Renzia D’Incà
E lo chiamano ‘Teatro
sociale’
Lo chiamano Teatro sociale. Se per alcuni
politici è stata, qualche volta, la classificazione compassionevole di un
ghetto a basso costo, per padrini cinici un marchio un po’ spregevole e per gli
opportunisti anche teatranti-talvolta purtroppo, un sottobosco di sfruttamento
dei soggetti deboli, per noi, critici teatrali: cos’è?
Anche alla luce delle profonde
trasformazioni politico-istituzionali (il MIB/act è di quest’estate), con in
atto una involuzione dell’intero sistema culturale italiano legata alla
profonda crisi economica di sistema vissuta in questo momento da tutti i Paesi
europei ed occidentali, come sempre, chi ne fa le spese, in scuola pubblica
come in cultura, sono le fasce più deboli della popolazione. Pensiamo allora a
quelle famiglie che oltre al peso di maggior
povertà in più hanno in carico disabili, fisici e mentali, persone con disturbi
adolescenziali come anoressie|bulimie che poi sfociano spesso in problemi di patologie
a carico della sanità pubblica generalista cioè tutti noi (oggi a sua
volta a gran rischio di tagli). Il ruolo del teatro a differenza delle arti
terapie a cui talvolta è semplicisticamente accomunato (dalle azioni di strada
a Torino anni Settanta fino alla proliferazione dei teatri nei bassi napoletani
anni Duemila a bonifica di zone ad alto rischio di delinquenza minorile) poteva
aver assunto una valenza politica di aggregazione e di scioglimento almeno
parziale dei conflitti anche a bada di territori terre di nessuno, insomma una
sorta di scudo protettivo nei confronti di realtà di emergenza sociale specie
giovanile in cui la valenza relazionale che è intrinseca alla pratica teatrale,
ha antropologicamente assunto significativa evidenza anche storicamente
documentata.
Eppure, a volte e ancora, il
cosiddetto Teatro sociale (etichetta di per sé stretta a molti che l’hanno
praticata ribattesimandola magari Teatro civile o talvolta Politico) come
sempre, suscitata da un atto espressivo a/sociale nato e cresciuto fuori dalle
economie del teatro, può essere, e talvolta diventa, arte allo stato puro. E lo è, di fatto, da quando è nato il teatro
di ricerca novecentesco (ciò vale anche per il cinema, con esempi davvero
straordinariamente interessanti degli ultimi anni in Italia- e non cito, perché
non ce n’è bisogno, dato lo spazio
intellettuale in cui stiamo interagendo).
Ciò lo sa bene chi ben conosce la
storia delle avanguardie nazionali ed internazionali novecentesche in cui sia
autori, uno per tutti Beckett che frequentò le peggiori carceri internazionali, così come artisti
ed operatori che si addentrano nel provare a tessere relazioni specie in ambito
giovanile e quindi a fare cultura per
recuperare soggetti a rischio nei quartieri assediati dalla delinquenza minorile,
nelle zone di mafia, di spaccio, di immigrazione insomma nel disagio sociale
come nella malattia, ha nutrito la propria mescolanza narrandola in forma appunto, d’arte e spesso
con risultati d’eccellenza.
Forse e non a caso, molto giovane,
per istinto e per passione seguivo le primissime esperienze di Teatro carcere
del regista Armando Punzo a Volterra. Ricordo l’emozione di meraviglia mista a
stupore (e ditemi se queste due emozioni non sono tangibile esperienza
sensibile di visione di una forma di teatro allo stato puro) provata per un Pippo
del Bono ai suoi albori visto la prima volta proprio a mezzanotte nella Piazza
dei Priori (allora inserito nel festival di Roberto Bacci, era il 1999 con
Barboni), seguendo poi esperienze nei Convegni appena nascenti dove ho
assistito ad altri lavori, ne cito due fra i tanti, quelli di Lenz Rifrazioni e
di Isolecomprese, a cura di Vito Minoia e Emilio Pozzi sui Teatri delle diversità a Cartoceto, sulla scia anche di indicazioni
del mio maestro (e prefatore dei volumi che poi avrei firmato per il Teatro
Politeama di Cascina) Giuliano Scabia.
Voglio ricordare anche l’esperienza di Teatro sociale di Viterbo dove lavorava uno
straordinario primario psichiatra prematuramente scomparso (2008) allievo di
Giovanni Bollea (neuropsichiatra infantile di fama internazionale) insieme al
suo staff di operatori ed insegnanti con
l’associazione Eta Beta guidata dall’amatissimo allievo Giorgio Schirripa che collaborava anche con la Neuropsichiatria infantile pisana
e Stella Maris. Con quel gruppo e anche
nel carcere viterbese, ha lavorato con suoi collaboratori Fabio Cavalli proprio in concomitanza con l’esperienza di Rebibbia
e del film dei Taviani.
