessasse questa lettura, ci ritroviamo alla visione dei quadri sonori e cinetici di Latini, come posseduti da forme suoni colori atmosfere ancestrali e ipermoderne, trasportati dentro universi conosciuti ed insieme misteriosi; insomma dentro un perturbante che avvince e porta altrove, attraversando spaesamenti mentali di non facile trasposizione come racconto di evento attraverso parole e significati. Così in questa che ci piace chiamare suggestione a cui abbiamo asssistito: Sirene, ci troviamo di fronte ad un sipario aperto su un’immagine di sirena ( una Ilaria Drago superba) che usa la voce, anche modificata in effetto loop, grazie al prezioso contributo al lavoro di Gianluca Misiti (musiche e suoni) e di Max Mugnai alla direzione tecnica, con effetti stranianti in una affabulazione fra eros e thanatos che ha come referente il mare, ora amante agognato ora odiato- è questo l’amore che dai? È questo l’amore che sai dare? È un canto ipnotico ricco di contaminazioni verbali erotiche sussurrate ad un microfono da cui spuntano fiori finti forse gigli. Ilaria Drago foto di Lucia Baldini Ilaria Drago foto di Lucia Baldini La scena muta ed appaiono altre ineffabili figure: sono sia maschili che femminili e travestite da clown. Il clown è il trait d’union fra diversi tempi e piani in cui si svolge l’azione scenica mentre il personaggio di sirena si allontana fra rumore di onde e strida di gabbiani e compare la Sibilla morente. Così le forme mutate narrate da Ovidio nelle loro metamorfosi prendono ad anello a loro volta altre forme, quelle dei corpi, delle voci, delle vite di altre narrazioni, di altre storie attuali e antiche insieme poichè le storie dei miti vivono o meglio rivivono a saperle leggere, nelle vite di noi contemporanei. Metamorfosi ( da forme mutate in corpi nuovi) da Ovidio Traduzione di Piero Bernardini Marzolla adattamento e regia Roberto Latini musiche e suoni Gianluca Misiti luci Max Mugnai costumi Marion D’Amburgo con Ilaria Drago, Alessandra Cristiani, Roberto Latini, Savino Paparella produzione Fortebraccio-Teatro Festival Orizzonti Visto all’Anfiteatro del Castello Pasquini, il 2 luglio 2016

venerdì 15 luglio 2016


RUMORSCENA L'Italia che dimentica il suo passato coloniale. Frosini e Timpano la rievocano CASTIGLIONCELLO (Livorno) – Nella prima settimana di programmazione del Festival Inequilibrio giunto alla sua XIX edizione fra l’altro ricca di spettacoli di prosa e danza in cartellone ogni giorno, e da quest’anno dislocati di necessità anche in spazi altri rispetto alla storica sede del Castello Pasquini, a causa della chiusura della tensostruttura, abbiamo assistito a questa prima parte del nuovo lavoro della coppia Frosini| Timpano “Zibaldino africano“, una prima parte che quindi già ne preannuncia una seconda che andrà a configurare l’opera completa che già ha il titolo di “Acqua di colonia”. Già di per sè evocativi, anche se metaforici, i titoli stanno ad indicare la zona di perlustrazione ed il focus sui quali i due coautori hanno scelto di lavorare in questo nuovo processo creativo e di messa in scena in cui intrecciano a quattro mani scrittura drammaturgica, regia e interpretazione come da qualche tempo ci hanno abituati. Graffia insinua induce a riflettere, amaramente riflettere una drammaturgia che per accostamenti di diversi piani logici e di contenuti porta per mano lo spettatore dentro un primo livello di lettura che ha il sapore del rumore di fondo: le chiacchiere da bar come il dialogo un pò annoiato di una coppia nel tinello di casa a commento distratto di notizie magari televisive sul tema: cosa conosciamo noi a Roma dell’Africa? La risposta è la stele di Axum. La coppia, che si presenta in una scena vuota per tutto lo spettcolo si rimpalla frasi condite con citazioni più o meno colte ( del resto è una coppia