Le sirene.
Forse più dei leoni e
delle aquile, più degli elefanti e dei serpenti, tutti animali che popolano la
nostra cultura con l’inesauribile ricchezza della loro trasfigurata simbologia;
più delle balene, che navigano misteriose fra le pagine di libri splendidi come
Moby Dick di Mellville; forse più di
ogni altro animale reale, sono le fantastiche sirene che più profondamente
hanno affascinato nei millenni la mente umana.
Le
sirene sono giunte a noi come entità femminili del mare, che seducevano
il navigante col canto e lo distoglievano dalla giusta rotta.
Fra tutte le raffigurazioni che la nostra immaginazione ha potuto concepire
dell’ambiente naturale più vasto e inquietante che ci circonda, questa è certo
una delle più potenti e diffuse. Ne è popolato il vasellame di tutto il
Mediterraneo, le loro forme appaiono dovunque nei bassorilievi, nelle sculture…
Basti pensare che nell’Odissea Omero
ne ha lasciato una raffigurazione essenziale in appena pochi versi,
ma che sono rimasti incisi per sempre e in modo indelebile nella
tradizione folclorica, letteraria, artistica. E’ vero che la stessa fortuna non
hanno avuto testi letterari in cui le misteriose e terribili figure – magari
diversamente rappresentate - pure compaiono, come le Argonautiche di Apollonio, uno dei più antichi di argomento marino.
Ma questo non vuol dire che nell'insieme, la tradizione non appaia
complessa e vasta.[1] E che si tratti di
un mito dal nucleo inossidabile, in grado di esercitare ancora oggi tutto il
suo fascino lo prova perfino uno dei più fortunati film della produzione
Walt Disney, La sirenetta.
Ibridi.
Spesso – nella tradizione
marinaresca - ci si imbatte nella fiducia che un mito così diffuso debba
necessariamente discendere da esperienze vissute, condivise, in certo
confermate dall’esperienza concreta… E così non senza compiacimento si
ipotizza che all’origine di questo racconto vi sia stato un vero animale
marino, un mammifero ormai scomparso, o quasi, nel Mediterraneo: la foca
monaca. I pescatori e i marinai per millenni avrebbero fantasticato sulla
presenza di simili miti creature (le cui femmine sono dotate di mammelle) su
scogli sperduti nel mare o anche lungo le coste inaccessibili. La loro
apparizione non era infatti infrequente prima che i traffici marittimi e gli
inquinamenti ne riducessero la popolazione complessiva forse a poche unità.
Stefano D’Arrigo in Horcynus Orca (un
poderoso romanzo di argomento marino di qualche lustro fa) vi
alludeva direttamente: “ ma ve la figurate a sirena sta iattamammona? Ve la
figurate che fa impazzire gli uomini con le sue beltà? E dove le ha ste beltà?
Dove se le tiene nascoste? E i galleggianti dove li ha? Dov’è minnuta? E
la capigliatura lunga, riccia e bruna? E il biancore di pelle come di latte
eh?.. “
E
analogamente all’origine delle stesse credenze in altri mari saranno stati
altri mammiferi come i dugonghidi – diffusi un tempo nell’oceano indiano, in
Australia, nel golfo Persico, nel mar Rosso… O i lamantini, presenti dalle
coste d’Africa all’Amazzonia, dalla Florida ai Carabi. C’è stato nei secoli
passati un gran fiorire di studi e osservazioni su questi animali, un ripensare
estenuante a certe loro affinità con gli esseri umani, fonte di ogni fantasia e
supposizione. Lo stesso Jules Michelet, nel suo libro del 1861 sul mare, con
mente razionale ma con gli strumenti scientifici limitati del tempo, aveva
cercato di indagare le ragioni evoluzionistiche di tali animali, da sempre
oggetto di attenzione da parte dell’uomo, ma soprattutto di crudeltà tali da
arrivare di fatto al loro sterminio.
Da
tutto questo retroterra culturale, sono scaturite le sirene. Archetipi
affascinanti e inquietanti di ibrido, le sirene sono state a lungo
raffigurate per metà donne e per metà uccelli. Solo in età tarda
saranno per metà pesci. Ma la fede nella loro esistenza non è stata indiscussa…
Nel suo fervore di grande razionalista, Lucrezio negava che potessero esistere
creature (non diversamente dai centauri) formate da membra fra lori
discordi, membra che non crescono parimenti né decadono insieme
nella vecchiezza, né possono amare nello stesso modo, e che nemmeno possono cibarsi
delle stesse sostanze. Addirittura, Virgilio nell' Eneide ne evitava la rappresentazione, lasciandoci solo
intravedere i loro scogli disseminati di resti umani, forse accogliendo
la tradizione che le voleva morte suicide dopo il passaggio di
Ulisse. Al pio Enea fu risparmiato dunque il confronto immondo con quei
mostri.
