sabato 24 maggio 2014

di Anna Meacci

Ripercorrere tutte le fasi del lavoro su Romanina non è facile perché è una storia lunga 18 anni, più o meno.

Tutto ebbe inizio a Roma.
Nel giugno/luglio del 1996 venni invitata da Vladimir Luxuria a partecipare a dieci serate Mucca Assassina alla stazione ostiense.
Le serate vedevano alternarsi sul palco un paio di comici, numeri di en travesti, Vladimir e poi discoteca.
Situazione non facilissima per chi come me è si una comica ma non una cabarettista.
Lo spettacolo vero, per me, era nei camerini, prima di andare in scena.
Io non avevo bisogno di molto tempo per prepararmi, ma arrivavo sempre molto presto, per godermi la preparazione delle drag Queen, la cui "metamorfosi" metteva in crisi ogni giorno di più la mia femminilità!
Durante le dieci serate passai da semplice osservatrice a divertita  protagonista di quello strano gioco di ruoli tanto da sentirmi una di loro. (Vladimir da allora mi chiama "la vera trans".)
Uno degli ultimi giorni, Vladimir  mi fece conoscere Mery, di Mery per sempre, e con lei conobbi per la prima volta la storia di una transessuale.
La vita vera prese il posto del gioco.
Ne rimasi profondamente colpita.
Tornata a Firenze raccontai i miei dieci giorni romani a Luca Scarlini con il quale stavamo facendo uno studio (poi mai realizzato) sul Bon Ton. Gli parlai di Mary, e del mio desiderio di raccontare la sua storia. Senza batter ciglio mi consegnò un libro "Io la Romanina perché sono diventata donna" dicendomi : "Se vuoi raccontare la storia di una transessuale, non puoi non leggere questo libro" Lo lessi in due giorni, poi telefonai a Luca e gli dissi " Voglio fare la Romanina!".
E da quel giorno non ho fatto altro che raccontare a tutti questo mio desiderio. Gli amici piano piano hanno sposato questo progetto e si sono incuriositi ed appassionati con me. Chi invece non riuscivo ad appassionare e convincere, era la mia agenzia di allora. Non ci credevano. Non credevano nella storia, nell'importanza di doverla raccontare e nella mia capacità di interpretare un personaggio così "complesso"!
Fatemi recitare Ofelia e vedete che bel risultato ottengo!

In quel tempo due persone sono entrate a far parte della mia vita: Luigi e Pier Paolo. Loro hanno avuto un ruolo importante nella nascita del personaggio teatrale della Romanina.
Luigi oggi vive a N.Y. e si chiama Virna e purtroppo ci sentiamo raramente.
Pier Paolo vive ancora a Firenze e ci sentiamo tutti i giorni.
Grazie a loro ho conosciuto e frequentato per un po' di tempo Tina. Transessuale operata e sposata.

Quanto più conoscevo a fondo il mondo della transessualità, tanto più aumentava il mio desiderio di scrivere lo spettacolo su Romina.