radical chic-così autodefinitasi fin dall’incipit). Le citazioni sono prevalentemente frutto di buone e vaste letture, si va da Camilleri a D’Annunzio a Flaiano a Montanelli by passando per Bob Geldolf a Bob Marley all’Aida alla Mia Africa della Blixen. Insomma non uno Zibaldone leopardiano ma una Zibaldino in salsa africana , almeno quella masticata dalle nostre parti sulle culture del continente misterioso da cui ci divide soltanto il Mare nostrum. Acqua di colonia 2 - Frosini Timpano Da questo plot narrativo di fondo si sdipana un secondo livello ben congegnato consegnato al monologo centrale di Timpano in cui si entra nel cuore dello Zibaldino: il tema è quello del colonialismo ad opera del governo di Mussolini. Si parte dalla dichiarazione del 1938 del Manifesto a difesa della razza per passare alla narrazione dell’occupazione delle nazioni africane: Somalia, Etiopia, Libia, Eritrea. Elvira Frosini e Daniele Timpano provano a tirarci un bello schiaffo, seminando dubbi sulle nostre belle coscienze di italiani, ricordandoci, fatti alla mano, dati storici oggettivi, che l’Italia è stata un paese colonialista e che le conseguenze anche del nostrio intervento militare di occupazione di quelle nazioni è tuttora vivo nelle storie delle donne e degli uomini che hanno subito la sopraffazione dei nostri connazionali nelle loro terre privandoli della libertà, dei loro costumi, della loro dignità personale e antropologica. Ma poi tutto torna fosco nel monologo finale di Frosini: tutto è giallo in Africa, tutto è caldo, il sole ( il sole dell’avvenire-ma anche Faccetta nera). Daniele Timpano Elvira Frosini foto Lucia Baldini Daniele Timpano Elvira Frosini foto Lucia Baldini Tutto pare inevitabilmente sommerso nell’oblio rassicurante della memoria e della responsabilità storica, dell’Italia come delle potenze europee. Non possiamo che lavarcene le mani- ecco il senso di Acqua di colonia: il post colonialismo non esiste. Ma in scena cè una presenza muta a ricordarcelo, una donna nera seduta su una sedia. Una donna nera testimone senza voce ma consapevole e letteralmente sulla propria pelle di tragedie .Di questa donna, che ha un nome e un cognome, all’inizio dello spettacolo, con un biglietto veniamo informati che lei, dello spettacolo non sa niente. E così ci viene dato il benservito con cui tornare alle nostre case e riflettere sul tema così attuale della retorica degli Italiani brava gente. Renzia D’Inca’ Foto di Laura Toro Foto di Laura Toro “Italiani, brava gente”? Affermazione troppo spesso abusata che se applicata a determinati periodi storici del passato stride per la sua inadeguatezza. Lo storico Angelo Del Boca lo afferma nel suo saggio dal titolo omonimo dove ripercorre, tra le altre vicende, anche una pagina di Storia tra le più drammatiche quanto rimosse: l’occupazione colonialista in Etiopia con le deportazioni della popolazione durante il regime fascista di Mussolini. Una guerra in cui verranno usate anche armi chimiche. La rimozione di questi tragici eventi ha impedito per molto tempo di conoscere la verità e di alimentare la falsa credenza che gli italiani fossero “brava gente”, quando, invece, comportamenti di disprezzo e di superiorità siano alla base del razzismo alimentato dall’ignoranza. C’è anche questo nello “Zibaldino africano” portato in scena da Daniele Timpano ed Elvira Frosini, versione ancora in fase di studio che fa parte di “Acqua di Colonia”, il cui debutto nella sua versione definitiva è prevista a Romaeuropa nel prossimo autunno. Italia colonialista protagonista di crimini efferati rivisitata alla luce di quanto accade oggi nel suo rovesciamento delle parti. Ora ad essere “invasi” siamo noi italiani, con il flusso migratorio inarrestabile e tragico con i continui sbarchi e naufragi. In forma di dialogo tra i due (con una