Forse
proprio la loro enigmatica natura mista le ha fatte giungere fino
a noi : portano con sé
- nell'ibridismo - l'ambivalenza, la polarità, la doppiezza,
dimensioni a cui l'arte e la poesia moderna si
sono aperte largamente. Alberto Savinio scriveva a Ibsen a
proposito di quelle sue figure umane dalla testa di
cavallo : in queste forme apparentemente ibride
e fondamentalmente armoniose, vi è traccia dell’espressione
del carattere umano più profondo e sacro.
La
bonaccia.
Qui
vorremmo riflettere sugli originari aspetti marini del mito, un’occasione
per riflettere su aspetti profondi e forse poco evidenti, ma centrali del
nostro rapporto culturale, contraddittorio e perfino a volte conflittuale, con
l’ambiente del mare.
Nel
racconto di Apollonio i marinai, spinti da una vivace brezza,
incontrano le sirene. Non c'è per loro il pericolo di restare
fermi nella bonaccia ad ascoltarle, il loro richiamo
semmai può indurre ad abbandonare la nave per unirsi a loro.
Come fa il giovane Bute, il più sfortunato di tutti, che si tuffa
in mare, ma che tuttavia è salvato da Afrodite e fonderà con lei Lilibeo.
In Omero invece la brezza non c'è : i marinai di Ulisse
devono far forza sui remi con grande
volontà per allontanarsi dalla zona dove le sirene estendono
la loro pericolosa influenza. Quella zona
di mare è infatti caratterizzata dalla bonaccia.
Non c'è un alito di vento, l'unico modo per non arrestare la
corsa è remare. Questa diversa situazione raffigurata nell'Odissea,
pare essere risultata la più suggestiva, quella che più ha influenzato la
tradizione : le sirene, variante di demoni meridiani,
compaiono in una bonaccia nociva e paralizzante, nel momento della
canicola, dei raggi a perpendicolo (si ricordi che il
sole ammorbidisce la cera con cui Ulisse si tura le orecchie).
Nella tradizione letteraria - dalla Ballata del Vecchio marinaio di Coleridge ai drammi marini di O’
Neill al nostro Mario Tobino (L’angelo
del Liponard è fra i più bei racconti italiani di ambiente marino) - la
bonaccia, si sa, è considerata un grande pericolo per i naviganti,
pericolo talvolta anche maggiore della tempesta. In mezzo al mare,
l'inazione, la stasi, il ristagno di ogni forza contagiano la
nave : sopravviene il torpore, la
pesantezza, lo stordimento. E quindi la perdizione, la morte.
Fra i
recenti romanzi contemporanei che giocano proprio su questi temi, vi è La stiva e l’abisso di Michele Mari
(Milano Bompiani 1992). In una estenuante bonaccia un galeone spagnolo è
immobile nell’oceano… Lo sfacelo del corpo tiene immobile il capitano. Ma un
analogo sfacelo corrompe la nave. Il confine fra la vita umana di bordo e la
vita inquietante e misteriosa del mare si fa labile, la vita del mare
comincia ad occupare la stessa stiva con la comparsa inspiegabile di creature
sconosciute.
In
greco “bonaccia” si dice galène,
e il termine indica il mare calmo, sereno, ma in senso traslato indica anche
serenità d'animo. Però bonaccia si dice anche malakìa : il senso di questa parola è un po’
diverso, la sua accezione è negativa : si
estende a mollezza, effeminatezza, e anche
a ignavia, fino a malattia. Il Vocabolario marino e militare del
Padre Alberto Guglielmotti (Roma 1889), che raccoglie vari modi di dire per
bonaccia, spiega il termine malaccia
con “ requie spossata e nociva”. Insomma, lo sa chiunque vada per mare, ci
sono due diverse calme marine : una
piacevole e positiva, l'altra inquietante, corruttrice e
pericolosa. Ora la sirena è collegata indissolubilmente alla malakìa, alla calma
pericolosa e mortale.
