La parola padre- Cantiere Koreja
di Gabriele Vacis
Ola, Simona,
Irina, Anna Chiara, Alessandra, Maria Rosaria: sei donne, sei storie di giovani
donne in fuga. Dai padri, dalle rispettive patrie. Una drammaturgia che nasce
da drammi di guerre, di confusione e insieme tentativi di
incontri di linguaggi. In prima battuta narrati dentro un
laboratorio teatrale voluto da Koreja ed affidati ad uno dei più importanti
drammaturghi italiani di teatro di narrazione Gabriele Vacis, per dare corpo ed ascolto a vissuti di
contemporaneità femminile lacerata, disperata, che masochisticamente, o forse
no, non ancora, reitera i percorsi,
raccontandosi. Percorsi che si intrecciano incontrandosi per poi lasciarsi fra voli low cost in aeroporti dove le lingue si confondono e
insieme ci cercano, per provare a capirsi, fra donne, fra persone che reclamano la propria
identità, il diritto alla propria vita. Sono le tre donne dell’est europeo- che sbarcano a Brindisi, insieme alle altre tre italiane del sud.
Sullo sfondo
lo spettro del comunismo, da cui fuggono. Il comunismo dei padri, il comunismo o patriarcato delle patrie in liquidazione.
Una scena spoglia, ai due lati uno
stendino con abiti di diverse fogge che
continuamente indossano e ripongono nell’alternarsi delle azioni sceniche su
uno sfondo creato interamente e coreograficamente da bottiglioni di plastica, l’acqua gratis, quelli che si trovano in
luoghi senza patria- i non luoghi, aeroporti
ma anche palestre appunto, utilizzati in maniera geniale minimalista dall’inizio alla fine del lavoro.
A occhio all’inizio sembrano mammelle o quinta poi, via via assurgono a spazi usati come praticabili dove salire e cadere- la caduta delle frontiere, dei muri,
per trovare una dimensione onirico-spaziale femminile dove andare per poi
sprofondare, nella propria confusione di spazi|linguaggi. In scena le sei
giovani donne sono tradotte dalle loro lingue- non in automatico ma da una loro alter ego- in inglese ( una
ragazza seduta a tavolino col suo
modernissimo tablet). E si raccontano alternandosi al microfono posto al centro
della scena. Sono pezzi di vite, brevi data la loro età, ma dense di testimonianze
appassionate di violenze, desideri frustrati, voli, speranze che confluiscono nella
necessità di fuggire, dai propri padri e patrie per cercare fuori di dove e da
chi sono state generate il proprio
riscatto. Le valige- il trolley nella versione moderna della contemporaneità-
bagagli leggeri sono il simbolo di questa necessaria presa di distanze da ciò
che è stato e mai più sarà. Le donne senza padri, e soprattutto, senza patria,
non torneranno. Mai. Mai più. Anche se il filo della memoria le riconduce- e
non potrebbe non esser così al discorso dei padri, ai ricordi legati alle loro
infanzie e prime giovinezze. Qualcuna proverà a confondersi in istituti di bellezza- come le altre come le donne dei Paesi dove emigreranno, fra
fanghi e
unghie da ricostruire. E anche qui per operare la riproduzione di racconti, di
storie. Fra cambi di abiti tra
scintillio- le speranze? e provocazioni palesi: mettersi la carta igienica
dentro lo slip per trasformare il proprio sesso
nell’altro, quello paterno, appunto.
Uno spettacolo dinamico, sei attrici
di grande impatto scenico, una drammaturgia poetica ma dallo stile impetuoso e graffiante, una
scrittura di scena dura che restituisce le dinamiche attualissime di donne alla ricerca della propria
individuazione che può essere agita solo attraverso la fuga, attraverso la
negazione di una identità- quella del padre e delle patrie ( identica radice
semantica) disfatte del comunismo, ma
anche della società patriarcale ( le ragazze italiane) da cui è possibile
ripartire solo tracciando un niet
sulla lavagna della Storia. Per ripartire col coraggio delle donne.
Con Irina Andreeva,
Alessandra Crocco, Aleksandra Gronowska, Anna Chiara Ingrosso, Maria Rosaria
Ponzetta, Simona Spirovska
Drammaturgia e regia di
Gabriele Vacis. Produzione Koreya Scene di Roberto Tarasco. Progetto
Archeo
Visto a Pontedera- Teatro Era
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