presenza in scena di una donna di colore che non proferisce parola), la narrazione diventa denuncia sociale, rievocazione di un passato e di un presente su cui vale la pena riflettere. Un collage in via di definizione dove la verità scomoda fa il paio con un presente poco edificante, costellato di citazioni che sembrano dette da militanti della Lega, e con evidente stupore, scopriamo provenire da filosofi ritenuti al di sopra di ogni sospetto.image “I Negri d’Africa non hanno ricevuto dalla natura nessun sentimento che si elevi al di sopra della stupidità”. A dirlo è Emmanuel Kant, o per restare a casa nostra il pensiero di Benedetto Croce:“Si ostinano a non entrare nella storia. Sono Uomini della natura, che zoologicamente e non storicamente sono uomini. Si cerca di addomesticarli e addestrarli, ci si sforza di svegliarli ad uomini, è ciò che si chiama l’incivilimento dei barbari e l’umanamento dei selvaggi.”, tratto Dai Quaderni de “La Critica” n.1 del 1945. Daniele Timpano ed Elvira Frosini giocano sul registro ironico facendo credere l’uno all’altro che tali aberrazioni mentali siano state dette da parenti o sentite al bar ma alla domanda “questa l’ha detta tua cugina?”, salta fuori invece il nome di Rousseau o Hegel che sostiene che “Ai negri non viene neppure in mente di aspettarsi per sé quel rispetto che noi possiamo esigere dal prossimo”. L’intenzione è quella di parificare il credo popolare e becero a quello di insospettabili intellettuali accomunati da un pregiudizio verso l’essere umano che ha un’unica colpa: quella di avere un colore della pelle diversa da noi. Non manca il ritmo a questo Zimbaldino che una volta strutturato potrà godere di una sua efficace messa in scena. Potere della parola che richiede allo spettatore di immaginare cosa è realmente accaduto ad un popolo vessato da un invasore senza pietà. Quello che accade oggi non necessità invece di nessun sforzo mentale. Basta non chiudere gli occhi e voltarsi dall’altra parte. Roberto Rinaldi Zibaldino africano (Acqua di Colonia) Testo, regia, interpretazione Daniele Timpano e Elvira Frosini produzione Romaeuropa Festival, Teatro della Tosse, Accademia degli Artefatti Visto al Teatro dell’Ordigno di Vada Livorno il 3 luglio 2016

lunedì 11 luglio 2016


Dialoghi con gli dei by renzia.dinca Castiglioncello (LI) Continua l’indagine compiuta da svariati anni del gruppo pisano I Sacchi di Sabbia intorno al topos del comico in tutte le sue sfaccettature con esiti brillanti riconosciuti unanimamente da pubblico e critica che ha loro riconosciuto il Premio speciale UBU 2008, il Premio Nazionale della Critica nel 2011 e quest’anno Premio Lo Straniero 2016 ricevuto proprio dentro il Festival Inequilibrio giunto alla sua XIX edizione. Il nuovo lavoro I dialoghi degli dei di Luciano di Samosata non tradisce le attese pur ricalcando la tessitura letteraria dello scrittore satirico scelto in dialettica fra il gruppo ed il regista Massimiliano Civica non certo nuovo alla rivisitazione del mito che lo scorso anno ha creato un capolavoro come Alcesti nello spazio delle Murate. Il connubio Civica- Sacchi di Sabbia, per la prima volta diretti dal regista, ha mescolato competenze attoriali e percorsi anche distanti sul piano della rispettiva ricerca artistica per dar vita ad un lavoro tutto in levare dove leggerezza ed ironia si intrecciano a intarsio meta letterario ben riconoscibile nella cifra stilistica dei Sacchi che attinge dalla testualità pungente e sempre attuale di Luciano. In essa si innestano spunti di attualità come l’invenzione dell’interrogazione scolastica sulla cosmogonia ad intreccio materia portante dei Dialoghi da parte di una professoressa quantomeno antipatica per i due allievi il secchione e lo sfigato, la comparsa in classe di Zeus ed Era, i dialoghi fra i due in quanto