Nel frattempo il mio rapporto lavorativo con l' agenzia di cui sopra si era chiuso. Avevo scritto altri spettacoli. Fatto i Monologhi della vagina con Katia Beni e Dodi Conti e Uno Due Tre Chiacchiere sempre con Katia e Dodi, senza mai perdere la speranza che prima o poi qualcuno avrebbe rischiato sul mio progetto.
Rischiato.
Mi sentivo rispondere sempre così.
"E' un progetto troppo rischioso!"
Sono anche arrivata a dubitare delle mie capacità di autrice e di attrice.
Ho insistito per nove lunghi anni fino a quando non ne ho parlato con Massimo Paganelli e Fabio Masi di Armunia Festival costa degli Etruschi di Castiglioncello.
Conoscevo Massimo e Fabio da qualche anno grazie a Francesco Niccolini, (con il quale ho scritto tre dei miei monologhi), e una sera d'estate, dopo uno dei tanti spettacoli del Festival, davanti ad un bicchiere di vino, raccontando la storia di Romina e il mio desiderio di mettere in scena la sua vita, raccontandola in prima persona Massimo mi ha sorriso e mi ha detto:" Per me è un progetto impossibile ma proprio perché impossibile lo produco!"
Pausa teatrale.
Poi ho guardato Fabio e gli ho chiesto:
" Ma dice sul serio? "
" Se l'ha detto! "
L'aveva detto.
Da quel momento tutto si è svolto velocemente.
Massimo ha proposto la regia dello spettacolo a giovanni Guerrieri dei Sacchi di Sabbia, il teatro della Limonaia di Sesto, nelle persone di Barbara Nativi ( mia insegnante di teatro) e Dimitri Milopulos suo compagno nella vita e nel lavoro, misero a disposizione  il loro teatro per le prove e per il debutto, Luca Scarlini accettò la collaborazione nella stesura del testo e Romina Cecconi mi concesse i diritti della sua storia.
L'unico problema era che dopo sette anni di attesa, adesso scrittura, prove e debutto dovevano avvenire nel giro di pochissimi mesi incastrando altri lavori e tournée massacranti.
E poi chi lo avrebbe distribuito?
Con un "pacchetto completo" la mia vecchia agenzia accettò di distribuire lo spettacolo.
I tempi erano stretti quindi decidemmo di dividere il lavoro in due fasi: un primo studio prima dell'estate, e il debutto all'apertura della stagione teatrale della Limonaia.
Durante la prima fase del lavoro Luca Scarlini, Giovanni Guerrieri ed io ci ritiravamo in "eremitaggio" al Castello Pasquini di Castiglioncello e parlavamo parlavamo parlavamo. Ogni giorno Giovanni proponeva di far slittare il debutto ed io rispondevo che forse avremmo dovuto teorizzare meno e iniziare a mettere sul palco le rispettive idee. Dopo sette anni non avevo nessuna intenzione di far slittare il debutto.
Dopo un paio di mesi di chiacchiere, scontri e prime stesure del copione, partii per la tournée del Borghese e gentiluomo, con Panariello e la regia di ......
Scrivevo giorno e notte. Unica pausa lo spettacolo la sera con Giorgio.
In quel periodo accettai anche un paio di lavori "discutibili" ma che mi permisero di pagare costumi e tecnici.
L'ultima replica del Borghese era a Genova. Domenica pomeriggio. Finita la replica partii subito per Firenze durante una terribile bufera di neve. Arrivai a casa a notte fonda distrutta ma con il copione dello spettacolo terminato.
La mattina dopo subito in teatro per gli ultimi tre giorni di prove e poi debutto dello studio.
Arrivai alla presentazione dello studio con il fiato corto e ancora troppo Anna e poco Romina, ma con un testo forte e una messa in scena convincente.
Lo spettacolo si poteva fare!
Bisognava "solo" lavorare sulla mia "transessualità"!
Virna e Pier Paolo da questo momento fino al debutto diventarono i miei personal training.
Nel giugno del 2005 Barbara Nativi mia maestra di teatro prima e amica carissima poi, ci lasciò dopo una lunga malattia.
Barbara aveva scommesso molto su questo spettacolo. Già malata aveva visto lo studio e si era innamorata anche lei della storia di Romina. Senza dubbio alcuno aveva confermato il debutto a novembre nel suo piccolo grande teatro a Sesto: novembre 2005.
Per la prima volta dopo tanti anni avrei debuttato senza di lei.

A Pier Paolo venne l'idea di allestire una mostra sulla vita di Romina Cecconi.
Non avevamo economie per affrontare l'allestimento. L'idea piacque a Dimitri Milopulos e decise di accollarsi come Teatro della Limonaia, tutte le spese per la realizzazione della mostra. E' stato un grande regalo.
Pier Paolo ha raccolto tutto il materiale fotografiuco, i documenti e gli articoli di giornale che parlavano del più " famoso travestito di Firenze".
Tra una foto e l'altra a confezionato abito e pelliccia e assieme a Virna ha studiato il giusto look per il mio personaggio.
Abito attillato luccicante che metteva in mostra il mio corpo. Corpo che fin da adolescente ho sempre nascosto sotto ampi maglioni. Ora il mio corpo avrebbe dovuto "raccontare" assieme al testo. Credevo sarebbe stata la sfida più grande, ed invece si è dimostrato il gioco più divertente.