Nel frattempo mi occupavo per
studio della ciclopica, in solitaria impresa, di Orazio Costa, che di seguaci e
di “barboni”, fra Roma e Firenze ne aveva e ne ha ancora moltissimi fra i suoi
ex allievi attori e registi in quanto
portatori di impegno civile e sociale appreso proprio dalla lezione umanistica del
grande maestro di intere generazioni di artisti
passati dall’Accademia d’arte drammatica di Roma (ne cito solo due fra i tanti:
i fiorentini Alessandra Niccolini e Paolo Coccheri).
Per quanto riguarda un’obiezione spesso sentita
dalla critica, più vecchio stampo: ma con quale linguaggio dobbiamo affrontare
questo Teatro sociale? per me la risposta è semplice: quello delle categorie
dell’arte e dell’analisi critica di nostra pertinenza. Punto e basta. Se poi
arte non c’è, pazienza, non ne scriveremo.
Perché forse non abbiamo recensito il lavoro di Danio
Manfredini, così apprezzato anche dal mondo della psichiatria?
Forse è per questa attenzione sensibile al fenomeno
che mi sono avvicinata all’esperienza da me documentata per la Regione Toscana
in due distinti step ne“Il gioco del
sintomo” (Pacini Fazzi- Lucca 2002, poi in ristampa con aggiornamenti ne “Il teatro del dolore”, Titivillus- 2012 testo adottato presso la Laurea
in Riabilitazione, Facoltà di Medicina-Università di Pisa, Psichiatria) esperienza
ventennale presso la Città del teatro di Cascina diretta allora da Alessandro
Garzella- (e fino al 2011), condotta dal regista
con malati mentali in collaborazione con
l’USL 5 di Pisa.
Strettamente collegato con i
bisogni, le urgenze, le follie del quotidiano che generazioni e generazioni di
donne e uomini vivono nella propria
quotidianità tuttora ed hanno vissuto fra emergenze come: guerre, fenomenologie
repressive legate al Potere di turno repressivo delle differenze ideologiche,
sessuali, etniche, religiose, oltre che
ai parametri di prestazione fisica e
psichica vedi diverse abilità, quello
che oggi è etichettato come Teatro sociale, aveva iniziato ad assumere nel tempo
nel nostro Paese una sua distinta
autonomia fra i diversi generi teatrali più in voga almeno per un più
largo pubblico di teatro.
Tuttavia nella legge regionale
della Toscana, che per il triennio segna
i connotati del sistema e gli organismi che godono di risorse pubbliche, non
v’è traccia di quelle che sarebbero potute essere destinate al “teatro sociale”.
Mi sono rivolta una serie di
domande cruciali sul tema, il Teatro sociale appunto, qui indagato in questo
consesso così atipico per la sua-almeno apparentemente ispirata debordianeità da parte
di una neorealtà di colleghe e colleghi
di diverse generazioni dentro una convergenza mobilissima e molto
individualmente tratteggiata quale questa
anarcoide di Rete Critica e proprio dentro un luogo a me particolarmente caro,
il Carcere di Volterra dove ne seguo e
ho recensito i primi spettacoli per Hystrio
fin dal 1990.
Credo che lo sguardo di noi
critici nei confronti di spettacoli definiti semplicisticamente Teatro sociale debba rimanere molto indipendente ed in
autonomia di giudizio personale e responsabile-come deve essere per deontologia
professionale da parte di una categoria come la nostra, quella di giornalisti
esperti di cultura che hanno avuto ed hanno esperienze di spazi sia cartacei
che in web. Attenti alle mutazioni, alle riflessioni critiche sul nostro
lavoro, ma anche intellettuali pronti a scendere in campo e sporcarci le mani.
Personalmente ho attraversato un
percorso di ricerca decennale da osservatrice esterna sin dal 2000 presso la Città del
Teatro di Cascina dei processi di lavoro operanti in quello che era il secondo
polo regionale toscano di Teatro stabile
di Innovazione ed ho visto alcune straordinarie esperienze di ricerca
laboratoriali protette con pazienti psichiatrici. Da quei laboratori sono
emerse due personalità di pazienti inseriti in percorsi di inserimento
lavorativo come attori. Ne sono nati tre spettacoli che hanno girato in Toscana
e altrove fra cui mi piace ricordare Re nudo, diretti da Alessandro Garzella. In questi lavori ( anche descritti nel volume
Il teatro del dolore) si sono mescolate le utenze psichiatriche con attori
professionisti. Ci sono testimonianze tradotte in film-video molto forti di
quelle esperienze laboratoriali, fra cui quella di Giacomo Verde e di Daniele
Segre.
Perché non ricordare, a questo
punto, il lavoro di Misculin?