Quanto alla parola che usiamo per indicare le
sirene, seppure l’etimologia appaia incerta, le varie tracce paiono suggerire
un significato omogeneo. Forse il termine viene dal greco seirà, che vuol dire
legaccio, corda, laccio? C’è un verbo seirazein che
vuol dire legare: ma un altro seirazein vuole per altro dire prosciugare,
provocare siccità, con riferimento ai pascoli. E si sa che il sole allo
zenit pareva avesse l’identico potere del malocchio, di arrestare la corsa
della nave quasi la legasse (ligatio navis). E’ anche possibile infatti che
sirena venga da seirios, ardente, bruciante. Potrebbe esserci dietro il
sanscrito surya, sole o anche bruciante e insopportabile siccità, con
riferimento in tal caso al sole zenitale, cioè proprio a quell’ora meridiana in
cui le sirene si manifestavano. Ma, come qualcuno ha proposto, sirena può forse
venire semplicemente dalla stella Sirio, costellazione della canicola. Ma di
nuovo siamo rimandati allo stesso campo semantico, si rimane insomma nello
stesso ambito di significazione, di caratterizzazione: Sirio - ricordava Roger
Caillois nei suoi studi giovanili sui demoni meridiani[2] - portava con sé un’atmosfera
perniciosa capace di corrompere la carne ancora attaccata alle ossa, facendo
marcire i corpi nella terra. Sirio è l’astro più brillante di tutti, che rende
le donne lascive, spossa le energie degli uomini. Per contro la siriasi -
infiammazione per troppo caldo - equivale all’assideramento dovuto alle basse
temperature nel senso che presenta gli stessi sintomi psicofisici
caratteristici della canicola : spossatezza, sonnolenza, apatia. Che sono poi
di nuovo gli stessi effetti ipnotici e fatali che la tradizione mitica
attribuisce al canto delle sirene. E’ stato infatti anche notato che sia nelle
nebbie che nella bonaccia marine si hanno gli stessi fenomeni psichici dello
smarrimento sulla neve e sui ghiacci, quali perdita di sicurezza, di
orientamento, di riferimenti e di stimoli. Uno dei drammi marini di O’ Neill La
pesca è ambientato tra i ghiacci dei mari nordici,
e la vicenda che si svolge a bordo del peschereccio avrebbe senz’altro potuto
avere come sfondo la bonaccia dei mari caldi...
Le
conferme letterarie non mancano. Già Claudiano (IV sec. d.c.) ha
scritto : "Sulle carene delle navi (le sirene) fermavano
l'aria avvolgente mentre dalla poppa una voce
colpiva l'imbarcazione. Né piaceva più al navigante
orientarsi nel sicuro cammino del ritorno. Ma non
c'era dolore, la stessa gioia dava la morte." E Marziale
"Sirene, pena ilare dei naviganti, morte soave, godimento
crudele." Pavese in uno dei dialoghi con Leucò, fa
dire a Saffo parole perfette sull'angoscia e il desiderio
dell'annullarsi nel mare : "Ma tu lo senti
questo tedio, quest’inquietudine marina ? qui tutto
macera a ribolle senza posa..."
Ma le
sirene sono per più aspetti legati alla morte : esseri meridiani,
rappresentano anche i defunti. Alcuni commentatori (Georg Weicker)
insistevano sul fatto che nell'episodio omerico, il nucleo
portante fosse il vampirismo animistico, secondo una
tradizione che si sarebbe smarrita. Ebbene,
in Coleridge (e anche in altri moderni) proprio questa tradizione è
ripresa : l'antico marinaio assetato per la bonaccia, beve il suo stesso
sangue per rinfrescarsi la bocca. In una leggenda tedesca tutti a bordo
stanno morendo, per una bonaccia terribile, di sete e fame. E
il pilota propone che si uccida il mozzo per berne il sangue... (sangue e
acqua di mare, si sa, si equivalgono, perfino biologicamente, e nella bonaccia
il mare diviene sangue). Per non dire della
tradizione di racconti di naufraghi alla deriva, che si
nutrono di carne umana, coma la vicenda famosa della Medusa,
o quella della baleniera Essex.
Le
acque in cui le sirene esercitano il loro pericoloso
richiamo, sono dunque con certezza la acqua calme,
molli, corrotte e corruttrici, quelle della bonaccia :
della malakìa. Chi cede, chi
non fa forza sui remi, chi si lascia andare al torpore, all'inazione,
allo stordimento, finisce sugli scogli. E il suo corpo
vampirizzato è destinato a corrompersi, a marcire, ad andare in putrefazione.
Benché si possa affacciarne solo l'ipotesi suggestiva,
tali connotazioni propongono un argomento dei
meno studiati, quello dei morti annegati, i cui corpi
marciscono sulle rive. In certe tradizioni, i corpi degli
annegati vengono trafitti al cuore con un paletto
di legno, e sepolti in terra non
consacrata : trattati cioè proprio come vampiri.