La conferenza stampa venne fatta al teatro del Sale di Fabio Picchi e Maria Cassi.
Non ricordo quasi nulla della sera del debutto, ma non dimenticherò mai quella mattinata. L'arrivo di Romina  elegantissima e con un fascio di rose rosse in braccio, regalategli dal mio ufficio stampa Tommaso Rosa, tutte le testate giornalistiche toscane e non solo. Quelle testante che tanto l'avevano perseguitata e giudicata.
Non ricordo più quanti fotografi.
Romina era tornata a Firenze da diva. 
Tornata perché ormai cittadina Bolognese dal 1984 (?) dopo la bruttissima esperienza di una aggressione avvenuta nella sua casa.

Durante le tre settimane di repliche, ho visto di fronte a me persone di ogni età e stato sociale. Gay, lesbiche, transessuali, eterosessuali, un'umanità eterogenea che rideva e si commuoveva assieme a Romina e a me.

Dopo quelle tre settimane è iniziata la tournée che mi ha vista in giro per l'Italia. Non c'è stato paese o città che non abbia accolto favorevolmente questo spettacolo. Il pubblico lo ha amato e ha amato la Romanina. 
Il pubblico ma molto spesso non le istituzioni o addirittura i teatri che il giorno prima che arrivassi in teatro mi chiedevano di cambiare spettacolo perché c'erano troppe pressioni politiche. Ci sono state anche una serie di interpellanze comunali dopo il mio spettacolo perché " non si può pagare uno spettacolo che tratta argomenti discutibili con i soldi pubblici".
Quello che più mi è dispiaciuto è stata la quasi totale mancanza di sostegno da parte di associazioni di genere. Non tutte certo, ma molte si.
( A parte azione Gay e Lesbica di Firenze )
Addirittura il MIT di Bologna, prima del debutto, non vedeva di buon occhio questo mio progetto. Non trovavano giusto che una donna raccontasse la storia di una transessuale. Avevano paura che potessi mancare di rispetto al vissuto di Romina. Avevano paura che potessi essere giudicante. Dopo il debutto i dubbi sono spariti ed anzi hanno amato anche loro questo spettacolo.

Ci sono festival e teatri che fanno programmazioni sulle tematiche di genere ma sono stata ospitata solo dal Gay Pride di Torino.

Ad un certo punto ho deciso che era arrivato il momento di scrivere altre storie e di mettere in un cassetto questo sogno che ero riuscita a realizzare ma che troppi intoppi aveva incontrato. Ma ogni volta che mi chiedono di tornare in teatro con la Romanina anche se per una sola replica io accetto.
Questo spettacolo è stato amato da molte persone. Dagli organizzatori a tutto il pubblico che lo ha potuto vedere, dagli amici ai tecnici, dagli addetti ai lavori ai miei colleghi.
Tutti coloro che ho nominato lo hanno amato e sostenuto ed è grazie ad ognuno di loro se sono riuscita a realizzarlo.


