sabato 9 marzo 2019

DEFLORIAN/TAGLIARINI in QUASI NIENTE

renzia.dinca


PRATO. Da anni il Teatro italiano si era un po' lasciato alle spalle il confronto regista-attori rispetto a trame d’autore che si affacciassero sulla contemporaneità del mondo piccolo borghese. Questa mancanza di interesse potrebbe essere stata causata dal fatto che ad un certo punto della Storia individuale e collettiva recente la dimensione sempre connessa, superinformata della società globalizzata aveva saturato con la cronaca di fatti in sovraesposizione abituandoci al bombardamento mediatico alle prese con PIL e oscillazioni delle Borse al rialzo. Frastornati dal fare euforico, da promesse di magnifiche sorti e progressive, da qualche decennio a questa parte siamo stati avvezzi a subire qualsiasi narrazione o fake news fra bollettini dei mercati e Isole dei Famosi senza ricorrere ai dovuti filtri, senza possibilità del giusto distacco.  Nei tempi in cui la società del ben-essere a tutti i costi ha superato la china (e ne sono evidenti gli scricchiolii politico-sociali vedi gilet jaunes, dove un giovane filosofo come Diego Fusaro ce lo insegna in TV mattina, pomeridiana e in web, mentre Latouche, con la sua teoria sulla decrescita felice, è già un signore ottantenne), si comincia ad interrogarsi su: vivere è bello?, ecco che Quasi niente il nuovo lavoro di Deflorian/Tagliarini, mette le carte in tavola quasi a presentare il conto dell’ubriacatura di promessa felicità concessa a (quasi) tutti e lo fa  denunciando un malessere interpersonale da tinello per  effetto rebound  in una cornice di plot minimalista dal sapore no radical no chic. Il lavoro è una sorta di autodenuncia-specchio intergenerazionale. E’questo, in sintesi Quasi niente di Deflorian e Tagliarini. Tre generazioni di donne e due di uomini dai sessanta ai trenta, persone con storie autonarrate, le loro, normali, che non hanno mai avuto a che vedere con la Guerra finita nel 45 del Secolo scorso e nemmeno hanno patito scontri identitari (femminismo) o edipico-sociali come il coming out dell’essere gay, tantomeno la genitorialità o problemi amorosi di cui qui non vi è traccia. Le storie a mosaico dei cinque protagonisti (Daria Deflorian, Monica Piseddu, Francesca Cuttica, Benno Steinneger e Antonio Tagliarini), sono intervallate in un narrato hic et nunc da questi cinque personaggi in scena tutti super adulti con le loro autobiografie-schegge di vissuti e segnalano disagi e malesseri psicofisici. Sembra uno schiaffo all’incontrario di quell’épater le bourgeois di sessantottina memoria. Qui non appare niente di ideologico. L’esposizione è esibita con educazione quasi pudibonda da salotto borghese, svelato da sedute su una poltrona rossa per le donne (pochi gli arredi di scena, un comò, un armadio anonimo da Signorina Felicita di gozzaniana memoria). Una poltrona da flusso di coscienza che però non riporta indietro a Freud ma accenna rispetto la mise en abime della scena, all’occhio acutissimo di Francesco Orlando de Gli oggetti desueti nelle immagini della Letteratura. Parte una provocazione rispetto al pubblico voyeur. uno specchio- appunto, franto: noi e voi. perché noi siamo voi, voi sprofondati nelle vostre poltroncine di spettatori teatrali colti e borghesi. Una sfida dichiarata a cui nessuno peraltro, crede. almeno noi pubblico un pò anche bue. Sono cinque i personaggi in scena: tre donne di diverse generazioni in realtà la stessa Donna-una Monica Vitti (Giuliana) Monica Piseddu strepitosa, presa a prestito e pretesto dal film Deserto Rosso (1964) di Michelangelo Antonioni (il regista icona sessantottina dell’eterno tema secondo-Novecentesco della incomunicabilità fra i sessi) e due uomini. Le tre donne sono Giuliana, la quarantenne Monica Piseddu che supera sé stessa ad ogni nuova sua apparizione sulla scena, Daria Deflorian, la quasi sessantenne (sua alter ego) e la trentenne Francesca Cuttica, che canta con una voce sommessa molto molto calda ed incisiva. Sulla scena niente accade o quasi niente. Una fotografia dell’attuale status della piccola borghesia occidentale europea?
L’incipit afferra subito lo spettatore Giuliana-Monica Piseddu: che cosa devono guardare i miei occhi? Un racconto dove manca la trama. Mi fanno male i capelli. Frasi estrapolate dal film. Ma in scena niente di cinematografico. Piseddu si appalesa un po' dimessa, un po' signora nei segni di abito e scarpe col tacco giusto. In avanscena accende una radiolina anni Cinquanta da cui esce in loop una musica orecchiabile (in TV in questi ultimi mesi utilizzata a commento sonoro di una nota pubblicità di catena internazionale di intimo).
Ma qui, in questo Quasi niente, citando Mark Fisher prestato a sua volta come in Deserto Rosso il personaggio di Giuliana in uno dei monologhi di Deflorian, siamo ben oltre l’incomunicabilità dei sessi. Siamo oltre l’Uomo. forse in una zona senza speranza dejà vu quella dei tempi di Robert Walser. Quella dell’ultimo Nietzsche?

Cinque monologhi ad intreccio su microtrame sottili, cinque narrazioni di storie di vita dove non si trova il bandolo della matassa, il senso della propria storia ed esistenza. Non vi è nulla di tragico, non vi è cenno a sotto-testi di vizi o segreti inenarrabili. Aleggia tanta stanchezza e forse il dubbio che il Sistema o Pensiero Unico ci abbia rubato la passione, il desiderio di lacaniano intuito. quello che i Greci chiamavano Penia.


QUASI NIENTE Un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, liberamente ispirato al film Deserto rosso di Michelangelo Antonioni

collaborazione artistica Francesco Alberici

con Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Monica Piseddu, Benno