coppia regale dell’Olimpo le libere associazioni sul metodo Stanislavskij l’inversione di ruoli fra le due coppie, quella degli attori che sono finti studenti di una improbabile quanto esilarante recita in compresenza che si svolge dentro un aula di ginnasio di liceo classico. Freschi di questa nuova avventura teatrale e della vittoria di un premio importante come Lo S traniero fondato da una personalità di gran spessore culturale come Goffredo Fofi con questa motivazione (…) un gruppo teatrale che ha saputo unire al minimalismo organizzativo quello di realizzazioni, semplici, ma di una irresistibile vitalità, spiritose e spesso esilaranti, prime fra tutte un Sandokan e un Don Giovanni (…) un teatro artigianale che sa costruire con il suo pubblico un legame immediatamente e cordialmente affettivo, li abbiamo intervistati per RUMORSCENA nella persona di Giovanni Guerrieri Rumorscena. Colpisce la collaborazione artistica che avete avuto con Massimiliano Civica. Che cosa vi ha portato a lavorare insieme? Guerrieri. Ci ha unito la cifra del minimalismo della messa in scena e l’interesse per la letteratura di genere. Da molto tempo volevamo lavorare insieme, consapevoli che il nostro modo di creare fosse compatibile. Poi è nata questa idea che ha portato alla collaborazione anche con Tiezzi e Lombardi per il progetto speciale qui al Festival di Castiglioncello ( dove siamo stati invitati più volte già fin dal 2001 con Orfeo). La proposta di messa in scena dei Dialoghi è entrata nella linea di studio sulla mitologia così importante anche per Civica. Sono molto contento della collaborazione : è stata un’ottima modalità di lavoro, le nostre cifre sono entrambe leggibili. Rumorscena Un nuovo importante riconoscimento per i Sacchi quello del Premio Lo Straniero ideato da quel guru di intellettuale che è Goffredo Fofi Guerrieri Sono molto emozionato per questo premio. Fofi ci ha seguito e sostenuto fin dai tempi della pubblicazione di Tragos nel 1999 ( Titivullus). Goffredo ci ha stimolati nelle letture più disparate,dal fumetto ai gruppi del teatro sociale. Consideriamo questo premio, dopo l’ UBU del 2009 in cui venne riconosciuta la nostra attività di 13 anni sulla scena, ancora un passo in avanti di conferma nella nostra attività di ricerca. Rumorscena. Dunque è stato un lungo viaggio quello dei Sacchi. Ma quali sono stati vostri percorsi individuali e in quali maestri e mentori vi riconoscete? Guerrieri.Siamo un piccolo gruppo che proviene da formazioni diverse, Giulia Solano da architettura,Enzo Illiano da studi scientifici, Gabriele Carli dal teatro dello spirito. Ci siamo ritrovati a Pisa nello spazio del Teatro di Sant’Andrea dove abbiamo capito che il nostro campo d’elezione era il comico. E qui ci ha indirizzati l'amico e collega Paolo Giommarelli . In quella fase ero io a scrivere dei canovacci, lavoravamo molto sull’improvvisazione. Nel frattempo mi sono laureato con una tesi su Totò, seguito da un vero maestro come Fernando Mastropasqua. Anche Concetta D’Angeli dell’Università di Pisa ci ha incoraggiati e consigliati. Abbiamo trovato un genere con Sandokan nel 2007 ma non ci siamo mai voluti chiudere in esperienze di ripetizioni di schemi per non essere ingabbiati: per esempio con Civica non ci siamo preoccupati di essere identificati come gruppo. Con lo spettacolo I moschettieri abbiamo ripreso la parodia. Un critico e studioso che ci ha sostenuti proprio sull’affrontare il genere della radio è stato Rodolfo Sacchettini. I Sacchi di Sabbia con Massimiliano Civica Progetto speciale per i vent’anni di Armunia Con Gabriele Carli,Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri, Enzo Illiano e Giulia Solano Produzione Compagnia Lombardi/Tiezzi Prima nazionale Visto a Castiglioncello-Festival Inequilibrio al Castello Pasquini, 1 luglio 2016