giovedì 22 maggio 2014

Roberto Castello- Studio Uno
work in progress
Pistoia
Posted  by Renzia D’Incà

In un luogo che è lo spazio del  Centro Culturale Il Funaro a Pistoia, spazio  d’arte di area metropolitana nato di recente, si  sta realizzando, con la pazienza che richiede semplicemente tempo, un’utopia teatrale di gran respiro con in programma una prima a giugno di quel genio di Vargas.
Intanto stasera ha ospitato il primo studio di un lavoro in corso di definizione che debutterà a fine anno con progettazione, regia e coreografia di Roberto Castello. Un percorso iniziato con i “Quattro Studi”, presentati per la prima volta a fine 2013 in contesti di pubblico selezionato.
E’ nato un cucciolo” ha detto il coreografo presentando questa primizia, ma data la tessitura del progetto, la traccia  di percorso anche se solo a grandi linee a cui abbiamo assistito, lascia presagire una crescita forte e preziosa, insomma un esito più che felice di alcuni nuclei appena abbozzati di notevole impatto di novità artistica che da una personalità artistica quale quella di Roberto Castello tutti ci attendiamo.
Il lavoro  presenta in scena  quattro danzatori, due donne e due uomini in abiti neri inattuali, atmosfere cupe d’altri tempi  e d’altri luoghi, non certo mediterranei, insomma suggestioni di spazi in rarefazione come in certi film in bianco e nero di Dreyer o Bergman. Il lavoro sulle luci abbastanza impostato, già scandisce definendolo un quadro di piste interpretative del disegno coreografico: un videoproiettore sparato sulla quinta un po’ giallo seppia seriale ossessivo su iconografia astratta inintelleggibile scandisce i tempi delle micro-narrazioni. E poi la scelta musicale a sua volta in loop per ben quaranta minuti a scandire i tempi di microdrammaturgie disegnate sulle azioni collettive dei quattro, ora single ora in coppia, francamente poco coppie ma molto molto individui esasperati, in un crescendo drammatico di disperazione-si corre come su tapis roulant solo per rimanere nel medesimo luogo come il povero criceto sulla sua ruota, nella gabbietta, in corsa verso cosa, verso dove? Prima da soli, gruppo indistinto in corsa  sempre più affannata, a volte più o meno casualmente accoppiati per poi spaiarsi-il cinetismo ossessivo ricorda il film Tempi Moderni di Chaplin, forse o il Fritz Lang di Metropolis, che  potrebbero essere tracce di visionarietà in qualche modo contaminazioni di questa prima ondata di ricerca artistica.
A tratti, ma solo a tratti, questa ripetizione meccanica che è dei singoli uno accanto all’altro come formiche, come cloni, come esasperate inconsapevoli vite senza sviluppo nè memoria, esplodono in poche sequenze di gioia. Pur sempre incasellata nel tema  del tragico, a sfiorare non tanto il comico-che qui non traspare almeno per ora, ma del grottesco.
Progetto, regia e coreografia di Roberto Castello
Interpreti: Mariano Nieddu, Stefano Questorio, Giselda Ranieri, Irene Russolillo
Elaborazioni musicali di Roberto Castello
Produzione ALDES con il sostegno di MIBACT e Regione Toscana
Visto a Pistoia–Il Funaro venerdì 16 maggio


lunedì 19 maggio 2014

sporto denuncia per stalking

protetta dalle donne di Casa delle donne e   Teatro di Cascina e dalla mia Lista civica

giovedì 15 maggio 2014

Bulle & impossibili-cronaca di un miracolo supplementare
Posted by Renzia D’Incà
Cascina ( Pisa)