Che
anche attraverso l'accenno al vampirismo riaffiori nel mito un aspetto
di mortale attrazione sessuale, non
sorprende. Le sirene hanno forma femminile, seducono l'uomo e lo portano
alla rovina, eccitandone un lussuria che non soddisfano, per alcuni
commentatori perché non avrebbero nemmeno l'apparato sessuale
idoneo (viene in mente la ricca tradizione che vuole identificare nelle sirene
le foche monache o altri mammiferi marini). Le conferme nella cultura moderna
sono infinite.
Nel
bellissimo racconto Lighea, Giuseppe
Tomasi di Lampedusa racconta di un govane che isolatosi su una sperduta
spiaggia siciliana per studiare, entra dopo molti giorni di vita solo a
contatto col sole, col mare e col silenzio, in relazione con una bellissima
sirena, che gli consente di assaporare l‘amore che solo i divini possono
sperimentare. Da Lighea il giovane riceverà anche la conoscenza della lingua
classica tanto da diventare il più grande studioso di antichità. Ma per tutta
la sua vita egli non potrà più avvicinare altra donna mortale, avendo
conosciuto qualcosa che non è paragonabile a nient’altro. Se Lighea nei giorni
assolati del loro amore giovanile gli aveva offerto di raggiungerla negli
abissi e godere con lei delle gioie infinite dell’immortalità, il professore ha
preferito invece svolgere tutta la sua vita umana sulla terra, anche privo di
quell’unico grande privilegio che è l’amore di una divinità. Ma arrivato alla
vecchiezza, dopo aver confidato a un giovane interlocutore la sua vicenda,
decide di dare infine addio alla banale e dolorosa, insoddisfacente vita umana
per tuffarsi dal parapetto della nave e raggiungere fra i flutti l’amore
giovanile nella sua intatta eterna perfezione acquatica.
Solitudine del comandante.
L'episodio
omerico di Ulisse mantiene un grande fascino per la solitudine del
comandante, legato per suo volere all'albero. La
sua diversità dai marinai è anche in quel suo voler sperimentare la voce
delle sirene, tuttavia impedendosi a
priori di restarne vittima. Sia nei drammi marini
di O’ Neill che nell’ Angelo
del Liponard di Tobino, come in tanti analoghi testi
straordinari di Conrad, ma anche nel passi ovidiani di Bacco e i
pirati, il capitano è l’essere solitario e superiore, figura sacra investita di
potere religioso : la sua importanza a bordo, il suo ruolo
insostituibile lo rendono colui che più drammaticamente deve contrastare, con
la sua volontà ferrea, le tentazioni. E’
evidente che la tematica si è sviluppata nella cultura
cristiana con caratteri propri. In genere, tuttavia, egli deve essere
casto, non cedere al richiamo della sirena
dell'amore. Paura della sirena sarà allora anche paura di perdersi, di
tradire e di abbandonare, di trasformarsi. Per questo
nell'episodio di Bacco nelle Metamorfosi ovidiane
i marinai si trasformano in delfini. Interessante anche la metamorfosi
descritta da Ovidio della ninfa Ciane, talora ritenuta una sirena. Ovidio
descrive il disfarsi del corpo di Ciane : la sua membra
si fanno molli, le ossa diventano pieghevoli, le unghie
perdono durezza, al posto del sangue entra l'acqua, tutti si
sfa, diviene inafferrabile. Ogni sostanza si trasforma in
acqua passando per la corruzione a il disfacimento del corpo.
Ma
a differenza della ninfe, delle nereidi o di
altre figure femminili dell'acqua e del mare, le sirene sono
donne-uccello, appollaiate su scogli marini. la coda di
pesce verrà più tardi, Da Omero ai cristiani
le sirene sono donne-uccello come le sfingi. E come
queste hanno relazione con la sapienza. La sfinge che propone a
Edipo il suo enigma, saggia il potere conoscitivo dei passanti. E
infatti Edipo è “colui che sa”. La sfinge rende succubi coloro che non
hanno intelligenza sufficiente, dà loro la morte, addirittura vi è collegato
anche (come si vede nelle raffigurazioni) un dominio sessuale. La
stessa cosa avviene per le sirene da Omero in poi. In
particolare per gli antichi greci (così scriveva Ateneo nel II-III
sec.) la vera sapienza era connessa alla musica. Il canto
straordinario seducente e ammaliatore delle sirene, la situazione
di pericolo che si determina nelle loro acque, è un enigma, e solo chi è
intelligente come Ulisse, l'astuto per eccellenza, si salva. Ma quale
fosse l'enigma delle “dotte” sirene (proprio così le
chiama anche Ovidio), in cosa consistesse davvero il
loro straordinario canto, è rimasto un mistero : quesito
ritornante nella tradizione, rimasto senza risposta.
Lorenzo Greco