 La prima cosa che mi viene in mente,  una volta visto l’esilarante Bulle ( remake o meglio: rivisitazione quasi pedissequa se non per pochi dettagli dell’edizione del 1995) e dopo l’aver avuto a disposizione il testo, nelle due versioni, la storica  e l’attuale, a firma della drammaturga   e sceneggiatrice Donatella Diamanti anche attuale Direttrice della Città del Teatro di Cascina, è: capperi di una attualità s/travolgente!
Sì, perché se un testo non solo resiste ma se appena rimaneggiato (diversa per forza d’anagrafe  l’età delle  protagoniste, un Iphone che si aggira per la scena, oggetto-feticcio dell’immaginario che è solo dell’oggi)funziona a pieno ritmo  nel suo motore di comicità intrinseca di allora,  forse è il caso di  incominciare  o ricominciare ad interrogarsi sul senso  e valore di una intuizione di ricerca ovvero di alcune questioni essenziali peculiari a questa drammaturgia femminile e “al femminile”  che è di  Donatella e delle sue collaboratrici , in primis Letizia Pardi regista di Bulle  e attrice in scena nonché delle  stesse Galline. Ma c’è forse  di più: occorre interrogarsi anche sul senso di un percorso coerente  decennale di un gruppo storico di persone che al Teatro cascinese, nelle sue diverse evoluzioni istituzionali e fasi creative tanto hanno dato e stanno dando, arricchendo sia sul territorio locale che regionale e nazionale la promozione  e diffusione della cultura così come la cura dell’educazione delle nuove generazioni e l’impegno verso le scuole del territorio locale e nazionale, un progetto artistico davvero importante in Regione Toscana.
Bulle & Impossibili, racconta di una “ associazione per delinquere” ( non a caso la & commerciale) fra tre cinquantenni strampalate un po’ fuori di zucca. Ciascuna delle tre si presenta con un carattere  femminile un po’ da commedia dell’arte o fumettistica dilatando  esasperandole senza mai arrivare al grottesco,nella sapiente gestione del comico  che è di Donatella, dei tratti che sono comunque presenti nelle donne più o meno giovani odierne: la vamp oca giuliva (Sonia Grassi), l’ingenuotta goffa in regressione da psicoterie new age (Katia Beni), la dura dark esecutiva che va al sodo ( Erina Lo Presti).  Insomma un terzetto ben poco raccomandabile che sarebbe meglio non frequentare, almeno  da parte  di noi brave ragazze borghesi. L’interno ( la scena è firmata da Lucio Diana)  si presenta di uno squallore che non è  tanto della povertà ma dell’assoluta mancanza di gusto, della sciatteria, colori scialbi, trascuratezza, essenze puzzolenti comprate come gadget con  riviste di terz’ordine, accompagnamenti di musichine da istituto estetico da periferie come tante anonime e tristi, in terra  biancheria non lavata e resti di cibo spazzatura,  insomma anni luce lontana dallo scintillio che si vorrebbe acquisizione dello stereotipo  della casa-tipo  pubblicitaria che potrebbe appartenere sia alla brava massaia   rurale che alla manager più chic. In realtà dietro questo evento che le tre ex ragazze vivono  alla vigilia di una rapina in banca che dovrebbe cambiar loro una vita difficilmente  ristrutturabile e non solo per limiti di età, c’è il dramma della disoccupazione (Eva- Sonia vorrebbe ancora essere ingaggiata come attrice inventandosi carte false anagrafiche), della solitudine: Betty-Catia rivivere una storia d’amore molto lontana nel tempo da cui tenta d’uscire  senza successo con improbabili percorsi d’auto aiuto, e infine la dura e pura  Erina-Linda, la  sua voglia di rivincita: bulle e impossibili orizzontale foto di scena_tagliata.jpg forse, quella più organizzata che conduce le altre, ma anche la meno sfaccettata delle tre e forse la più misteriosa, una lady dark forse  un po’ lady Macbeth ma senza un lui.
I dialoghi fra le tre ragazzacce sono esplosivi e scoppiettanti, i particolari curati da  Letizia  Pardi- molto intelligenti come la trovata della pistola-cellulare che  diventa bomba- ma non eravano nel 74? . L’epifania che coincide con la chiusura della pièce, prevede l’ingresso nientedimeno che della  Madonna su accompagnamento di profumi di rose ( Letizia Pardi- in forma di icona da immaginetta con manto azzurro e movenze icastiche) – una specie di dea ex machina come nelle migliori soluzioni delle commedie classiche.  Il miracolo dell’incontro con questa super Donna, madre di tutte le madri e di tutte le donne salverà le tre donnacce dal loro delirio e fallimento esistenziale? La soluzione  rimarrà aperta. In questo caso è apparsa la  Madonna o sono le tre disgraziate ad apparire a Lei? e poi: in Paradiso esistono le banche? le faremo saltare in aria?
Un pubblico di diverse età ha applaudito numerosissimo e molto divertito a conclusione di un’intera giornata dedicata dalla Città del Teatro alle donne e alla loro rappresentazione nella cronaca e nella finzione intitolata Senza sfumature. Un impegno sulla solidarietà femminile ma anche oltre il genere che è segno forte e peculiare di questi due anni di direzione artistica di Donatella Diamanti
Fondazione Sipario Toscana onlus
di Donatella  Diamanti
Regia Letizia Pardi con Katia Beni Sonia Grassi  Erina  Lo Presti ( in arte Le Galline)
e Letizia Pardi
Scene di Lucio Diana
Visto alla Città del Teatro, Cascin

venerdì 9 maggio 2014


Posted  Renzia D’Incà

Foto di Paolo Foti
Dario Marconcini non è nuovo a  scovare testi inediti e mai rappresentati di grandi autori contemporanei  internazionali e a cimentarsi con micropièces in controtendenza,  magari di non facile appetibilità per un pubblico teatrale avvezzo a ben altro. Ma questo del resto è il coraggio che l’ha contraddistinto nella sua lunga permanenza  alla direzione artistica del Teatro di Buti. Così la prima a cui abbiamo assistito si è rivelata al solito, come un omaggio al Nobel  Harold Pinter- autore molto amato dal regista e attore e da Giovanna Daddi, e una prova magistrale da parte dei tre monologanti in scena, Ellen ( Giovanna Daddi in tailleur grigio) , Rumsey , Emanuele Carucci Viterbi in tenuta da cavallerizzo e Bates,  lo stesso in versione  country Dario Marconcini. Testo inedito ( del 1969), quindi, questo Silence e  quasi mai rappresentato  nella bella traduzione di Alessandra Serra, definito dallo stesso autore complesso a causa della” sua struttura piuttosto difficile” tanto da richiedergli diverse stesure, è di una modernità sconvolgente. Tre personaggi in scena con storie intrecciate, tre solitudini assolute che dell’incomunicabilità cifrano leproprie monologanti aporie, aggrappati ai loro sgabelli uno di fianco all’altro, vicini ma ineffabilmente separati, sullo sfondo della campagna inglese , tre singole finestre , tre ferite-feritoie, forse bovindo su un paesaggio astratto di rami di bosco d’inverno. La scena ( e le luci)ideate da Riccardo Gargiulo e  Valeria Foti,  rimarcano la liquidità dello sfondo  a misurare e dilatare il senso della rarefazione degli spazi, dei gesti e del parlato- quel gradiente che è  specchio esistenziale del“ guardar fuori- guardarsi dentro”.

E’ il testo  qui a fare da padrone, e come potrebbe non esserlo, in questa mezzora di spettacolo. Poesia allo stato puro ma adattata ad un trattamento da micropièce come ci ha abituati quel geniaccio arrabbiato di Pinter. Al centro del discorso di tutti e tre i personaggi vi è la memoria, una memoria pesante, franta, scheggiata di vissuti che in una maniera o in un’altra hanno interagito in una vita passata e che provano a raccontarsi nel presente, un presente disattuale tutto impastato di reminescenze apodittiche, attraverso microflashback, ripetizioni di luoghi, azioni, forme, parole irrisuonanti, il tutto dentro una narrazione in forma circolare ossessiva-che a me ha ricordato anche un certo modo di scrivere per la scena  del  grande Thomas Bernhard in certe sue drammaturgie (specie  in Ritter Dene  Voss).

La circolarità della scrittura è  dotazione sicura di questo inglese  che non cessa di stupire  a distanza di decenni per la modernità del suo tratto che incide come un maglio e fa della  parola una costruzione  classica a scandagliare nei meandri della psiche, i misteri della circonvoluzione del discorso che non dice non parla ( per dirla alla Lacan)   gira a vuoto fino a raggiungere per sottrazione e per necessario punto d’arrivo, stazione fine corsa al punto esatto  nel centro esatto  che solo può essere occupato dallo spartito della parola “silenzio”.
Del resto Pinter la questione del “ silenzio” l’ha trattata spesso nei suoi lavori, per esempio in Ache( testo del 1959). Stessa ambientazione  antiteatrale: una stanza (topos letterario pinteriano), tre personaggi  una donna e due uomini. Il terzo incomodo sposta fuori il e dal discorso. In questo Silence sembra essere la donna la vera protagonista  della insana misteriosa relazione a tre.  Si intravede una incestuosità ( nella piece originale la ragazza è parecchio più giovane dei due)?  Forse una trasfigurazine  di una relazione antica col padre ( sulle ginocchia un bacio sulla guancia destra uno sulla sinistra).Una relazione sessuale  che appartiene al passato dei tre? Spezzoni di storie si susseguono a rimbalzo: lei ( loro)  raccontano a  ruota di passeggiate, di paesaggi londinesi con latrati di cani, di latte ( ecco, qui ho trovato  il riferimento a Dylan Thomas col suo Sotto il bosco di latte, ma c’è anche il moniologo della  Molly Bloom di Joyce). Il flusso di coscienza passa ai due uomini, coi loro vissuti, le loro reminescenze. Lei è la bambina, motore che accende desiderio, impone ascolto. Che non si dà se non per schegge, ricordi, assiomi, percezioni della natura di suoni, animali – i cani, appunto, sensorialità specie visiva- ma anche  la discarica, il fetore, la sporcizia  fuori e dentro. Le frasi, ossessivamente, si ripetono nella scansione ideata da Pinter fino ad assottigliarsi come echi  per approdare alla smemorizzazione, quasi da malattia, quasi ripetizione ossessiva di chi ha perso quei neuroni che sono potrebbero essere ancora, autocoscienza.

In una mezzora, insomma, una densità di storie inenarrabili, perché ciascuno la stessa storia se la racconta a modo suo, colla sua piccola memoria. Con ciò che vuole ricordare, veramente coi limiti della propria età che comunque incide parecchio, nel ricordare. E tutto il resto  oltre la verbosità oltre il troppo, richiede la lezione  della pulizia, quella  del  silenzio.


Visto a Buti , 5 Maggio 2014

martedì 6 maggio 2014